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notizie dal mondo 23-31 gennaio 2006

di rivistaindipendenza - 05/02/2006

Fonte: rivistaindipendenza.org

Corsica / Francia. 23 gennaio. Muore giovane còrso per l’esplosione di una bomba a Aix-en-Provence (sudest Francia) che stava collocando alla sede delle Finanze. La polizia non ha rivelato la sua identità, comunicando solo l’età: 24 anni. Un errore nel sistema di detonazione, ha detto, è stato all’origine della morte. Il giovane, originario di Porticcio (sud dell’isola), era noto alla polizia come simpatizzante di una delle principali organizzazioni armate còrse (il Fronte di Liberazione Nazionale Còrso - 22 Ottobre). Questa, peraltro, all’inizio della scorsa settimana, ha rivendicato diciassette attentati commessi negli ultimi mesi del 2005 ed annunciato la sua intenzione di «rafforzare tutti i mezzi di lotta» per ottenere che l’isola recuperi la sua sovranità. La polizia ha intanto proceduto all’arresto, ieri, all’aeroporto di Marsiglia, di un amico del giovane caduto, un professore di 33 anni dell’università di Corti. Insieme erano partiti dalla Corsica.

 

Costa d’Avorio. 23 gennaio. Il Fronte popolare ivoriano (FPI), il partito del presidente Laurent Gbagbo, ha annunciato il ritorno dei suoi ministri nel governo di transizione guidato dal primo ministro Konan Banny e la volontà di riprendere il processo di pace, abbandonato nei giorni scorsi in polemica con la proposta dei mediatori ONU del processo di pace (gruppo internazionale di accompagnamento alla pace, GTI) di sciogliere il Parlamento. L’annuncio è stato fatto direttamente dal FPI in un comunicato pubblicato stamani sulla stampa ivoriana, in cui si condanna anche l’uccisione di 5 giovani manifestanti a Guiglo (nell’ovest del paese) da parte dei “Caschi blu” dell’ONU. In precedenza, la capitale Abidjan era stata scossa da manifestazioni di piazza e tumulti che avevano praticamente paralizzato l’attività del principale centro della Costa d’Avorio. Nella sua nota, il FPI sottolinea l’importanza di procedere al disarmo nel paese e all’organizzazione di elezioni in grado di far uscire la Costa d’Avorio da una crisi che la blocca ormai da più di tre anni. Nel frattempo, così come in Liberia o Haiti, per fare solo due esempi, è l’ONU (stavolta su imprimatur della Francia) a governare e reprimere in Costa d’Avorio.

 

Costa d’Avorio. 23 gennaio. Per risolvere la crisi, decisivo è stato l’intervento del presidente nigeriano Olusegun Obasanjo, presidente in carica dell’Unione africana (UA), dopo un incontro con il presidente Laurent Gbagbo e il primo ministro Charles Konan Banny, che aveva rassicurato i manifestanti, guidati dal gruppo dei cosiddetti Giovani Patrioti, sostenitori del presidente Laurent Gbagbo, che il GTI «non aveva il potere di sciogliere» l’assemblea nazionale. Blè Goudè, leader del gruppo dei Giovani Patrioti, aveva raccolto con entusiasmo l’annuncio, e invitato tutti alla calma. Le pronunciazioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU sono però di tutt’altro tenore. Questi ha rimarcato il proprio sostegno al processo di pace e quindi al ruolo e alle decisioni del GTI. In una dichiarazione letta dall’ambasciatore tanzaniano Augustine Mahiga, il Consiglio ha condannato «fermamente» i recenti attacchi commessi contro i soldati ONU in Costa d’Avorio (missione ONUCI) «da parte di milizie urbane ed altri gruppi associati ai Giovani patrioti», sottolineando che «misure determinate saranno imposte» contro «chi si oppone al processo di pace, in particolare attaccando o ostacolando il lavoro dell’ONUCI, delle forze francesi (Liocorno), dell’Alto rappresentante dell’ONU per le elezioni o del gruppo di lavoro internazionale». Le risoluzioni dell’ONU in questi anni hanno, con il consenso dei ribelli, concesso ampi poteri ai militari francesi.

