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Semi, guerre e carestie - Capitolo XVI

di Romolo Gobbi - 24/06/2008

Autore: RomoloGobbi | Data: 22/06/2008 10.00.34
16. Addio alla specie

L’agricoltura continuò ad aumentare la produzione di cereali in Cina oltre gli anni sessanta. A livello mondiale tra il 1950 e il 1984 la produzione di cereali aumentò di 2,6 volte, più velocemente dell’incremento demografico. Ma la popolazione mondiale toccò i sei miliardi nel 1987, raddoppiando in soli 36 anni.
Dopo la siccità del 1987-1988, il prodotto mondiale di cereali raggiunse nel 1989 1,7 miliardi di tonnellate, 18 milioni di tonnellate in meno del fabbisogno globale. Nel 1989, infatti, si produsse l’uno per cento in meno del 1984, il 7% in meno pro-capite, e si sopperì al fabbisogno facendo ricorso per due terzi alle scorte e per un terzo riducendo i consumi, soprattutto in Africa. Da quell’anno le scorte mondiali di cereali si sono spaventosamente ridotte, esponendo interi continenti, Africa, America Latina e parte dell’Asia, al pericolo di carestie: “ Le riserve mondiali di cereali sono scese ad uno dei livelli più bassi toccati negli ultimi decenni, ed è rimasto poco più del necessario per non interrompere la catena tra la produzione ed il consumo” (1). Da allora la situazione non è certo migliorata, anche perché i tanto sbandierati Organismi Geneticamente Modificati (OGM) non sono mirati all’aumento della produttività. Inoltre si sono raggiunti livelli di saturazione dei terreni, per l’apporto di concimi sia naturali che chimici, al punto che ogni unità di prodotto agricolo costa cinque volte in consumo di energia.
Senza aggiungere altri dati catastrofici, ma tenendo conto della narrazione fin qui svolta, non è più possibile sostenere che l’agricoltura abbia portato ad un ineffabile progresso della condizione umana, sempre che non si voglia distogliere lo sguardo dal 90% dell’umanità “sottosviluppata”. Eppure si continua a sbandierare l’ideologia della globalizzazione come rimedio a tutti i mali di tutta l’Umanità, mentre la semplice operazione di calcolare le proiezioni quantitative del verificarsi di tale benessere universale dimostra la sua insostenibilità. Lester Brown, il padre del World Watch Institute, nel suo ultimo libro compie questa operazione paradossale: “ Per raggiungere un consumo pro capite pari a quello americano, i cinesi dovrebbero aumentare la produzione di carne bovina di 49 milioni di tonnellate. E se tutto dovesse basarsi su allevamenti in stile americano, si creerebbe una richiesta di 343 milioni di tonnellate di cereali all’anno, pari all’intero raccolto di cereali in America. […] Se la Cina, con una popolazione dieci volte superiore al Giappone, dovesse seguire la stessa strada, avrebbe bisogno di 100 milioni di prodotti ittici, praticamente tutto il pesce pescato al mondo” (2). Brown sciorina altri dati, altrettanto catastrofici, per quanto riguarda la possibile estensione alla Cina dei livelli occidentali di prodotti industriali. La motorizzazione cinese, portata ai livelli occidentali, produrrebbe automaticamente il raddoppio della produzione mondiale di automobili e soprattutto: “la Cina avrebbe bisogno di 80 milioni di barili di petrolio al giorno, circa 74 milioni di barili al giorno in più della odierna produzione quotidiana mondiale” (3). Ma il petrolio, si dice, verrà presto sostituito dall’idrogeno nella propulsione delle autovetture, però senza dirci che per produrre l’idrogeno sufficiente occorrerebbe un’enorme quantità di energia elettrica, che solo il nucleare può fornire. Tornando al paradosso cinese sulla motorizzazione ai livelli occidentali, la conseguenza sarebbe che: “per avere un numero adeguato di strade e parcheggi, la Cina dovrebbe asfaltare 