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La Contentezza di Sé

di Giuseppe Gorlani - 01/08/2008

 

 

Sri Shankaracarya – il grande filosofo, riformatore e devoto che, nell'VIII sec. codificò l'Advaita Vedanta ed estromise («con un abbraccio fraterno», secondo un'espressione di S. Radhakrishnan) l'eterodossia buddhista dall'India – pone la contentezza di sé (sama o serenità interiore o mente pacificata) tra le sei qualità, attinenti al terzo mezzo cardinale, che l'aspirante alla liberazione deve possedere. I quattro mezzi sono: discriminazione tra reale e irreale (nityanityavastuvivekah); distacco dai frutti dell'azione (vairagya); l'osservanza delle sei qualità; una ferma ed ardente aspirazione alla liberazione (mumuksuta). Le sei qualità, oltre a sama, sono: dama, l'autodominio; uparati, il raccoglimento interiore; titiksha, la pazienza costante o il coraggio morale associato al perseguimento di un ideale spirituale; shraddha, la fede; samadhana, la stabilità o fermezza mentale.

Ma vediamo quale significato sia lecito qui attribuire alla "contentezza di sé". Innanzitutto non la si deve confondere con l'autocompiacimento e con la presunzione di chi si identifica ciecamente nel perseguimento di mète effimere. Un simile comportamento, infatti, è antitetico alla qualità che stiamo esaminando, poiché implica l'ingannare se stessi. Per quanto un uomo possa tentare di autopersuadersi circa l'inesistenza di un valore ulteriore al semplice vivere temporale, nel suo intimo egli avvertirà sempre, purché lo voglia ammettere, un certo disagio o un senso di colpa derivante dalla consapevolezza di trascurare qualcosa di prezioso ed essenziale.

Per beneficiare di sama occorre dunque essere del tutto sinceri con se stessi. Ciò richiederà la forza e il coraggio di affrontare la "discesa agli inferi", inoltrandosi oltre le maschere rassicuranti della retorica contingente, per fissare lo sguardo sul coacervo di stupidità, debolezze, avidità, crudeltà ed egoismi che, con varia intensità, albergano in noi. E, una volta individuate le nostre miserie, sarà indispensabile cominciare a lavorare strenuamente per risolverle in Conoscenza.

Soltanto se, interrogandoci con spietata sincerità, constateremo di essere realmente impegnati in tale lavoro di trasmutazione interiore potremo sentirci contenti e soddisfatti.

Oggi, purtroppo, molti uomini, plagiati dal materialismo corrente, non immaginano che vi sia qualcosa da conoscere di sé, oltre il sapere legato al transeunte, e pertanto non avvertono l'esigenza dell'autoindagine o non la ritengono nemmeno possibile. Tra quelli che, invece, osano, almeno una volta, interrogarsi nell'intimo, i più si comportano come la volpe della favola che, incapace di raggiungere l'uva posta troppo in alto, se ne allontana dicendo a se stessa, a mo' di consolazione, «non vale la pena faticare per raggiungere dell'uva non buona». Costoro, terrorizzati dalla visione della limitatezza dello stato umano ottenebrato e non volendo riconoscere la necessità di un arduo lavoro trasmutatorio, concepiranno allora teorie o alibi capaci di capovolgere la miseria in virtù e ridurrano ogni questione gnoseologica entro i limiti angusti e contraddittori della percezione sensoriale e dell'attività mentale dicotomica; ovvero, per restare in metafora, inventeranno grappoli di plastica e se ne glorieranno sino a ché non moriranno di fame.

L'atteggiamento di cui sopra è parecchio diffuso nell'ambito del cosiddetto "neospiritualismo" contemporaneo, presso il quale "i grappoli di plastica" equivalgono alle mille teste scaturenti dall'Idra dello scentifismo o alle "nuove" vie, religioni, tecniche e conoscenze elaborate ad hoc per vanificare le aspirazioni al sacro dei molti che, fuoriusciti dall'alveo delle religioni tradizionali, vagano alla perenne ricerca di personaggi carismatici ai quali assoggettarsi.

È bene sottolineare come la sincerità sia inseparabile dall'umiltà. Invero, non ci si può osservare con franchezza e sussistere in modo affermativo alla veduta della propria pochezza se non si è umili o, in altre parole, se non si è capaci di discriminare tra relativo e assoluto. Soltanto la discriminazione tra l'effimero e il permanente, offrendoci una prospettiva sovrapersonale, può aiutarci a benedire i difetti e gli ostacoli che ci assillano, discernendoli come opportunità indispensabili alla nostra maturazione coscienziale.

L'umiltà – lo si deve chiarire, vista l'accezione sottilmente negativa che questo termine è andato assumendo col dilagare del pensiero nichilista in auge – non ha nulla a che vedere con il procedere meschino di chi si sottomette per paura o per convenienza a qualsivoglia autorità mondana, compresa quella tirannica del conformismo e delle abitudini distruttive, ma rimanda piuttosto a idee di vigoria, intelligenza e nobiltà interiori. L'uomo umile sfugge alla miope logica temporale, invischiata nel fascino degli allettamenti illusori; la sua mèta essenziale è l'Essere, non l'apparire.

Un buon esempio di umiltà ce lo offre Lao Tze nel Tao Te Ching (XL, VIII):

«Colui che si applica allo studio aumenta ogni giorno.

  Colui che pratica la Via diminuisce ogni giorno.

  Diminuendo sempre di più si arriva al Non-agire.

  Non agendo, non esiste niente che non si faccia».

