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Re in fuga. La leggenda di Bobby Fischer

di Vittorio Giacopini - 07/07/2008

 

Vittorio Giacopini, nato a Roma nel 1961, è un giornalista e redattore della rivista "Lo straniero", “dove scrive saggi quasi-politici, umorali invettive sarcastiche e furibonde stroncature”. Ha scritto un bellissimo libro sulla leggenda di uno dei giocatori di scacchi più popolari e controversi della storia: “Re in fuga – La leggenda di Bobby Fischer” (Mondadori, 17,50 euro). Né romanzo, né saggio, ma quasi un saggio-vita, il libro di Giacopini vuole ricostruire l’epoca della Guerra Fredda fino ai giorni nostri attraverso la fuga tormentata del paranoico, solitario, individualista, politicamente scorretto Fischer. Il 17 gennaio scorso Bobby Fischer è morto a 65 anni in esilio, tra i ghiacci dell’Islanda. C'è una frase di Acheng, da "Il re degli scacchi", che è particolarmente significativa e azzecata per Fischer: "tra la vita e gli scacchi c'è una differenza: i pezzi sulla scacchiera sono tutti ben in vista, mentre negli eventi del mondo sono troppe le cose di cui non si sa nulla. Non tutti i pezzi sono sulla scacchiera, è una partita che non si può giocare.
Tra l’altro Giacopini ha scritto: Scrittori contro la politica (Bollati Boringhieri 1999), Una guerra di carta. Il Kosovo e gli intellettuali (Eleuthera 2000), Viaggiatori senza biglietto (L’ancora del mediterraneo 2001), No global tra rivolta e retorica (Eleuthera 2002), Fuori dal sistema. Il linguaggio della protesta (minimumfax 2004), Al posto della libertà. Breve storia di John Coltrane (e/o 2005).

Dopo il libro sulla vita di John Coltrane, hai dedicato questo nuovo libro alla leggenda di Bobby Fischer. C’è una linea di continuità tra queste due figure?
Non trovo che ci sia una continuità tra John Coltrane e Bobby Fischer né questa è un’opera monografica. Il vero oggetto del libro è un’intera epoca storica, ed è quello che volevo raccontare. Per fare questo devi avere un personaggio di cui ti innamori o con cui fai a pugni, che ti deve prendere insomma. Coltrane è una mia passione e credo che il suo percorso sia una parabola importante. Invece Bobby Fischer è una mia ossessione, un personaggio di cui o ci si innamora o si odia, con cui bisogna fare i conti comunque.

Che cosa ti ossessiona del personaggio di Fischer?
L’elemento che mi interessa è come, benché viviamo in una società che è tutta comunicazione e spettacolo e che produce dei sottoprodotti orripilanti, si riescono a creare delle figure mitiche, come Charlie Parker a esempio. In questo creare miti la nostra società, intendo la nostra cultura di massa più che la midcult, ha ancora una grande potenza. Naturalmente Fischer è diventato un mito per diversi motivi. Intanto ha incarnato il sogno politico di una generazione di una parte del mondo, gli Stati Uniti durante la Guerra Fredda, poi ha capito che quel sogno andava spezzato. È lì che comincio a difenderlo, nel momento in cui viene considerato una persona in caduta libera, ma invece quell’essere in caduta libera è una coscienza estrema, una serie di sviluppi bloccati (sviluppi della storia, della politica e interni al gioco degli scacchi). L’altra cosa interessante è che in lui c’è una assoluta lucidità politica, anche se diceva molte fesserie. La sua parabola ha una coerenza. Il punto di fondo è che Fischer è stato inchiodato all’immagine dell’eccentrico-paranoico: eccentrico lo era di sicuro, paranoico stiamo a vedere. A parte il motto, abbastanza vero, di Delmore Schwartz che “anche i paranoici hanno nemici veri”, rimane il fatto che quest’uomo, da quando era bambino, è stato spiato dall’FBI. Quando nel 2002 sono stati de-secretati i file dell’FBI e è venuta fuori tutta la storia della sua famiglia e anche del vero padre, lui stesso ha scoperto, in tarda età e in esilio, che la madre era spiata prima che lui nascesse. Tutto quello che aveva sempre sospettato gli è stato confermato, ma sono cose che te le senti sulla pelle, anche nel rapporto con la madre qualcosa sarà filtrato. La madre, Regina, è un altro personaggio da romanzo che attraversa la storia del Novecento. Da quando se ne va da Brooklin, nei primi anni ’60 lasciando il figlio, inizia a girare il mondo, fa l’attivista contro la guerra in Vietnam, a Managua fa l’infermiera volontaria per la rivoluzione sandinista e alla fine torna negli Stati Uniti dove muore di cancro.

