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Irlanda del Nord, Sudafrica, Israele: tre piccoli popoli eletti (recensione)

di Augusto Marsigliante - 11/07/2008




Il mito del popolo eletto ha informato di sé numerosi popoli nel corso della storia. Di tre di essi si occupa in questo saggio Romolo Gobbi, docente universitario autore fra gli altri di “Guerra contro l’Europa”, dedicato al criminale bombardamento NATO nei confronti della Jugoslavia nel 1999, e di “America contro Europa”, altro studio dedicato alla tematica del mito del popolo eletto, questa volta però in riferimento alla potenza messianica per eccellenza, gli Stati Uniti d’America.

Si comincia analizzando da vicino quelle che sono state le vicende relative al dominio britannico sull’ Irlanda del Nord, paese che qualcuno non stenta a definire “una colonia nel cuore d’Europa”. I problemi per l’Irlanda cominciano in particolare con Enrico VIII e lo scisma della chiesa anglicana. L’isola verde, irriducibilmente cattolica, non si piegherà mai alle pretese dei sovrani inglesi. Nonostante l’aiuto degli Spagnoli in chiave anti-inglese, essa non riuscì ad affrancarsi dalla “tutela” dell’ingombrante vicino, e venne di fatto inglobata dalla Corona inglese, la quale favorì un massiccio insediamento di coloni scozzesi e inglesi di religione protestante, in particolare in Ulster. Proprio quando si stava per giungere ad un compromesso fra la componente presbiteriana e quella cattolica, fece il suo ingresso in scena quello che dalla vulgata storica viene comunemente definito uno dei padri della libertà in occidente, in realtà un crudele e sanguinario tiranno: Oliver Cromwell. A seguito del passaggio di Cromwell, alla guida del suo esercito di puritani fanatici, la popolazione dell’Irlanda passò da 2.000.000 a 1.400.000 persone. Ebbe così inizio una lunga serie di persecuzioni, vessazioni e soprusi che si trascinano ancora oggi, senza peraltro che si sia giunti ad una reale conclusione dell’insanabile frattura tra orangisti-unionisti e cattolici-repubblicani. Gli accordi di pace del venerdì santo del 1998 sembrano aver indicato all’Irlanda una via d’uscita da questa spirale di violenza a carattere religioso, ma in più d’uno avanza la perplessità che finché da parte dei protestanti vi sarà la convinzione di essere degli eletti da Dio, la crisi che attanaglia da secoli l’irriducibile popolo irlandese non potrà dirsi conclusa.

Si giunge così alla seconda vicenda presa in esame dall’Autore, ossia quella dei Boeri. Anche questa vicenda prende le mosse a seguito degli spostamenti di coloni dal vecchio mondo verso nuovi lidi, e anche in questo caso alla base vi sono delle forti motivazioni di carattere religioso. I primi Olandesi giunsero al Capo di Buona Speranza nella prima metà del XVII secolo. Essi erano fortemente influenzati dalla fede calvinista, ed inizialmente il motivo principale di discriminazione nei confronti degli abitanti del luogo difatti fu di tipo religioso, più che di tipo razzistico. Sicuramente quest’ultimo fattore un poco alla volta si sovrappose a quello originario, creando così quella rigida segregazione che giungerà fino ai giorni nostri con il nome di apartheid. La fondazione della Chiesa Riformata Olandese, l’adozione a far data dal 1941 della Bibbia in Afrikaans, l’insegnamento del Vecchio Testamento nelle scuole, non fanno che confermare la tesi dell’Autore, ossia che la motivazione principale che spingeva i discendenti degli Olandesi era di carattere preminentemente religioso. Le prime libere elezioni, nel 1994, potrebbero aver dato alla vicenda uno sbocco forse definitivo, ma anche in questo caso mettere la parola fine alla questione sembra essere prematuro.

L’ultima, e forse più tragica vicenda di cui si occupa questo studio è rappresentata dal conflitto ebraico-palestinese, che qualcuno ha definito LA Crisi per eccellenza. Ben lungi dall’essere risolta, essa affonda le sue radici nel fondamentalismo biblico di alcune sacche, invero sempre più estese, di irriducibile ortodossia ebraica, e di fanatismo religioso. Dopo aver efficacemente dimostrato che gli attuali occupanti della Palestina ben poco hanno a che vedere con gli antichi ebrei della diaspora –quanto piuttosto sembrano discendere da popolazioni khazare convertite all’ebraismo- ed avere ribadito una volta di più l’assurdità del mito sionista dell’occupazione di terre aride e incolte –in realtà rubate ai Palestinesi- si arriva al momento in cui la crisi esplode, ossia nel corso del XX secolo: la fondazione dell’Organizzazione Sionista Mondiale, la dichiarazione Balfour, fino alla nefasta data di fondazione dell’entità sionista nel 1948. In seguito, la Guerra dei 6 giorni, la guerra del Kippur, 2 intifada di cui la seconda ancora in corso sono le sanguinose tappe di una crisi ben lungi dall’essere risolta. Oggi, l’entità sionista denominata “israele” (1) è l’emblema di come un’entità statuale di questo tipo, ossia fondata su presupposti religiosi di matrice fondamentalista, razzista e coloniale, non possa, per sua stessa natura, sperare in uno sbocco pacifico della crisi. Le parole del rabbino Yithzak Ginzbur, in tal senso, sono una testimonianza emblematica quanto agghiacciante –ricordiamo che nell’entità sionista i rabbini sono funzionari dello Stato-: “L’arabo che uccide un ebreo deve essere punito; viceversa l’ebreo che uccide un arabo deve rimanere libero, perché il sangue arabo è naturalmente ineguale rispetto al sangue ebraico da quando agli ebrei è stata data la legge” (cit. a pagina 117).
La soluzione, per chi non ha una visione distorta degli eventi, o per chi non è in malafede, è chiara e semplice: la creazione di un unico stato palestinese, laico ma multietnico e multiconfessionale nell’ambito del quale possano convivere pacificamente cristiani, ebrei, musulmani. Ma questo non sarà possibile finché il fanatismo ebraico di matrice vetero testamentaria continuerà ad essere la tendenza prevalente nell’entità sionista.