 

Costa d’Avorio. 23 gennaio. Il Paese si trova diviso a metà dal settembre del 2002, da quando un settore dell’esercito cercò di spodestare il presidente Gbagbo, eletto alle ultime elezioni del 2000. Il colpo di Stato parte subito dopo che il Presidente della Costa d’Avorio ha aperto il paese ad investimenti di società cinesi, statunitensi e giapponesi nel settore dei lavori pubblici e delle concessioni per l’estrazione del gas e del petrolio: mossa che avrebbe penalizzato gli investimenti dell’ex colonia francese, attuale padrona del paese, che controlla il commercio del cacao (di cui la Costa d’Avorio è il primo produttore mondiale, ed i cui contratti erano in scadenza), l’erogazione della corrente elettrica, dell’acqua, la telefonia, l’aeroporto e il porto di Abidjan (ma persino il parlamento ivoriano si riunisce in un palazzo di proprietà francese, pagandone ovviamente l’affitto). Fallito il tentativo di prendere possesso dei punti strategici di controllo del potere del paese, i ribelli, guidati da Alassane Ouattara poi prelevato e rifugiato in Francia, riescono tuttavia ad arroccarsi nel nord del paese, che rimane tutt’ora occupato dai ribelli, senza che trapelino informazioni, né giornali dal Sud (per cui la popolazione è all’oscuro del processo in atto), con l’amministrazione ed i servizi pubblici non funzionanti.

 

Costa d’Avorio. 23 gennaio. La Francia aveva frattanto invaso il Paese, impedendo lo scontro tra esercito e ribelli e dando così tempo a quest’ultimi di riorganizzarsi. A Marcoussis in Francia, nel gennaio 2003, si sancisce un mezzo colpo di Stato facendo entrare la Riunione dei repubblicani di Alassane Outtara e il Partito democratico della Costa d’Avorio dell’ex presidente Henri Konan Bédiéi, battezzati “Forze nuove”, nell’attuale governo di transizione, pur sotto la condizione del disarmo degli stessi (condizione ovviamente non mantenuta). Così com’è stato per l’Iraq, una risoluzione dell’ONU del febbraio 2003 ha legittimato a posteriori l’invasione e dato pieni poteri alla Francia e disciplinato l’istituzione di una missione dei Caschi blu. Da allora permane una situazione di tensione ad Abidjan, con la Francia e le “Forze nuove”, spalleggiate dall’ONU, che provano a togliere potere a Gbagbo ed a preparare un terreno a loro favorevole per le prossime elezioni.

 

Costa d’Avorio. 23 gennaio. La Francia si è intanto resa protagonista di repressioni. Parecchio clamore ha suscitato quella del novembre 2004. In seguito ad un attacco delle forze governative di Gbagbo contro i ribelli, innescato dal loro insistente rifiuto di deporre le armi, morirono otto soldati francesi: un episodio punito dal presidente Chirac con la distruzione di gran parte dell’aviazione ivoriana, e non solo. Un’aggressione militare ad uno Stato sovrano passata pressocchè sotto silenzio. Il sito cattolico Korazym.org ha raccolto in esclusiva il racconto di un missionario laico di Torino, Marcello Ceccarelli, che per un mese all’anno si trasferisce in Costa d’Avorio per sostenere progetti umanitari. Ceccarelli è stato testimone in diretta delle violenze compiute ad Abidjan dall’intervento francese, che non si è limitato alla distruzione degli aerei militari ivoriani, ma ha coinvolto in modo massiccio anche la popolazione. «30-40 mila manifestanti sono stati colpiti dal fuoco degli elicotteri. I soldati sparavano ad altezza d’uomo e ci sono state numerose vittime. Un finimondo durato per tre giorni e due notti (…) Ho visto scene raccapriccianti, gente sventrata nei subbugli e dalle raffiche, gli edifici completamente distrutti». Invitato a dire la sua sulla situazione in Costa d’Avorio, Ceccarelli accusa i francesi: «Sono sei anni che frequento il paese, Abidjan e i villaggi. Alle origini c’è lo sfruttamento del territorio e delle risorse, tra cui i giacimenti di petrolio del nord. La Francia non ha fatto la guerra in Iraq, ma poi massacra gli ivoriani per il cacao, il caffè, il petrolio, l’oro, i diamanti», ma anche gas naturale, manganese, minerali di ferro, cobalto, bauxite, rame, energia idroelettrica, oltre a risorse agricole non indifferenti come banane, noci di cocco, mais, riso, zucchero, cotone, gomma, legname, ananas e olio di palma. Per Ceccarelli lo scontro è destinato ad aggravarsi, anche perché la vera posta in gioco è un cambiamento politico, che passi dalla caduta del presidente Gbagbo, mal visto dalla Francia.

