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Impatto profondo

di George Monbiot - 17/06/2008

C’è ancora qualcuno convinto che trasformare il cibo in carburante sia una buona idea? Solo i responsabili di questa politica folle, che costringono tutti gli automobilisti d’Europa a collaborare ad essa.

In teoria, i carburanti ricavati dalle piante possono ridurre la quantità di anidride carbonica emessa da automobili e autocarri. Le piante assorbono anidride carbonica durante la crescita, che viene rilasciata quando si brucia il carburante. Una direttiva emanata dalla Commissione Europea impone ora a tutti i fornitori di carburante di aggiungere biocarburanti alla benzina o al gasolio che vendono, al fine di ridurre le emissioni di carbonio.

Ancor prima che la direttiva entrasse in vigore, numerosi studi avevano dimostrato che era un’assurdità. Un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato l’anno scorso indica che il 98% della foresta pluviale naturale dell’Indonesia sarà degradato o scomparso entro il 2022. Solo cinque anni prima, gli stessi organismi prevedevano che ciò sarebbe avvenuto non prima del 2032. Non avevano tenuto conto della piantagione di palme da olio da trasformare in biogasolio per il mercato europeo.

Quando si diboscano e bruciano le foreste, sia gli alberi sia la torba su cui crescono si trasformano in anidride carbonica. Un rapporto della società consulente olandese Delft Hydraulics mostra che ogni tonnellata metrica di olio di palma determina fino a 33 tonnellate metriche di emissioni di anidride carbonica, 10 volte più di quanta ne produca il petrolio. L’impatto sul mondo intero è analogo, in quanto i coltivatori di “carburanti verdi” invadono habitat vergini.


Due saggi recenti pubblicati sulla rivista Science calcolano i costi in termini di carbonio della produzione di biocarburanti. Se si tiene conto del diboscamento, tutti i principali biocarburanti producono un aumento massiccio delle emissioni. Anche la fonte più produttiva – la canna da zucchero coltivata nelle savane coperte di arbusti del Brasile centrale – crea un debito di carbonio per ovviare al quale occorrono 17 anni. Dato che è adesso che bisogna effettuare le maggiori riduzioni, l’effetto netto di questo raccolto è di acuire il cambiamento climatico.

La fonte peggiore – l’olio di palma che sostituisce la foresta pluviale tropicale che cresce sulla torba – provoca un debito di carbonio per il quale occorrono circa 840 anni. Anche quando si produce etanolo dal mais coltivato su terra arabile “riposata” (chiamata nell’Unione Europea “incolto” e negli Stati Uniti “area protetta”), ci vogliono 48 anni per ovviare al debito di carbonio. Per essere giusti con la Commissione Europea, la direttiva stabilisce che i biocarburanti non siano prodotti distruggendo le foreste primarie, i pascoli antichi o le zone paludose. Inoltre, non si deve danneggiare alcun ecosistema biodiverso per coltivarli. Purtroppo ciò non contribuisce affatto a risolvere il problema.

Se non si possono produrre i biocarburanti in habitat vergini, bisogna confinarli nelle terre agricole esistenti, il che significa che ogni volta che facciamo il pieno leviamo il cibo di bocca a qualcuno. Nella competizione tra automobilisti e persone che hanno fame vincono sempre i primi, perché quelli che soffrono la fame sono più poveri di quelli che possono permettersi di guidare un’automobile.

Con l’aumentare del prezzo del cibo, gli agricoltori sono incoraggiati a distruggere gli habitat intatti – foreste primarie e via dicendo – per coltivarli. Possiamo felicitarci con noi stessi per esserci mantenuti moralmente puri, ma l’impatto è identico. Non esiste via d’uscita: su un pianeta limitato, con fonti di cibo esigue, o si compete con chi soffre la fame o si diboscano nuove terre.

Anche se non ci fossero effetti a catena, i biocarburanti sarebbero comunque un disastro per l’ambiente. Uno studio del Premio Nobel Paul Crutzen indica che le sole emissioni di ossido di azoto, determinate dai concimi azotati usati nella coltivazione di questi raccolti, fanno sì che l’etanolo ricavato dal mais provochi un riscaldamento pari a 0,9-1,5 volte quello dovuto al petrolio, mentre l’olio di colza (fonte dell’80% e più del biogasolio mondiale) provoca un impatto pari a 1,7 volte quello del gasolio minerale.

Non esiste una facile via d’uscita. Molti hanno sostenuto che le alghe che crescono in acqua di mare possono dare grandi quantità di carburante, ma tale progetto non ha ancora avuto successo. Altri hanno salutato un arbusto tropicale, la jatropha, come una pianta miracolosa (guardatevi dalle piante miracolose!) perché in teoria potrebbe essere coltivato da piccoli proprietari terrieri su terreni sterili. In pratica, il governo indiano ha in progetto 14 milioni di ettari di piantagioni di jatropha e caccia i piccoli proprietari dalla terra per fare posto ad esse. La giunta birmana vuole piantare 3 milioni di acri di jatropha entro l’anno prossimo, il che non andrà a vantaggio dei contadini del paese.

Anche l’idea di utilizzare gli scarti dell’agricoltura pone problemi. Gran parte dello “scarto” non è affatto tale, ma il materiale organico che conserva la struttura del terreno, i nutrienti e la riserva di carbonio. Eliminandolo si aumenta enormemente il tasso di erosione del suolo e occorre utilizzare più concimi azotati. I biocarburanti sono il peggiore dei fast food, facendoci precipitare lungo la china della distruzione ecologica.

Allora perché i nostri governi insistono su questa politica? Perché diffondere la fame e rovinare il pianeta sono atti politicamente meno costosi delle alternative: far sì che gli industriali producano auto più efficienti e incoraggiare la gente a optare per forme meno inquinanti di trasporto. Un crimine contro l’umanità in un altro luogo e in un altro tempo costa ai governi meno di un disagio minore qui e ora. Dobbiamo cambiare questa formula protestando contro la nostra partecipazione coatta alla guerra contro il pianeta.

Tratto da Slowfood 34

George Monbiot, giornalista e scrittore inglese, è autore di vari libri sull’ambiente e collaboratore del quotidiano The Guardian

Traduzione di Davide Panzieri