16 milioni di ettari di terra, un’area pari alla metà dei 31 milioni di ettari attualmente usati per produrre i 132 milioni di tonnellate di riso che soddisfano il fabbisogno annuale di un ingrediente base dell’alimentazione cinese” (4). Brown fa anche il calcolo di quanta carta sarebbe necessaria alla Cina per raggiungere i livelli di consumo americani: “avrebbe bisogno di più carta di quanta ne produce il mondo intero” (5). La conclusione generale a cui giunge lo studioso americano è che: “Si capisce che il modello di sviluppo industriale dell’occidente non è attuabile in Cina, per il semplice motivo che non ci sono sufficienti risorse. Se lo sviluppo economico della Cina dovesse continuare a questo ritmo le risorse di terra ed acqua di tutto il pianeta non basterebbero a soddisfare il crescente fabbisogno di cereali del paese” (6).
Naturalmente questi calcoli dovrebbero essere estesi al miliardo di indiani e ai 2 miliardi e mezzo di abitanti degli altri paesi in via di sviluppo per verificare ulteriormente l’assurdità della globalizzazione, la pretesa cioè di estendere il modello occidentale a tutto il mondo. Senza contare gli effetti catastrofici che la globalizzazione avrebbe a livello di emissioni inquinanti nell’atmosfera, già ora è visibile una nuvola marrone che parte dalla Cina e dall’India e arriva fino al Mediterraneo. Ma il problema più grave sarà quello della scarsità di acqua: “La situazione non può che diventare sempre più precaria dato che i 3,2 miliardi di persone che si aggiungeranno alla popolazione mondiale entro il 2050 nasceranno in paesi che già ora hanno problemi di scarsità idrica. E la scarsità idrica è direttamente correlata alla produzione alimentare, poiché il 40% delle derrate alimentari è prodotto da terreni irrigui. Quindi, se dovremo affrontare il problema della scarsità d’acqua, dovremo anche affrontare quello della scarsità alimentare” (7).
A questo punto le immagini catastrofiche del passato si proiettano anche sul nostro futuro: “il ‘regno dell’uomo’ arriverà a mala pena al 2100. Tra un secolo, di questo passo, il pianeta Terra sarà mezzo morto e gli esseri umani anche. Chi vuol esser lieto lo sia subito. Perché la certezza del domani è incerta (lo è sempre) per ciascuno di noi, ma è invece certa per la specie, per l’Homo sapiens” (8). Il famoso politologo italo-americano Giovanni Sartori basa le sue previsioni catastrofiche sulla crescita incontrollata della popolazione umana: “Tutti sanno, anche se fanno gli struzzi, che il pianeta Terra è finito, e che perciò non può sostenere una popolazione a crescita infinita. E la ‘non sostenibilità’ del nostro cosiddetto sviluppo è ormai sicurissima” (9). L’unica speranza per l’umanità è la scoperta di una ‘pillola’ che possa curare la follia dell’umanità dall’incessante moltiplicazione: “né l’ecatombe provocata dalla fame né quella derivante dall’Aids né il continuo calo della speranza di vita in Africa, scalfiscono minimamente la crescita esponenziale della popolazione. Procreare senza posa in queste condizioni significa rinnovare con alacre follia un rito di sacrifici umani” (10).
Ma la pillola contro la follia umana invocata da Sartori per salvare le specie Homo sapiens, non solo non esiste, ma se esistesse dovrebbe curare molte malattie genetiche e culturali. La malattia più grave è indubbiamente quella culturale, che ha radici profonde nella tradizione giudaico-cristiana-manichea delle apocalissi. Il mito prima ebraico e poi cristiano dell’avvento o ritorno di un Messia che cambi il corso della storia, ha dato un senso alla storia stessa, un escaton, mentre nella cultura antica la storia era ciclica, si ripeteva eternamente per ogni civiltà, coi cicli di ascesa, apogeo e decadenza. La secolarizzazione di