 

Russia / Gran Bretagna. 23 gennaio. Mosca accusa Londra di spionaggio. Un’inchiesta della televisione pubblica, confermata dall’FSB (il servizio segreto erede del KGB), ha mostrato un filmato che sembra tratto da un film di spionaggio, con tanto di diavolerie elettroniche supertecnologiche nascoste in una pietra che, lasciata per strada, avrebbe consentito lo scambio di dati segreti tra agenti. Mosca afferma di avere le prove che la pietra contenente il sofisticato ricetrasmettitore era utilizzata da 4 diplomatici britannici e un cittadino russo, che è stato arrestato. I dati contenuti nella pietra potevano essere scaricati con un piccolo computer portatile. La televisione ha mostrato anche documenti che proverebbero il finanziamento di organizzazioni non governative (ONG) russe che sotto il paravento della difesa dei diritti umani tramerebbero per organizzare una nuova “rivoluzione arancione” per defenestrare Putin. Londra ha negato lo spionaggio e qualsiasi altra attività illegale. Il parlamento russo ha recentemente inasprito la legislazione sul controllo dei finanziamenti esteri in favore delle ONG.

 

Russia / Georgia. 23 gennaio. Situazione tesa tra Mosca e Tbilisi dopo le esplosioni nella linea elettrica ed in alcune condutture che riforniscono di gas naturale la Georgia e l’Armenia. Il presidente georgiano Saakashvili ha accusato Mosca di essere il mandante di quanto accaduto. «Le spiegazioni che abbiamo ricevuto dai russi sono inadeguate e anche contradditorie», ha dichiarato Saakashvili, secondo cui la Georgia è stata oggetto di un grave atto di sabotaggio. Il procuratore capo per la Russia meridionale ha aperto un’inchiesta sulle esplosioni. Anche il capo del Cremlino Putin chiede che venga fatta luce al più presto sull’accaduto. Intanto si registrano pesanti disagi in Georgia. L’esplosione alla linea elettrica è avvenuta nella repubblica caucasica russa della Caraciaia-Circassia alla frontiera con la Georgia. Le altre due deflagrazioni hanno invece colpito le condutture nella repubblica russa dell’Ossezia del nord. Gran parte della Georgia è ora senza luce nè gas e secondo gli esperti ci potrebbe volere anche una settimana prima che tutto torni alla normalità. Davanti all’Ambasciata russa a Tbilisi proseguono le manifestazioni dopo che il Cremlino ha deciso di bloccare le forniture di gas al paese in seguito all’incidente al gasdotto che collega i due paese.

 

Palestina. 23 gennaio. Dopo il voto di mercoledì, il capolista di Fatah Marwan Barghouti, il “terrorista” condannato a cinque ergastoli, vede favorevolmente un «governo d’emergenza nazionale», una larga coalizione rappresentativa della base, che dovrà dedicarsi a profonde riforme politiche interne e ai negoziati con Israele per la creazione di uno Stato indipendente sui territori occupati nel 1967. Dalla sua cella in un carcere di massima sicurezza, il leader della nuova generazione di militanti di Fatah, movimento fondato da Yasser Arafat e dall’attuale presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), è stato intervistato dalle due importanti emittenti arabe Al Jazeera e Al Arabiya, reti satellitari popolari in tutto il Medio Oriente.