Il tuo ritratto di Fischer mette in luce una personalità difficile che appena può fugge dal mondo e da quello che gli altri impongono. Perché?
Quello che mi ha affascinato di lui è proprio la costruzione di una forma di indipendenza e autonomia nonostante tutto il carico che sia la storia che la vicenda personale gli portano addosso. In questo la vicenda di Fischer è simile alla parabola di un’altra figura, che cito spesso tra le righe, che è Bob Dylan. A un certo punto Fischer capisce che è diventato una cosa che lui non voleva essere. Il nodo del libro è che per lui gli scacchi erano un altro-mondo, un mondo parallelo, qualcosa in cui rifugiarsi per sfuggire alla storia e alla politica. La sua è una ribellione radicale. L’unico modo per ribellarsi in modo radicale, nel nostro tempo e nella nostra società dove i sogni rivoluzionari politici sono andati nel cassetto, è quello di tirarsi fuori, fare delle secessioni. È ovvio che ci possono essere delle secessioni di minoranze attive che fanno cose a parte rispetto alle grandi correnti della politica, ma ci possono essere anche delle secessioni personali anche molto autodistruttive come la sua. Il rapporto con il successo che hanno personaggi come lui, come Parker, come Dylan è proprio questo rinunciare a tutto ciò che ti si è creato intorno.

Il racconto dell’avventura di Fischer è un pretesto per parlare della Guerra Fredda. E’ una storia che parla solo di quel periodo o ci parla anche di noi?
Solitamente si pensa che Bobby Fischer sia l’emblema di quella storia che finisce a Reykjavik, all’interno della Guerra Fredda. E’ vero che gli scacchi, come la corsa allo spazio, sono stati uno dei terreni non belligeranti della competizione tra Usa e Urss. Però chiudere lì è riduttivo anche perché è riduttivo pensare che la nostra storia abbia subito un’interruzione. C’è uno sviluppo, una continuità tra la Guerra Fredda e il dopo e infatti lo snodo più profondo della carriera di Fischer non è il campionato del mondo contro Spassky del 1972, ma è la partita proibita del 1992, il re-mach, il replay sempre contro Spassky. Perché lì siamo entrati, dopo l’89, in un nuovo ordine mondiale o almeno nella sua incubazione. Fischer vive questo riassestamento in modo molto reattivo. Il vero periodo misterioso è quello che va da Reykjavik, o meglio dalle Olimpiadi di Monaco, agli anni Novanta: la distensione, il parziale disarmo nucleare, l’inizio del crollo del comunismo e di tutto l’est. Un periodo in cui tante cose ci sono sfuggite. Gli anni Settanta sono stati moltissime cose e anche questo flirt ambiguo di Fischer con le religioni fondamentaliste è un modo di vivere quegli anni. Nel suo sparire completo degli anni Ottanta c’è qualcosa che ci dice molto anche della nostra storia. Gli anni Ottanta, continuo a pensarlo, sono stati il decennio più triste, squallido, cupo e privo di stimoli che l’Occidente abbia attraversato. Questo probabilmente non è vero per i paesi dell’est, ma per noi era meglio non esserci, oppure esserci facendo delle cose diverse. A esempio tutta la politica dei movimenti della sinistra si è dovuta ripensare o ha dovuto abdicare al suo ruolo. Sono tre fasi: Guerra fredda, questa lunga transizione e poi un nuovo ordine mondiale. Con Fischer puoi tenerle tutte insieme, con un prologo che è la seconda guerra mondiale perché i suoi genitori sono due profughi dall’Europa.