E' chiaro che, secondo l'ottica della contentezza di sé, l'erudizione fine a se stessa è cibo per i vermi nella tomba; essa ha un significato elevato unicamente se la si assimila al dito che indica, ed è un imperativo non scambiarla con la luna indicata. In ogni caso, fino a che non la si abbandona con soavità al vento e non si esce nel proprio giardino, o per le colline e per le strade a parlare con gli alberi, gli insetti, gli animali, le nuvole e gli altri uomini semplici, la sublime bellezza della vita ci sfuggirà e in noi persisterà l'impulso a volerla distruggere col pretesto di capirla e padroneggiarla. Ci si deve inchinare all'immanenza ineffabile dello Spirito, tornando a gioire come bambini per il volo di una farfalla, per il contatto tenero di una mano o per la magnificenza di una montagna, se si vuole che l'Era Oscura (che è innanzitutto una situazione di ignoranza e disagio dell'anima), con il suo strascico funesto di false idee: progresso, sviluppo, evoluzione, imperialismo, strozzinaggio, rappresaglie, ecc., si dissolva al sole.

Rispetto ai propri difetti, un'altra prospettiva - oltre all'opzione trasmutatoria alla quale si è già accennato - è quella che ci permette di osservarli e incenerirli come parvenze non nostre, giacché di essi non vi è traccia nel sonno profondo senza sogni, dove sola permane la Realtà che in verità siamo. Questa modalità del comprendere (si usa qui il termine "modalità" soltanto per comodità d'espressione: la Via Metafisica non è propriamente una "via-marga", bensì un risvegliarsi istantaneo all'eternamente risolto e compiuto), afferente la Conoscenza-Jnana, secondo la quale le onde-individui non hanno alcuna sussistenza separata dall'oceano, è stata spesso perseguitata presso l'ortodossia religiosa, sia islamica che cristiana. Occorre ammetterlo: la Conoscenza per identità, in cui il conoscente, l'oggetto della conoscenza e il conoscere si risolvono nell'Indicibile, in genere si rivela oltremodo pericolosa per le anime che non siano mature ad accoglierla, poiché induce l'aspirante privo delle qualificazioni necessarie a credersi già realizzato e già perfetto, scavalcando la fase apofatica (neti neti), equivalente alla "morte iniziatica", dello Jnana marga. Lo si dia per certo: c'è un Silenzio da penetrare, ove le polarità coincidono e il divenire è flatus vocis. Ignorare ciò e cercare la felicità nelle cose vota all'angoscia risultante dal tentare di afferrare il vuoto.

La Conoscenza non duale è, nelle temperie attuali, per pochissimi e va trasmessa direttamente da Maestro a discepolo. Suscitano riprovazione, perciò, quei sedicenti maestri che, nell'assurda pretesa di offrire l'Advaita (la Non-dualità) a centinaia di migliaia di seguaci, non fanno che seminare presunzione e confusione.

Ma torniamo al tema principale. L'umiltà, tacitando le ragioni caduche, dedite al nulla, ci consente di ascoltare la voce del nostro vero Io (l'Atman), raggio del Sole universale, che parla nel centro del Cuore e da lì ci guida. Questa voce, presente in tutti, non è diversa né in contrapposizione alla saggezza immutabile rivelata dalle Scritture, dato che l'Onnipervadente è sia esterno che interno ed è in virtù della sua presenza in noi, in quanto intelligenza sovrasensibile (buddhi), che ci è dato ravvisare anagogicamente la Verità laddove si palesa: in un libro sacro, negli occhi di un santo-liberato, nel canto del mare. Se ne deduce che essere contenti di sé corrisponde all'affidare a tale intelligenza, stigma del Divino, il governo degli istinti, delle emozioni, dei sentimenti e delle attività mentali caratterizzanti la condizione umana.

Diversamente, si continuerà a errare nel labirinto dell'insoddisfazione, della menzogna e della frustrazione associata al perseguimento di miraggi. Si pensi ad Arjuna che, nella Bhagavad-Gita (Il Canto del Beato), si dibatte assillato da dubbi e incertezze sino a che, compresa la necessità di seguire le indicazioni di Krishna, il Maestro, coincidente con l'Atman (l'Anima immortale, il Sé), ritrova la propria dignità di re-guerriero ed il proprio coraggio. Numerosi altri esempi si potrebbero trarre dalle vite di santi o saggi appartenenti alle diverse tradizioni: queste sono plurime, ma la santità, non importa se nota od ignota, ad esse connessa è una.

Riguardo alla santità-saggezza, si puo aggiungere che tale condizione, a ben vedere, non andrebbe considerata alla stregua di un'eccezione pressoché impossibile da raggiungere, ma come la norma-dharma in senso eminente; ritenerla una mèta inusuale, fuori dalla nostra portata, significa che diamo più peso alle pseudo ragioni dell'apparenza-ignoranza invece che alle istanze scaturenti dall'intelligenza profonda (buddhi). Scrive provocatoriamente Abhinavagupta  nell' Anuttarastika (II): «[...] Non abbandonare nulla, non prendere nulla: vivi contento di ciò che sei». Si confronti la riflessione di Abhinavagupta, metafisico shivaita dell'India medioevale, con il distico di Angelus Silesius Non desiderare nulla è beatitudine:

«I santi sono avvolti nella pace di Dio

  ed hanno beatitudine perché non

    bramano nulla» (169, traduz. di G. Faggin).

La semplicità e l'assenza di desiderio accomunano le due citazioni. Abnorme non è essere santi, ma il non esserlo; nel primo caso, si guadagna tutto, nel secondo, si perde tutto. E soltanto il santo, ossia colui che si riconosce nella saggezza del Cuore, realizza la contentezza di sé.