 

Palestina. 23 gennaio. Washington ha stanziato due milioni di dollari per una serie di mini-progetti tesi ad accrescere la popolarità dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e, dunque, di Fatah. Secondo il Washington Post, le iniziative sono pubblicizzate sui giornali palestinesi in nome dell’ANP, che le usa per rispondere così alle accuse di corruzione e di non aver saputo gestire il potere in questi anni. Nessun riferimento al finanziatore. Fra i progetti, campagne di pulizia delle strade, distribuzioni di cibo e acqua ai valichi di confine, donazioni di computer a centri locali, un campionato di calcio giovanile.

 

Iraq. 23 gennaio. I costi statunitensi dell’occupazione militare in Iraq stanno per raggiungere livelli che potrebbero essere insostenibili. Ne sono convinti l’economista premio Nobel Joseph Stiglitz, dell’Università Columbia, e la professoressa Linda Bilmes, esperta in preventivi dell’Università di Harvard. I costi totali della guerra, sostengono, sono molto più alti (sino a 10 volte di più) di quelli previsti. I numeri: tra poco meno di un bilione (ottimistico) ed i due bilioni di dollari (realista). Quando poco prima della guerra, l’economista Larry Lindsey, funzionario delll’amministrazione Bush, preventivò un costo della stessa tra 100 e 200 milioni di dollari, dalla stessa Casa Bianca lo smentirono ritenendolo di gran lunga minore e aggiungendo che la guerra avrebbe portato benefici all’economia statunitense. Abbattuto Saddam Hussein, i costi sarebbero stati pagati dall’Iraq con il petrolio. Le cose stanno andando un po’ diversamente. I loro calcoli includono costi diretti ed indiretti. Ad es. trattamento medico e non abilità per i (finora e sempre ufficialmente) 16mila feriti statunitensi, dei quali un 20% ha serie lesioni cerebrali.

 

Iraq. 23 gennaio. La Casa Bianca riconosce, implicitamente, che non potrà adempiere ai suoi impegni di ricostruire il paese distrutto dalla guerra. Los Angeles Times dà per dissolto il cosiddetto “Piano Marshall” per l’Iraq. Alla fine dell’anno i 18.600 milioni di dollari approvati dal Congresso nel 2003 per la ricostruzione saranno finiti, mentre l’Iraq continua ad essere distrutto. Militari e funzionari statunitensi, citati dal quotidiano statunitense, hanno detto che non ci saranno ulteriori risorse, nonostante le necessità. C’è chi parla anche più chiaramente. «Non abbiamo mai avuto intenzione di ricostruire l’Iraq», sostiene il generale William McCoy, comandante del corpo degli ingegneri dell’esercito USA in Iraq. Ora si parla del ruolo del settore privato e di una riforma tipo Fondo Monetario Internazionale di aggiustamento strutturale di privatizzazioni, riduzione della burocrazia e di altri impieghi ritenuti non necessari, così come la cessazione dei sussidi.

 