Che cosa succede quando Fischer capisce di essere una pedina in mano alla politica?
C’è un punto irrisolto della vita di Fischer che sarà sempre così: perché non ha difeso il titolo nel ‘75? C’è il tema della paura, di arrivare al massimo e di non poter più scendere, ma c’è anche una visione metafisica più ampia di una storia che è finita e non è solo la tua personale storia. Quando torna da Reykjavik come campione del mondo, si aspettava tutti questi grandi onori ufficiali che non ci sono stati e è l’ultima volta che ci crede. Si aspettava l’invito alla Casa Bianca, che per un ragazzo cresciuto a Brooklin era un vero onore, e quando capisce che era tutta un’illusione, li manda veramente al diavolo. Poteva diventare un uomo ricco e famoso, poteva creare un’industria con le pubblicità e invece ha rinunciato a tutto. Non credo che lui avesse un progetto per la sua vita. Ce l’ha avuto fino al campionato mondiale. Se tu hai un progetto nella vita e lo realizzi prima di morire poi te ne devi fare un altro. È li che per Fischer inizia la fuga. Questa è una cosa importantissima sull’identità. E il mondo dello sport, più di altri, è pieno di gente che, arrivata sulla vetta, non sa più che cavolo fare.

Parliamo del rapporto con gli scacchi. Fischer ha vissuto il momento di maggiore popolarità di questo gioco e la sua decadenza. In che modo aveva intuito la noia degli scacchi e la loro fine?
Fischer stesso ha rivoluzionato l’immagine dello scacchista, ma non abbastanza perchè poi è stato rifiutato anche da quel mondo, al di là dei riconoscimenti di facciata. Anche Kasparov, nei suoi libri, lo liquida come uno che ha avuto un grande momento, ma alla fine non ha costruito nulla. Non era questo. Lui a un certo punto ha compreso in anticipo che gli scacchi erano finiti, gli scacchi come grande avventura della mente umana. Un altro snodo è il rapporto con la mente artificiale. Quando vede i suoi colleghi che si mettono a giocare con i computer pensa che sono degli scemi. Per la sua cultura e la sua indole non era uno scacchista intellettuale. Diceva che gli scacchi sono come una partita di pallacanestro e anche che la vittoria è come un k.o. su un ring. Per lui era semplicemente agonismo. Del resto nella storia degli scacchi ci sono due tipi diversi di giocatori: da una parte il giocatore logico e razionale, e su questo tipo di scacchisti tu puoi scrivere, volendo, romanzi gialli, dall’altra ci sono figure di rottura particolari come Murphy, un personaggio che cito perché la sua parabola anticipa quella di Fischer. Alekhine, lo scacchista russo, era un altro matto scatenato e ubriacone che è passato alla storia per aver fatto una cosa che penso abbia fatto solo Charlie Parker, cioè pisciare sul pubblico. Rispetto a quel tipo di contesto è un gesto di enorme disprezzo e estraniazione in quanto si pensa che lo scacchista sia un signore che ha studiato matematica.

