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Quando gli atleti neri sfidarono l'imperialismo statunitense

di Anwar Fenaoui - 07/05/2008

 

Quando gli atleti neri sfidarono l'imperialismo statunitense



Tra pochissimi mesi avrà inizio la XXIX edizione dei Giochi Olimpici, la terza volta in Asia e la seconda in un paese “comunista”.
Per questi Giochi l’organizzazione cinese ha predisposto ingenti risorse e mezzi, vedendo in essi l’occasione di mostrarsi in una nuova luce davanti alla comunità internazionale. Ma la vigilia non si è svolta nel clima migliore: rivolte nel Tibet (inglobato nel 1949), morti, manifestazioni di protesta in tutto il mondo contro il regime cinese e la successiva repressione nonché incidenti sul percorso della fiamma olimpica, hanno funestato l’attesa di miliardi di appassionati sportivi.
Tutto ciò non è nuovo al mondo olimpico, infatti molte furono le edizioni precedute da manifestazioni di protesta o da condanne di varia motivazione, spesso legittime: per i giochi organizzati dalla Germania hitleriana a Berlino nel 1936; contro la partecipazione del Sudafrica razzista (Tôkyô 1964); verso la Rhodesia Meridionale segregazionista (Monaco di Baviera 1972) o la protesta africana a Montreal 1976. Ma in alcune occasioni sono state indotte solo dalla ragion di Stato: la ben nota diatriba Cina Popolare-Cina Nazionale (iniziata sin dal 1956), il boicottaggio statunitense per l’invasione sovietica dell’Afghanistan che indusse 61 Comitati olimpici nazionali a disertare Mosca 1980, e la conseguente ritorsione del Cremlino appoggiata da altri tredici Paesi socialisti in occasione della successiva olimpiade (Los Angeles 1984), ecc.
Vale la pena ricordare l’avvicinarsi del quarantesimo anniversario del Massacro di Tlatelolco, prima volta in cui il sangue fece il suo ingresso alla vigilia dell’evento decoubertiano, nei Giochi Olimpici di Città del Messico del 1968. Un anno caratterizzato non solo da un clima molto violento (l’omicidio di Martin Luther King, Jr. [1929-68], il successivo di Robert “Bobby” Francis Kennedy [1925-68], la primavera di Praga, l’escalation in Vietnam, gli studenti europei in rivolta) ma anche dalla sentita necessità da parte delle nuove generazioni, le più dinamiche, di un cambiamento di rotta portatore di nuove aspettative e libertà.
Da questo presupposto partirono le manifestazioni dei giovani messicani contro il regime di Gustavo Díaz Ordaz (1911-79), in modo particolare gli studenti dell’Universidad Nacional Autónoma de México, il cui campus fu occupato dall’esercito dietro ordine del presidente e trasformato in teatro di violenze.
In risposta le proteste si rafforzarono, con un ampio e lungo sciopero studentesco, spesso approfittando dell’attenzione mediatica internazionale, attirata dalla contestazioni mosse dalla squadre europee per la scarsità d’ossigeno e le sue ripercussioni nel rendimento e nella salute degli atleti. Il culmine vi fu il 2 ottobre: migliaia di studenti e lavoratori si riversarono nelle strade della capitale, confluendo nella storica Plaza de las tres Culturas di Tlatelolco, per chiedere la fine dell’occupazione del campus e maggiore giustizia.
Poche ore dopo, per stroncare il movimento studentesco le forze di polizia con l’ausilio dei granaderos circondarono i manifestanti con mezzi blindati ed armi pesanti, sparando poi sulla folla inerme. La giustificazione del governo per la strage parlò di atto di difesa da parte delle forze dell’ordine contro gruppi sovversivi ed armati, con poche decine di morti e per lo più militari, ma più fonti parlarono di un numero di vittime superiore, almeno un centinaio e soprattutto di civili non armati.
L’organizzazione dei Giochi non subì nessuna variazione, nonostante questo evidente insulto ai valori portanti olimpici, furono aperti regolarmente il 12 ottobre (chiusura il 27), non mancando di stupire ancora sia a livello sportivo per i numerosi record battuti, sia a livello di lotta sociale con il famoso gesto del Black Power (senza scarpe, calze nere, pimp socks, e pugno chiuso levato in alto coperto da un guanto nero) degli atleti neri statunitensi Tommie Smith (n. 1944) e John Carlos (n. 1945), vincitori nei 200 metri, contro la discriminazione degli afroamericani nei “liberi” Usa. Per decisione del presidente del Comitato Internazionale Olimpico, lo statunitense Avery Brundage (1887-1975), Smith e Carlos furono sospesi dalla squadra americana con effetto immediato ed addirittura espulsi dal Villaggio olimpico. Tornati in patria, i due atleti subirono altre ritorsioni, fino a ricevere addirittura minacce di morte. Aveva detto Payton Jordan, uno dei responsabili della squadra amerikana presenti alla premiazione: “Se ne pentiranno per il resto della loro vita” (1). Rispose Smith: “C’è stato un momento in cui ci hanno applaudito: quando la gara era terminata. Ma sappiamo che vi sono dei bianchi che pensano ai negri come a degli animali non pensanti, delle formiche; per altri siamo cavalli da parata. Quando abbiamo levato il pugno, qualcuno, in tribuna, ha mostrato il pollice verso...” (2).
Però il tempo dette ragione a loro e torto a Brundage. Smith divenne nel 1978 membro della Hall of Fame dell’Atletica Leggera Usa. Nel 1996 fu insediato nella Hall of Fame dello Sport Nero californiano, e nel 1999 da quella stessa organizzazione ricevé il Premio di “Sportivo del Millennio”. Nel 2000 e 2001 la Contea di Los Angeles e lo Stato del Texas resero omaggio a Smith con il Premio “Encomio, Riconosci-mento ed Elogio”. Per la sua vita dedicata all’atletica, all’insegnamento, ed ai diritti civili, Smith ha conseguito il Premio “Coraggio della Coscienza” dall’Abbazia della Pace di Sherborn (Massachu-setts).
John Carlos non è stato da meno. Nel 2003 è entrato Hall of Fame dell’Atletica Leggera Usa. Nel 2007 lo Stato del Nevada lo ha onorato con l’altissima onorificenza Trumpet Awards a Las Vegas.
Il 17 ottobre 2005 – XXXVII anniversario del loro gesto – la San José State University (Silicon Valley) ha scoperto un monumento scolpito dal portoghese Ricardo Gouveia (Rigo 23) in onore degli ex allievi Tommie Smith e John Carlos, per la loro protesta olimpica a favore dei diritti dei neri statunitensi da sempre calpestati. Uno dei rarissimi casi (dittatori a parte) di monumenti eretti a persone ancora vive.
Oggi dei razzisti Avery Brundage (1887-1975) e Payton Jordan (n. 1917) resta solo l’infamia dei loro gesti e dichiarazioni, tipici dell’amerikano wasp.