A ben vedere, comunque, da queste vicende si possono estrapolare dei punti comuni fra loro, oltre naturalmente al motivo che sta alla base di questo libro, ossia il fanatismo vetero-testamentario dei popoli succitati. In primo luogo, la differente percezione che si ha in Europa occidentale dei fenomeni descritti: comunemente infatti, pur essendosi resi responsabili i “popoli eletti” di sanguinose atrocità, si troverà a fatica qualcuno disposto a mettere in dubbio la legittimità dell’ “unica democrazia in Medio Oriente” o ad avanzare perplessità sulla “culla della democrazia” anglosassone. E questo la dice lunga sulla brillante opera di disinformazione condotta dagli apparati massmediatici del mondo occidentale.

In secondo luogo, emerge la convinzione che i conflitti analizzati non siano propriamente ancora risolti. Al di là naturalmente della quotidiana lotta del popolo palestinese per la sopravvivenza, in Irlanda del Nord ancora oggi gli episodi di tensione non accennano a diminuire, specie in occasione delle ricorrenze orangiste tutt’ora celebrate a distanza di secoli, e del grande seguito di cui gode il movimento del pastore protestante Ian Pasley, recisamente contrario ad alcun tipo di dialogo con la parte cattolica. In Sudafrica, infine, pur essendo stati fatti grandi passi avanti per mettere fine all’odiosa segregazione nei confronti dei neri, ci vorranno decenni prima di ripianare i disastri dell’ apartheid, senza contare che comunque i ministeri chiave del governo sudafricano rimangono in mano ai bianchi.

Va inoltre messo in evidenza che se dei passi avanti sono stati fatti nei vari processi di pace, non è certo per la buona volontà di ebrei e protestanti. Semplicemente, essi si sono trovati a dover fare i conti con la questione demografica: la grande prolificità di Palestinesi, Irlandesi e Sudafricani, nonostante le privazioni, l’oppressione e le vessazioni cui essi erano e sono quotidianamente sottoposti, ha infatti nel corso dei decenni mutato i rapporti numerici che esistevano tra carnefici e vittime, costringendo gli oppressori ad addivenire a più miti consigli. Nel caso del conflitto ebraico palestinese, la strada da percorrere non è certo quella “intrapresa” dall’entità sionista, ossia del massacro sistematico, dell’incentivazione degli insediamenti colonici, della pulizia etnica e dei campi di concentramento, in una parola del genocidio.

Per concludere, ci sono dei punti sui quali non ci sentiamo di concordare con l’Autore: il richiamo, in un paio di passaggi, ad una soluzione “moderna, occidentale” dei conflitti (pg. 121), e ad una presunta “superiorità dell’ occidente” (pg. 18) nei confronti del resto del mondo ci lascia quantomeno perplessi. In quanto eurasiatisti, non è ponendoci in posizione di superiorità nei confronti di un presunto mondo altro, estraneo da noi, che si costruisce la strada per un mondo multipolare quale noi auspichiamo. Infine, è proprio corretto rifiutare qualunque determinismo storico ed affermare (pg. 65) che “la storia procede a caso” piuttosto che invece seguire dei cicli, o comunque delle linee guida? Questione affascinante, che andrebbe in ogni caso approfondita in altra sede. Certo è che il fanatismo vetero-testamentario di alcune religioni monoteiste è uno dei motori principali che fanno muovere la Storia e i popoli, e sarebbe sbagliato cercare in ogni conflitto una chiave di lettura di tipo esclusivamente economico. Spesso i due temi si sovrappongono, ma non si escludono l’un l’altro. Si pensi ad esempio alle varie occupazioni yankee in giro per il mondo: certo, vi è la ricerca spasmodica di fonti energetiche essendo queste in via di esaurimento, ma anche la convinzione di essere degli eletti da Dio, come anche affermato recentemente dall’attuale presidente della potenza americana Bush.




[1] Sul perché sia più corretto chiamarla in questo modo, cfr. E. Galoppini “Stato di Israele o entità sionista?”, Eurasia 3/2006


Romolo Gobbi, IRLANDA DEL NORD, SUDAFRICA, ISRAELE: TRE PICCOLI POPOLI ELETTI



*Augusto Marsigliante, collabora a EURASIA. Rivista di studi geopolitici