Bolivia. 23 gennaio. «Siamo qui per cambiare la Bolivia, per far cessare l’ingiustizia, per mettere fine al saccheggio delle risorse naturali» ha detto, commosso e applaudito, Juan Evo Morales, l’ex contadino del villaggio di Orinoca che ieri ha giurato come sessantaseiesimo presidente della Bolivia, il primo di origini indigene. La stampa boliviana dà oggi ampio risalto all’evento, con l’edizione on line dell’autorevole quotidiano nazionale La Razón che ha dedicato un’ampia scheda biografica a Morales, titolandola «Il primo capo dello Stato indigeno ha lottato per la sua vita fin da bambino». Morales, 46 anni, ha giurato ieri –senza cravatta– ed è salito a Palazzo Quemado, sede del governo, con un 74% di popolarità, una situazione senza precedenti per un capo di Stato boliviano che, dallo scorso 18 dicembre, allorché vinse le elezioni presidenziali al primo turno con il 54% dei voti, ha visto aumentare di 20 punti percentuali la fiducia del Paese nei suoi confronti. L’investitura di Morales è avvenuta davanti a 10 capi di Stato latinoamericani e ad altre personalità mondiali nella sede del parlamento, dominato dai suoi sostenitori in seguito al grande successo ottenuto dal Movimento al Socialismo (MaS) nelle recenti elezioni generali. Morales non è riuscito a trattenere l’emozione e, nella parte centrale del suo discorso, ha ribadito un concetto che gli è stato particolarmente caro in campagna elettorale: «Tutti abbiamo il diritto di vivere bene, di vivere meglio, ma senza sfruttare, senza rubare» ha detto il presidente, aggiungendo che «gli indigeni al potere non rappresentano nessuna concessione a nessun partito; è una conquista di coloro che hanno dato la loro vita per le elezioni libere e generali a partire dalla rivoluzione del 1952».

 

Bolivia. 23 gennaio. Con il pugno sinistro in alto e la mano destra sul cuore, come aveva fatto domenica all’atto della sua investitura, il presidente della Repubblica Evo Morales ha assistito al giuramento del suo nuovo governo, composto da 16 ministri, tre dei quali donne. Morales ha chiesto ai componenti dell’esecutivo di «restituire onore alla politica e di lavorare per cambiare la Bolivia». Tra i titolari dei nuovi dicasteri figurano intellettuali di sinistra, indios e rappresentanti dei movimenti sociali, dei minatori e dei contadini: il ministro degli Esteri è un indio aimara, David Choquehuanca, alto dirigente del movimento contadino; alla Difesa è stato chiamato l’avvocato e difensore dei diritti umani Walter San Miguel; all’Interno Alicia Muñoz Ala, senatrice del Movimento al Socialismo (MaS), il partito di Morales. Il neo-presidente ha istituito due nuovi ministeri: per lo Sviluppo sostenibile (assegnato a Carlos Villegas) e quello dell’Acqua (Abel Mamani). Il centrale e strategico ministero degli Idrocarburi è stato affidato ad Andrés Solís Rada, giornalista ed ex-parlamentare famoso per le sue battaglie contro l’ex-presidente Gonzalo Sánchez de Losada. «La politica è la scienza di servire il popolo; essere un’autorità vuol dire servire il popolo e non vivere del popolo» ha detto Morales durante il discorso successivo al giuramento dei suoi ministri. «Da questo momento, cominciamo a lavorare: la festa è finita, così come la luna di miele. È arrivato il momento di cambiare la Bolivia», ha concluso il neo-presidente.

 

Bolivia. 23 gennaio. Nel suo discorso di investitura (una dozzina i capi di Stato presenti ed un migliaio i giornalisti da tutto il mondo), Morales ha ribadito che il modello neoliberale «non va» per la Bolivia, come dimostrano tanti anni di corruzione e povertà. Su questa linea, ha ricordato che «duole» vedere che, avendo la Bolivia tante risorse naturali, molti compatrioti debbano lasciare il paese per lavorare precariamente all’estero. In interviste al quotidiano cileno El Mercurio e al cubano Juventud Rebelde, Morales ha confermato il suo impegno nel recupero da parte del paese andino delle sue ricchezze sfruttate dalle multinazionali. «Nazionalizzeremo e recupereremo il diritto di proprietà», ha aggiunto, per precisare che «quelle (le multinazionali, ndr) possono essere socie, ma non padroni». Questo processo inizierà quest’anno «appena formate le liste dei gruppi tecnici, il più rapidamente possibile» e riguarderà concessioni forestali, minerarie e acquifere. Ribadito il suo impegno a sradicare l’analfabetismo. In tal senso ha annunciato che lavorerà gomito a gomito con Cuba e Venezuela: «vogliamo la loro esperienza, giacché hanno sradicato l’analfabetismo ed hanno trovato soluzioni a problemi come la salute e l’educazione».

