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Così l’Italia censurò l’Arcipelago gulag

di Marta Dell'Asta - 03/09/2008

 
 Le opere di Solzenicyn hanno sempre avuto poca fortuna all’interno della nostra cultura.
  Perfino il suo capolavoro venne boicottato e diffuso con un altro titolo



 

 L
a storia del rapporto fra Solzenicyn (lo scrittore russo scomparso esattamente un mese fa) e l’Occidente è la storia di una lunga lontananza, solo a tratti mitigata da qualche episodio di intelligente ascolto delle sue verità scomode. In Italia, in particolare, ci si è sempre ostinati a interpretare le sue opere letterarie e i suoi interventi pubblici secondo il più ristretto dei criteri politici, accontentandosi di incasellare via via i suoi scritti in base a categorie note (e inaccettabilmente banali):
 l’Arcipelago GULag
è la denuncia del comunismo, la Lettera ai capi
 mostra la sua preferenza per l’autoritarismo, il
Discorso di Harvard sarebbe l’espressione del suo conservatorismo, e Lenin a Zurigo un distillato di antisemitismo. Tutto ciò che non entrava in questo schema semplificato, o che richiedeva una lettura diretta e attenta dei suoi testi, è stato il più delle volte glissato, o mal interpretato, quindi seppellito per sempre.
  L’elenco di queste incomprensioni ha avuto inizio 34 anni fa, con l’uscita in Occidente del suo libro-bomba, l’Arcipelago
GULag. La storia di questa pubblicazione è ormai nota: concepito già nel 1958, il libro era stato scritto in grande segretezza, ma poi il KGB era riuscito a incastrare una dattilografa, con pressioni intollerabili l’aveva costretta a rivelare il nascondiglio di uno dei manoscritti (che lei riteneva fosse l’unico), la donna in preda all’angoscia si era suicidata, e a questo punto Solzenicyn aveva chiesto agli amici di Parigi, che erano già in possesso del microfilm, di stamparlo in lingua russa. L’edizione parigina era uscita nel dicembre del ’73, e la traduzione italiana era seguita nel maggio del ’74, preceduta di un mese da un opuscolo a cura dell’Agenzia Novosti, provvidamente diffuso dall’editore Napoleone e intitolato L’arcipelago delle menzogne. L’uscita del GULag in Italia, però, non aveva suscitato neanche un pallido simulacro del sommovimento culturale cui aveva dato origine in Francia, al punto che qualcuno lo avrebbe definito come «il vero crollo del Muro di Berlino». Da noi niente di tutto ciò, anzi, in un primo momento il 'caso gulag' era stato proprio ignorato; a giustificazione della stampa e dell’opinione pubblica nazionale si può dire che erano gli anni di piombo e l’attenzione generale era calamitata dalla cronaca del terrorismo. Ma al di là di questo, si può dire che Solzenicyn, da noi, dispiaceva un po’ a tutti: alla sinistra dogmatica, naturalmente, ma anche alla destra, che voleva fare di Solzenicyn un uso esclusivamente politico, esattamente come la sinistra, solo di segno opposto, e in questo modo finiva per darne una visione gravemente riduttiva e poco incidente, mancando di coglierne il nuovo approccio conoscitivo verso la storia del XX secolo e del totalitarismo. Quanto ai democratici di centro, subivano l’egemonia culturale della sinistra ed erano imbarazzati da tutto ciò che la metteva in discussione, non sapevano liberarsi dal complesso dell’«anticomunismo viscerale» per cui preferivano non commentare né in bene né in male. La casa editrice Mondadori che aveva acquisito i diritti del libro, lo aveva fatto uscire in libreria il 25 maggio 1974, praticamente senza nessun battage pubblicitario, anzi, mettendo in atto una curiosa forma di autocensura che andava contro i suoi stessi interessi commerciali. Nei giorni precedenti aveva lanciato sui quotidiani non l’Arcipelago, ma
 L’esorcista di Blatty,
e Intervista
 con la storia
della Fallaci, libri importanti ma nulla che avesse anche lontanamente a che vedere con la misura epocale del gulag.
  Anche le recensioni sui giornali erano state avare e molto, molto tiepide; il