questo mito ha prodotto la religione del progresso inarrestabile della specie Homo sapiens sulla terra e anche nello spazio stellare. Il modello della società occidentale moderna e democratica che incarna questo progresso: “è ben lungi dall’essersi svincolata dal mondo religioso che l’ha prodotta. Ne è anzi, il prolungamento inconsapevole e pericoloso che più che coi tratti del figlio illegittimo appare come un aborto involontario” (11). Dunque sarà difficile vincere con una pillola la malattia cronica dell’occidente, il fondamentalismo democratico-progressista, che l’ha contagiato in tutte le sue cellule. Ma sarà difficile vincere anche la malattia genetica della specie Homo sapiens, il ‘crescete e moltiplicatevi’, che non è solo un dettame della Bibbia, ma è la regola fondamentale di ogni specie vivente. A meno che il nostro ‘grande cervello’ non abbia attivato dei meccanismi di autoregolazione della popolazione a noi sconosciuti e diversi da quelli che già sono in atto. Il calo della natalità nei paesi sviluppati potrebbe essere il risultato della consapevolezza inconscia dei pericoli derivanti dalla crescita esponenziale della popolazione. E anche nel terzo mondo pare si stia riducendo il tasso di incremento demografico, ma troppo lentamente, per cui al prossimo raddoppio della popolazione, nel 2050 o poco dopo, il rapporto tra la popolazione dei paesi sviluppati e quello del resto del mondo sarà di un miliardo contro 9 miliardi. Questo rapporto sarà tanto più insostenibile se il mondo occidentale, nonostante l’ideologia della globalizzazione o proprio sotto la sua copertura, continuerà a pretendere di consumare il 90% delle risorse del globo.
L’unico vero rimedio: una drastica e generalizzata politica di controllo delle nascite, che superi la volontà dei “folli che ci vogliono in incessante moltiplicazione” (12).
Contemporaneamente si deve cominciare a sovvertire il principio fondamentale della società occidentale, quello della crescita a tutti i costi del modo di produzione capitalistico: “dopo qualche decennio di sprechi frenetici sembra che noi siamo entrati nella zona delle tempeste figurate e vere. Il cambiamento climatico si accompagna alle guerre per il petrolio, alle quali seguiranno quelle per l’acqua, ma anche delle possibili pandemie, della sparizione di specie vegetali e animali essenziali in effettive catastrofi biogenetiche prevedibili. In queste condizioni la società di crescita non è né sostenibile né auspicabile. E’ dunque urgente pensare a una società della “decrescita”…”. (13)
La società della crescita forzata non è sostenibile per un’infinità di ragioni, che vanno dall’esaurimento delle materie prime, all’inquinamento, alla capacità limitata di rigenerazione della biosfera: “un cittadino degli Stati Uniti consuma in media 9,6 ettari, un canadese 7,2, un europeo medio 4,5. Siamo dunque ancora lontani dall’uguaglianza planetaria, e soprattutto da una civiltà durevole che deve limitarsi a 1,4 ettari, sempre che la popolazione resti quella attuale” (14).
La “decrescita” è quindi sostenibile su piano politico mobilitando le masse dei diseredati per un fine di eguaglianza e convincendo i cittadini dei paesi sviluppati a ridurre i loro consumi eccessivi.

1. L. Brown – J. Young, State of the world, 1990, ISEDI, 1990, p. 99.

2. L.R. Brown, Eco economy, Editori Riuniti, 2002, p.41.

3. ibidem.

4. Ivi, pp. 41-2.

5. Ibidem.

6. Ibidem.

7. Ivi, p. 52.

8. G. Sartori, La terra scoppia, Rizzoli, 2003, p.15.

9. ivi, p.16.

10. ivi, p.234.

11. B. Bonansea, Scienza, democrazia e fondamentalismo: è legittima l’epoca moderna?, in Case Sparse, n°5 2003.

12. G. Sartori, op. cit., p. 15.

13. S.Latouce, Pour une société de croissance, Le Monde Diplomatique, nov. 2003, pag.18.

14. ibidem