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Il costo dei prodotti e le speculazioni bancarie. Il ricatto della finanza

di Marzio Peyrani - 01/08/2008

 



Nella rubrica economica di un giornale specializzato si afferma che la metà del costo delle merci in circolazione è dovuto agli interessi che le banche percepiscono: notizia strabiliante alla quale è quasi difficile credere, ma ad una critica attenta risulta essere proprio così.
Inoltre la rubrica economica di un giornale importante dovrebbe essere, per definizione, attendibile.
Non occorrono tanti esperti e tanti dati scientifici o pseudo tali per trarre qualche considerazione supportata dal buon senso ed esporre qualche tentativo di analisi.
Il valore delle merci e dei prodotti industriali è determinato dai seguenti fattori: interessi bancari, spese di commercializzazione e distribuzione, spese di produzione.
Gli interessi bancari deriveranno dalla somma degli interessi di tutte le operazioni di finanziamento gravanti sugli innumerevoli passaggi necessari fino al momento della vendita al pubblico: sconto di cambiali, ammortamento di impianti, mutui, leasing, operazioni bancarie di intermediazione finanziaria e altre voci che finiscono per intersecarsi, sovrapporsi, concatenarsi e gonfiarsi attraverso tutti i meccanismi che i tecnici e gli amministratori bancari sono arrivati a escogitare.
Le spese commerciali sono riconducibili a poche categorie in sostanza a marketing, pubblicità, spese di gestione come affitti, manutenzioni, magazzinaggio, trasporti e logistica in generale, personale dipendente, tasse ed imposte, profitti degli imprenditori, dei gestori e dei rappresentanti.
Per quanto concerne la produzione si stima che le voci di spese principali siano quelle di gestione, (capannoni, acquisto macchinari, logistica, materiali di consumo, energia, servizi vari ed altro ancora) cui si aggiungono quelle per il personale dipendente, per imposte, tasse, profitti.
E’ interessante mettere i dati di queste stime in un aerogramma a settori circolari (a torta) che illustra questa suddivisione. C’è da chiedersi perché gli economisti non abbiano mai presentato tale diagramma che, pur nella approssimazione per le variabili dovute all’infinita gamma di organizzazioni per i diversificati campi di attività, sarebbe molto significativo. Noi quindi useremo la nostra capacità di stima, che è l’ultima possibilità che ci resta in un mondo della comunicazione sommerso dalle troppe notizie, spesso false e tendenziose che continuano a frastornarci ed a confonderci le idee. Quindi confortati dalla nostra esperienza, che in tante altre occasioni della vita ci ha permesso di orientarci, proviamo a trarre qualche considerazione.
Se la metà dei costi dei prodotti è rappresentata da interessi, se buona parte del resto riguarda spese fisse solo parzialmente comprimibili ma certo non eliminabili, per la nostra analisi poniamo la nostra attenzione sulle restanti variabili consistenti in tasse, retribuzioni al personale e profitti.
Siamo letteralmente bombardati da un profluvio di notizie, articoli di giornali conferenze, analisi in televisione, interviste ad esperti, a politici, a economisti. Tutti, indistintamente, sostengono che per superare la congiuntura occorre aumentare la produttività, ridurre le spese, affrontare sacrifici. Si sottintende che si devono ridurre le spese ed aumentare i sacrifici solo del sistema produttivo e dei suoi addetti a tutti i livelli, cioè dei dipendenti ma anche degli imprenditori. Maggiori investimenti e quindi maggiori debiti per gli imprenditori, maggior impegno lavorativo, cioè sessanta o sessantacinque ore lavorative alla settimana. E pensare che quel fascista di Mussolini le aveva ridotte a quaranta settimanali inseguendo chissà quale disegno contro il popolo lavoratore. Inoltre occorre più flessibilità nel lavoro, più precariato cioè, lacrime e sangue, la frusta contro chi rema, infischiandosene delle invettive.