Corriere della Sera, ad esempio, era uscito il 16 giugno con un pezzo di Pietro Citati, al quale sembrava sfuggire totalmente la portata del libro: «Per coloro a cui la fortuna ha risparmiato una prova così atroce, credo che sia più proficuo dimenticare del tutto…». Dopo il disinteresse, si era scatenata invece la reazione aggressiva, che avrebbe voluto smontare in un sol colpo l’uomo, lo scrittore e lo storico, una «vergognosa offensiva di gran parte della cultura italiana», la chiamerà Bettiza. Alcuni dei maggiori scrittori nazionali si erano effettivamente espressi senza mezzi termini e con una certa alterigia: Carlo Cassola lo denigra dal punto di vista artistico; Umberto Eco lo chiama Dostoevskij da strapazzo; Alberto Moravia lo liquida come «nazionalista della più bell’acqua». Ma questo attorno all’Arcipelago è stato solo il primo episodio di una lunga guerra sotterranea che ha ripreso quota ogni volta che Solzenicyn faceva un discorso, o pubblicava qualche stralcio della Ruota rossa,
 o qualche saggio storico.
  Archiviata anche solo l’idea che meritasse un approfondimento il suo modo di fare storia e letteratura (quel «saggio di inchiesta narrativa» che unisce genialmente l’oggettività del dato storico alla forza di penetrazione dell’arte), non sono rimaste che le vecchie etichette trite e ritrite, da esporre ogni volta daccapo. È curioso, negli ultimi anni, pur vecchio e malato, Solzenicyn ha continuato a offrire dei contributi, degli spaccati acutissimi sulla storia, in cui i giudizi di valore erano sostenuti da un metodo interessante e nuovo: l’identificazione delle linee generali all’interno di un nodo, di un piccolo frammento storico. Ma invece di entrare nel merito di ciò che scriveva in queste opere (non tradotte, salvo rare eccezioni, e neanche commentate), si è preferito dare spazio e risalto a una serie di fatterelli al limite del gossip, che dovevano essere rivelatori della vera natura dell’uomo: Solzenicyn vive in una villa lussuosa, Solzenicyn riceve un premio da Putin («L’uomo del KGB e il Vecchio dissidente uniti per celebrare la potenza militare della Russia»). Così, quando nel 2002 ha pubblicato a Mosca i due volumi
Duecento anni insieme sul problema ebraico in Russia, da noi è arrivata appena la pallida eco delle roventi polemiche, ma niente di più sostanziale. Quando nel 2007 è uscito l’interessantissimo saggio sui perché della rivoluzione di febbraio, quasi nessuno in Italia se n’è accorto. In compenso si è usato il suo breve intervento riguardo al holodomor
 dell’Ucraina (uscito sulle
Izvestija
 il 2 aprile 2008) per avallare i soliti cliché. In una breve nota lo scrittore sottolineava che non è utile combattere il grande silenzio col quale il regime aveva nascosto le sue responsabilità, dando un’interpretazione nazionalista a questa tragedia. Esattamente la stessa cosa si diceva in un documento di Memorial, che esortava a non abusare del termine genocidio. Ma la stampa occidentale (compresa quella italiana) ha preferito dare corda alle interpretazioni più maligne, cambiando acconciamente il titolo originale
Far litigare due popoli fratelli? in Le menzogne dei dirigenti di Kiev per far vedere quello che non c’è: l’astio del russo che disconosce le dimensioni della carestia ucraina. Nel far questo la stampa ha confermato indirettamente il giudizio del grande scrittore sull’ignoranza degli occidentali.
  Anche la polemica onesta è risultata troppo impegnativa, così se Solzenicyn era passatista, filo putiniano, nazionalista e antisemita ogni sua azione si trovava già perfettamente inquadrata in questa dimensione da nani e non c’era da faticare troppo a comprendere la natura di un’intuizione profetica da grande artista.

 Ignorato a sinistra e distorto a destra, lo scrittore fu subito bollato come «nazionalista» da Moravia. Mentre Eco disse: «È un Dostoevskij da strapazzo»
E Citati: «Per coloro a cui la fortuna ha risparmiato una prova così atroce, credo che sia più proficuo dimenticare del tutto» Umberto Eco Pietro Citati