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La “società del non lavoro” e "l'Accattone" di Pasolini

di Carlo Gambescia - 15/07/2008


 
Ieri sera la Sette ha mandato in onda Accattone, bellissimo film di Pier Paolo Pasolini, una sorta di poema religioso, dai forti tratti realistici e sociologici. Si tratta del suo primo lavoro cinematografico, girato nel 1961, e probabilmente il più bello. Ma si tratta di un giudizio personale. Non siamo assolutamente cinefili esperti. Prima però di proseguire ne riassumiamo la trama:
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“Accattone è il soprannome di Vittorio, un sottoproletario romano il cui stile di vita è improntato al "sopravvivere" giorno per giorno. Accattone si fa mantenere da una prostituta, Maddalena, "sottratta" ad un napoletano finito in carcere. L'uomo evita la vendetta degli amici del carcerato, incolpando Maddalena di tutto ed abbandonandola. Maddalena finisce in carcere. Accattone, rimasto senza soldi, conosce la fame. Un giorno incontra Stella, una ragazza che lui cerca di convincere a prostituirsi, ma intanto se ne innamora. L'amore per Stella spinge Accattone a cercarsi un lavoro, guadagnandosi da vivere in modo onesto, ma la "redenzione" dura poco, infatti presto torna a rubare. Dopo un piccolo furto s'imbatte nella polizia e nel fuggire cade dalla motocicletta e muore, compiendo così il destino che pesa su di lui sin dall'inizio”. (http://it.wikipedia.org/wiki/Accattone)
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Per quale ragione questo film non smette ancora di stupirci? Perché affronta il problema del "non lavoro" nella società capitalistica (come rifiuto, in parte marxiano, di "farsi bere il sangue" dal vampiro-padrone, come sottolinea il protagonista). E lo pone in modo poetico e rigoroso al tempo stesso.
Vittorio (Accattone), è un sottoproletario è perciò escluso a priori dalla divisione capitalistica del lavoro. Ma, attenzione, si tratta anche di una “autoesclusione”, dal momento che Vittorio-Accattone è in certo senso non “vocato” capitalisticamente al lavoro. E’ l’esatto contrario del puritano teorizzato da Max Weber. Come del resto evidenzia quel cattolicesimo anticapitalista che segna tutto il film, tipico della vissuta religiosità pasoliniana, ma anche di certa cultura cattolica e sociale, che ha attraversato l’Otto-Novecento, confluendo, in chiave anticapitalista, nell’associazionismo operaio, nel corporativismo e nel sindacalismo "bianchi". E anche nella letteratura e nel cinema di confine, come prova appunto la poetica pasoliniana.
Il problema posto da Pasolini è di grande importanza. Lo scrittore s’interroga sulla sorte di coloro che nella società capitalistica rifiutino di lavorare come Vittorio-Accattone, il protagonista (in certo senso, nel suo caso, anche il “rubare” è una forma di lavoro…). Ebbene, secondo lo scrittore friulano, nella società capitalista, chi non lavora, non solo non mangia, ma rischia di morire, proprio come Vittorio-Accattone. Il capitalismo non tollera il "non lavoro", almeno in linea di principio. Perché ne teme la portata eversiva. E perciò tende a rimuovere come forma di devianza il rifiuto del lavoro, secondo un processo scalare che va dall'esclusione sociale, passando per la prigione, fino all'eliminazione fisica.
Naturalmente Pasolini nel film privilegiava le componenti estetiche, etiche e perfino religiose della questione, non indicando soluzioni pratiche. Per quel che ne sappiamo all’epoca Accattone, oltre ad essere rozzamente contestato dai neofascisti (perché Pasolini era un “finocchio”), non piacque neppure al Pci, che sul lavoro, per quanto sindacalizzato, e comunque come motore della lotta di classe, scorgeva invece uno dei perni, sui quali poggiare per cambiare, e in meglio, la società italiana.
Pasolini, in realtà, aveva visto lungo, e poneva il problema della libertà nella società capitalista, anche in termini di rifiuto del lavoro. Pertanto, non è esatta quell’interpretazione, ci sembra accennata ieri sera dalla Maraini, di Vittorio-Accattone come antesignano dei lavoratori stranieri di oggi, respinti ai margini della società. Perché la “megamacchina” , per dirla con Latouche, non fornirebbe loro un lavoro.
In realtà, crediamo che il migrante, a prescindere dalla possibilità o meno, di trovare un lavoro, venga qui per lavorare. In certo senso incarna la figura del puritano teorizzata da Max Weber: cerca la liberazione attraverso il lavoro. Vittorio-Accattone, no. Perché il protagonista, come prova la sua morte frutto di un “incidente sul lavoro”, aveva cercato fino a un momento prima la liberazione dal lavoro, magari vivendo alle spalle di una donna... Infatti il "mestiere" di ladro, a differenza di quello del "pappone" che non viene da lui avvertito come un lavoro, non è "amato" e scelto. E' un' ultima spiaggia, imposta da una società capitalista che impone agli uomini una ancora più ferrea divisione del lavoro, tra (lavori) onesti e (lavori) disonesti. Dietro l'ultima spiaggia, probabilmente c'è l'amore per l'angelicata Stella, certo pasolinianamente... E che cos'è l'amore, quello vero, se non un atto anticapitalistico? Un dono-puro che però all'interno della configurazione socioculturale ed economica capitalista, assume al tempo stesso il carattere di dono- veleno. Dal momento che Vittorio-Accattone non riesce a scorgerne i pericoli nascosti. Prodotti da una mercificazione che punta perfino attraverso i sentimenti all' omologazione sociale dell'individuo, anche quale puro e semplice ladro. Ma Pasolini, sì.
Comunque sia, il protagonista paga questa scelta obbligata, di lavorare disonestamente, ma di lavorare, con la morte. Vittorio-Accattone, cinematograficamente parlando, ma non solo, è la prima vittima esemplare, molto italiana, anzi romana, caduta in nome della società del non lavoro.
Lo potremmo anche definire un eroe del non lavoro.