Da un punto di vista stilistico sembra quasi che volessi dialogare con Fischer. Qual era il tuo intento?
Quello che volevo fare nel libro era sfuggire all’effetto biografia cercando di entrare nella testa di questa persona. Per ora nessuno ci ha fatto caso. Entrare nella testa di uno di cui si pensava che non ragionasse, che fosse un pazzo e basta. Sono sicuro che lui ragionasse, comunque c’era una coerenza in quello che faceva e diceva. E’ un po’ riduttivo pensare che fosse buono solo a giocare a scacchi e a fare il matto. Nel libro c’è molta attenzione per gli eventi più appariscenti della storia: quello che resta come substrato della coscienza collettiva. Molta musica, un po’ di sport, alcuni grandi eventi: una storia filtrata come ti può arrivare dal mondo, non interpretata.

Come hai vissuto la notizia della morte di Fischer?
Mi hanno sorpreso ancora una volta le reazioni. Nel bene e nel male è stato uno dei grandi geni americani. Anche se ci sono stati molti necrologi un po’ di facciata, nessuno dell’establishment americano ha speso due parole. Il livello di accanimento che si è avuto contro Fischer è stato impressionante: prima nel 1992 quando viola l’embargo in Yugoslavia, che è stato violato da decine di migliaia di persone, e poi dopo il 2001 quando, poche ore dopo l’attacco alle torri gemelle, chiama una radio e dice che gli Stati Uniti se lo sono meritato. La sua colpa era di aver espresso solo le sue opinioni, che erano a volte inaccettabili, però erano in linea con la grande tradizione americana della libertà di espressione. Quello che è stato valido per molti dopo l’11 settembre, cioè “state attenti anche a quello che dite”, è come se fosse stato applicato prima solo per lui. Era un simbolo americano e non si poteva permetteva di sparire e riapparire. Nell’accanimento del dopo 2001 c’è anche una questione personale, come conferma suo cognato: “non riescono a prendere Bin Laden e ripiegano su Fischer”. Vero con l’aggiunta che le due grandi ossessioni di Bush, il presidente attuale, erano non a caso due problemi irrisolti dal padre: uno era Saddam Hussein, contro il quale ha scatenato una guerra assurda, incomprensibile e del tutto sbagliata in Iraq e l’altro era Bobby Fischer. Erano le due partite edipiche ancora aperte.

Nei ringraziamenti ci sono Braucci e Saviano, due scrittori napoletani che in questi anni si sono interrogati su quella che viene definita no-fiction. Ti hanno influenzato nello stile del tuo racconto?
Braucci è un amico che ha letto il libro un po’ di tempo fa (l’ho iniziato a scrivere più di quattro anni fa) e mi ha suggerito di darlo a Mondadori. Poi l’ha passato a Saviano che mi ha dato qualche suggerimento. In effetti il libro sta avendo una curiosa storia: non lo recensisce nessuno e nelle librerie non si trova perchè è nascosto nella sezione “tempo libero” o “giochi”. E’ difficile da inquadrare come genere. Per me è un libro di narrativa non un romanzo, che non saprei scrivere. Assumendo la distinzione della letteratura di Benjiamin ci sono i romanzieri e i narratori. Io faccio parte del secondo gruppo. Il mio Fischer non è il Bobby Fischer vero, ma è il personaggio che ho creato tramite lui. E’ un romanzo nel senso epico. Romanzo storico-metafisico. Che sia morto da una parte ha accelerato la pubblicazione del mio libro, dall’altra è stato un guaio perché ha bloccato l’immagine nei “coccodrilli” apparsi sui giornali. Questo libro ha rimesso insieme la storia che non era così ovvia, ma ora "la Repubblica" e il "Corriere" non lo recensiscono perchè dicono che ne hanno già parlato nei necrologi.

Sempre nei ringraziamenti accenni che è stata tua figlia piccola a scegliere il titolo, come ha fatto?
Inizialmente il titolo doveva essere “Doppio scacco” o qualcosa di analogo, ma volevo che ci fosse l’immagine del re, la pedina più importante della scacchiera. Allora in quei giorni giravo con l’idea del re per casa senza una soluzione e mia figlia mi ha suggerito: “perché non lo chiami come “Galline in fuga” e al posto delle galline non ci metti il re?”. E così ho accettato.