 

Euskal Herria. 24 gennaio. Lakua annuncia oggi la creazione del Consiglio Politico. Lo fa tramite la portavoce dell’esecutivo autonomico basco, Miren Azkarate. Sarà formato dal governatore Juan José Ibarretxe, dal consigliere alla Giustizia, Joseba Azkarraga, e dal titolare all’Edilizia, Javier Madrazo. Funzione di questo organismo sarà concorrere alla creazione di un tavolo di dialogo tra i partiti.

 

Corsica. 24 gennaio. Ondata di attentati. Nella notte tra lunedì e martedì la Corsica è stata teatro di cinque attentati che hanno preso di mira anche siti turistici italiani. Una potente bomba ha interamente distrutto l’edificio principale di un centro-vacanze di proprietà italiana a Taglio Isolaccio. Altre tre bombe hanno distrutto una quindicina di bungalows in un campeggio appartenente a italiani, a Castellare di Casinca. Gli attentati non sono stati rivendicati.

 

Unione Europea. 24 gennaio. CIA: un centinaio i rapimenti in Europa. Oltre cento persone sono state sequestrate negli ultimi anni in Europa dalla CIA (servizio segreto USA), senza che se ne sapesse niente, e trasferite in paesi dove sono state sottoposte a tortura. I governi ed almeno i servizi di tali Stati (di partenza e d’arrivo) erano sicuramente informati di queste «consegne». È quanto sostiene il senatore svizzero Dick Marty nel rapporto provvisorio presentato oggi al Consiglio d’Europa. Il ministro della giustizia USA Gonzales ha detto di «non concordare» con il rapporto.

 

Etiopia. 24 gennaio. Il giornalista britannico Anthony Mitchell, corrispondente in Etiopia per l’agenzia d’informazione USA Associated Press, è stato espulso da Addis Abeba su ordine del ministero dell’Informazione. L’agenzia Misna riporta le notizie pubblicate sulla stampa etiope secondo cui Mitchell si è meritato il provvedimento per aver «infangato l’immagine della nazione», diffuso notizie «lontane dall’essere vere» e per «avere ripetutamente contravvenuto all’etica giornalistica». Il giornalista «è stato più volte avvisato e ammonito per il suo comportamento scorretto» ma «ha continuato a diffondere notizie intese a diffamare l’immagine del paese», si legge nella nota diffusa dal ministero e rilanciata dai media. Mitchell, che oltre a lavorare con l’AP, collabora anche con la rete informativa delle Nazioni Unite Irin, non è il primo giornalista costretto a lasciare l’Etiopia, dove, dalle ultime elezioni, si susseguono sommosse e scontri tra forze dell’ordine ed opposizione, inclusi giornalisti etiopi. Tra questi ultimi, anche cinque corrispondenti radiofonici di Voice of America, al momento rifugiatisi a Washington, incriminati in contumacia per «tradimento e genocidio» con altri 124 imputati.

 

USA / Iran. 24 gennaio. L’amministrazione USA ha stanziato 5 milioni di dollari per il dipartimento di Stato da destinare ai gruppi oppositori della Repubblica Islamica dell’Iran. Secondo la Voce della Repubblica Islamica dell’Iran questa cifra, superiore del 70% rispetto all’anno scorso, è una dimostrazione, allo stesso tempo, degli intenti destabilizzatori di Washington contro Teheran e del loro ripetuto fallimento, dato che la cifra aumenta di anno in anno. «L’invasione politico-propagandistica della Casa Bianca contro l’Iran continua ininterrottamente da 26 anni, e gli USA, visti i successi in est Europa, in Asia Centrale e Caucaso, pensano di potere far così cadere la Repubblica Islamica. Il segretario di Stato USA, Condoleezza Rice, ha dichiarato recentemente di avere la speranza che il suo governo, tramite i mass media e la collaborazione delle organizzazioni non governative, possa creare dei cambiamenti in Iran (...) La verità è che l’invasione propagandistica degli americani contro altri paesi ha dato dei risultati positivi solo perché tali governi non godevano del sostegno popolare. Ma la Repubblica Islamica dell’Iran è un sistema governativo eletto da un popolo che con tanti sacrifici ha portato alla vittoria la rivoluzione islamica e che poi, con la maggioranza assoluta dei voti, ha scelto la Repubblica Islamica come proprio sistema (…) La politica interventistica degli Stati Uniti non potrà mai funzionare in Iran», è il commento della Voce della Repubblica Islamica dell’Iran.