L’intervento risanatore si riduce dunque solo a carico di chi lavora, di una piccola parte del fattore costo dei prodotti, rischiando di incidere molto pericolosamente sul tessuto produttivo e quindi di ottenerne un effetto opposto a quello che sembrerebbe l’obiettivo, cioè utilizzare quanto risparmiato per rimettere in sesto l’economia. Nel contempo risulterebbe minimo il contenimento dei prezzi.
Nessuno parla di contenere le spese commerciali per il tabù del libero mercato.
La soluzione più indolore per la popolazione sarebbe quella di contenere la quota della speculazione parassitaria, rappresentata dagli interessi.
Occorrerebbe un intervento a livello nazionale o meglio a livello continentale, ma togliere un osso così succulento dalle fauci di certe belve è un’impresa che fa tremare i nostri miseri politici, troppo interessati a non muovere le acque dei loro immeritati e troppo forti emolumenti.
Sarebbe necessaria una altrettanto temibile pressione dal basso, dai tecnici dell’economia e dai media coalizzati ad opporsi alle potentissime lobbies della finanza internazionale, ma questo è impossibile nella situazione di inconsapevolezza in cui si trova la cosiddetta opinione pubblica.
Ma stiamo al gioco. Facciamo una prova di sintesi basata esclusivamente sul buon senso, su stime generali e su un minimo di esperienza personale.
Siccome la metà dei costi dei prodotti deriva da interessi, ipotizziamo per la restante parte commerciale e produttiva, un 25% di spese fisse difficilmente comprimibili e l’altro 25% di tasse, spese per il personale e profitti.
Per le spese fisse difficilmente comprimibili, modernizziamo gli impianti, i metodi di produzione e i progetti, sfruttiamo le sinergie, cerchiamo nuove fonti di approvvigionamento delle materie prime e dei semilavorati ed altro ancora. Queste strade sono già in cima ai pensieri degli imprenditori veri che fanno il possibile per seguirle e non sono scelte indolori nei costi, nell’impegno e nei rischi.
Supponiamo ancora che con uno sforzo titanico si possa recuperare, da questo 25%, il 5%, espresso sul valore totale che corrisponderebbe, si badi bene, ad un enorme 20% della voce; l’operazione sarebbe poco influente sul costo del prodotto arrivando solo al 5% del prezzo finale.
Per quanto riguarda le altre spese il discorso si fa più complicato perché le tre voci (spese di gestione; spese per il personale; imposte, tasse e profitti) sono fortemente legate fra di loro oltre che alla voce precedentemente esaminata.
Sempre per ipotesi dividiamo questo secondo 25% in un 10% di tasse, un 10% cento di spese per il personale ed un 5% di profitti: una divisione evidentemente arbitraria con approssimazioni che possono variare a seconda dei settori di attività: vorrei che qualche lettore che fosse in grado di dare valori più precisi, mi aiutasse in questo compito di divulgazione.
Confrontiamo alla rinfusa cause ed effetti di eventuali modificazioni percentuali di quanto ipotizzato.
Aumentando le tasse diminuiscono i profitti e gli investimenti, diminuendole mancherebbero risorse per lo stato.
Diminuendo le spese per il personale (licenziando o riducendo gli stipendi) diminuiscono il gettito fiscale, i profitti, il volume della produzione e altre risorse pubbliche con risultati non trascurabili dal punto di vista sociale.
Diminuendo i profitti diminuisce la propensione agli investimenti, ed inoltre molte attività, già al limite della redditività, chiuderebbero e non sarebbero neppure sostituite da altre più efficienti, secondo le regole della concorrenza, bensì da altre più costose, secondo le regole del mercato.
Immaginiamo di trovare un giusto equilibrio, impresa ciclopica nella situazione attuale, e ipotizziamo un altro 2% in meno sulle tasse (sempre il 20 % della voce!) e un due per cento sul costo del personale, altro 20% della voce, con la conseguenza di ridurre i lavoratori alla fame. Tagliamo un altro 1% dei profitti, sempre trascurando le conseguenze.
Tirate le somme si può raccogliere un risparmio valutabile al 10% del valore totale della merce con l’effetto di una recessione contemporanea del 20 % del potere di acquisto degli imprenditori, dei lavoratori e delle spese dello stato, comprensive delle spese del personale, quindi trascurando sempre le conseguenze a livello sociale e ammesso che si possa attuare tutto questo a costo zero, cosa quest’ultima evidentemente impossibile. Non metteremo in evidenza alcuni aspetti speculativi del commercio per non deviare l’attenzione dall’obiettivo principale.
Si può a questo punto considerare che variare i dati assunti con ipotesi diverse derivate da indagini più approfondite, avrebbe soltanto il risultato di caricare o scaricare sull’uno o sull’altro dei soggetti finali il peso della riduzione dei costi.
Ci si chiederà perché le conseguenti stagnazione, disoccupazione, calo della produzione e quindi degli introiti in interessi, non consigli di ridurre subito questi ultimi con un modesto sacrificio da parte del ricchissimo sistema bancario. È probabile, però, che, con la ben nota noncuranza delle conseguenze del suo agire, la speculazione conti di guadagnare su quelle voci che sono rimaste in sospeso (conseguenze e costo dell’operazione) appropriandosi di buona parte del 10% del risparmio in questione, con la lievitazione ulteriore dei debiti di imprenditori e dipendenti e conseguente aumento della quota di interessi.
Essendo le mie possibilità di previsioni esaurite lascio ad altri la stima finale del rendimento, dei costi e della partizione dei risultati di eventuali operazioni decise a livello politico. Si faccia un nuovo aerogramma per settori per rendersi meglio conto delle proporzioni della nuova situazione.
Compiendo un atto di temerarietà dovremmo chiederci perché lo Stato non impone la riduzione degli interessi. La risposta è facile: prima di tutto perché nessuno osa fare una tale proposta, poi perché, andando ad incidere sui rendimenti dei capitali, si perdono i finanziamenti del sistema bancario internazionale: se i capitali sono più remunerati altrove, se ne vanno. Queste sono le regole di quel mercato magnificato da tutti coloro che hanno la possibilità di accedere ai media che danno le informazioni alle masse. Ma qui non si tratta di “regole del mercato” ma di effetti di un mercato truccato. Ve lo dimostra il fatto che i capitali dei risparmiatori sono retribuiti con interessi infimi mentre quelli dei prestiti concessi dalle banche prevedono interessi a due cifre. Questi esagerati squilibri vanno ben oltre una remunerazione delle spese ed un giusto pagamento dei servizi resi. Non sono sempre da considerare come gli stessi soldi? Evidentemente no. Valgono meno quelli sudati dei risparmiatori rispetto a quelli, in gran parte estorti al pubblico, delle banche.
Quanto alle regole di mercato i nostri economisti affermano che esse sono il migliore sistema per governarlo e fingono addirittura che non ne esistano altre. Sarebbe però ora che qualcuno si mettesse a studiare queste regole con senso critico e chiarisse le storture e le deviazioni con cui dette regole sono applicate dagli speculatori per stravolgerle e rovesciarle a loro favore con azioni al limite della truffa. Sono evidenti a tutti le variazioni dei valori della Borsa che non derivano assolutamente dal valore delle imprese ma dai giochi di alcuni banchieri, come si può constatare dai crack finanziari e dai titoli spazzatura sostenuti artificialmente fino a che rendono e poi passati agli ignari piccoli risparmiatori quando si avvicina la perdita di ogni valore monetario. I soldi “bruciati” in borsa in realtà cambiano solo di mano.
I valori delle merci e dei prodotti hanno abnormi oscillazioni puramente speculative, per accaparramenti, come per il petrolio, il cui aumento non ha alcuna giustificazione in termini di costi di produzione, e non è nemmeno giustificato dalla scarsità: come tutti possono constatare non mancano il gasolio per riscaldamento o alle pompe per l’autotrazione, ma è più che quadruplicato nel prezzo nel giro di quattro anni. A riprova, nessun governo prende provvedimenti restrittivi, come domeniche a piedi o riscaldamento domestico abbassato, e nemmeno si consiglia di diminuire i consumi. Ingiustificate sono anche le oscillazioni delle monete che le banche centrali (private) emettono e non sono per nulla collegate ai rapporti di ricchezza, produttività tenore di vita ed economia delle nazioni. Questo solo per quanto riguarda la macroeconomia, per la “microeconomia” si lascia il giudizio alle casalinghe che fanno la spesa.
Di contro ad esagerati aumenti dei beni di prima necessità il valore, in termini di potere di acquisto, del lavoro è in continua diminuzione a causa di una immigrazione galoppante. Molti, però, si ostinano a non voler capire il turbamento del settore indotto da questi arrivi forse perché vengono istupiditi dalla televisione ed altri media o perché inseguono facili idealismi, peraltro indotti strumentalmente da una continua ossessionante propaganda.
Se dunque il cinquanta per cento del valore delle merci viene assorbito dagli interessi bancari, a chi produce resta il carico delle spese, i rischi, i sacrifici e una piccola parte rimanente quale guadagno: la cosa è veramente iniqua.
Ma quello che più inquieta è l’intollerabile ricatto della finanza che, forte delle regole da lei stessa stabilite, minaccia di sanzionare chi obietta a questa logica mostrando così il suo potere, ben superiore a quello degli stati, presi singolarmente o nel loro insieme. Dato il controllo praticamente assoluto sugli uomini politici ottenuto attraverso il sistema democratico, la classe capitalistica non finirà mai di chiedere sacrifici alla popolazione che lavora, da parassita quale è, e finirà con il distruggere chi la ospita. Non ha infatti fino ad ora mostrato alcun senso della misura, come tutti hanno potuto constatare.
Perché le nazioni ritrovino un minimo di sovranità ed indipendenza per tener testa a questo strapotere, è necessario che la nostra gente si renda conto che le regole inventate dal sistema bancario internazionale non hanno nessuna giustificazione scientifica o matematica ma servono solo a chi le ha stabilite per arricchirsi sempre più.
Per avere qualche cambiamento è indispensabile anche contestare le tesi di certi “buonisti” a pancia piena obnubilati dal proprio benessere e consapevoli di non meritarlo. Infatti non se lo sono guadagnato e non meritano nemmeno di averlo ereditato. Essi sostengono che dobbiamo pensare ai popoli più sfortunati che “vivono con un dollaro al giorno”. Si tratta di un’operazione diversiva che, con la scusa di problemi altrui, vuole distrarci dai nostri.
Non si rendono conto che certe situazioni sono state create dal capitalismo americano che ha sottratto all’Europa il controllo delle colonie dove era chiara la responsabilità attribuita al colonizzatore, e qualcuno doveva pur farsi carico dei problemi, al contrario di quello che fanno le multinazionali che si preoccupano solo di aumentare i propri guadagni disinteressandosi di tutto il resto.
Spingere popoli, resi disperati dalle folli modifiche economiche operate dalle grandi compagnie finanziarie, ad emigrare in Europa, non risolve i loro problemi, per l’evidente spopolamento del loro Paese, ma aggrava i nostri con la sovrappopolazione che crea conseguenti problemi di inquinamento del territorio e deprime ulteriormente il nostro mercato del lavoro.
Mi auguro che altri vogliano rivedere le mie stime con dati più precisi e stabiliscano, magari, che la catastrofe è forse più lontana di quanto sembra, anche se, senza un intervento deciso, questa continuerà ad incombere su di noi. Ma se non si tratterà proprio di una vera catastrofe si avrà una serie di grossi passi indietro più o meno rapidi nel tenore di vita, qualcosa di simile a quello che il comunismo ha fatto succedere nell’U.R.S.S. e che il capitalismo potrebbe far succedere da noi. Il tutto aggravato dal fatto che una società altamente industrializzata come la nostra non può facilmente rallentare la propria andatura produttiva senza il rischio di fermarsi del tutto.
E non si illudano coloro che oggi hanno un tenore di vita medio-alto: se ci saranno cinque milioni di disoccupati in più le cose fatalmente cambieranno per tutti.