 

Spagna / Catalogna. 25 gennaio. I giudici spagnoli tacciano come «incostituzionale» il nuovo progetto di riforma dello Statuto catalano. Il Consiglio generale del potere giudiziario spagnolo (Cgpj) ha infatti approvato uno studio che mette in dubbio la costituzionalità del nuovo progetto di riforma dello statuto della Catalogna, al centro di un vero e proprio scontro politico nel paese, e che afferma che il nuovo statuto «getta le basi per un potere giudiziario rigidamente catalano».

 

Costa d’Avorio. 25 gennaio. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato all’unaminità l’estensione del mandato della forza ONU e dei militari francesi presenti in Costa d’Avorio fino al 15 dicembre prossimo. A causa del veto degli Stati Uniti, non è invece passata la proposta di aumentare gli effettivi come suggerito dal segretario generale Kofi Annan nel suo ultimo rapporto sulla situazione in Costa d’Avorio. L’ambasciatore USA al Consiglio si è opposto all’invio di nuovi rinforzi. L’agenzia Misna rileva però che nella risoluzione si legge che il Consiglio prenderà nuovamente in esame la richiesta nei prossimi mesi. Che si tratti di un monito statunitense a Parigi improntato al do ut des, volto cioè ad assicurarsi il sostegno francese in una probabile riunione futura del Consiglio di sicurezza sul tema Iran, in cambio di un appoggio a Parigi in Costa d’Avorio, dove la situazione non è delle più promettenti per gli interessi francesi?

 

Costa d’Avorio. 25 gennaio. Alassane Ouattara, ex-primo ministro in esilio in Francia dalla fine del 2002 e attuale capo della Riunione dei repubblicani, ritorna in Costa d’Avorio. Come rende noto l’agenzia Misna, Ouattara aveva annunciato lo scorso 17 gennaio, dal suo esilio francese a Lille, il ritorno in Costa d’Avorio e la contestuale presentazione della sua candidatura per le elezioni del prossimo ottobre. Già nel 2000 Ouattara si era candidato alle presidenziali ma era stato escluso in base ad una legge a causa della sua origine burkinabé. Secondo alcuni commentatori internazionali, Ouattara sarebbe stato uno degli artefici del tentativo di colpo di stato del 19 settembre 2002 contro il presidente Laurent Gbagbo.

 

Israele. 25 gennaio. Israele non potrà accettare una situazione in cui il movimento islamico Hamas diventi parte dell’Autorità Nazionale Palestinese. Lo ha affermato il primo ministro ad interim Ehud Olmert, secondo cui Israele non può accettare Hamas nella sua attuale struttura di organizzazione terroristica che vuole la distruzione dello stato ebraico. Olmert ha anche detto che «Israele non condurrà negoziati con un governo (palestinese, ndr) che non onori il suo obbligo fondamentale di combattere il terrorismo».

 

Iraq. 25 gennaio. Saddam Hussein ha incaricato i suoi legali (tra cui Ramsey Clark, ministro della Giustizia dal 1967 al 1969 sotto l’amministrazione Johnson) di fare causa contro Bush e Blair per aver distrutto l’Iraq. Lo scrive Dagospia. «L’accusa è di aver commesso crimini di guerra, usato armi di distruzione di massa, torturato prigionieri, distrutto siti archeologici e aver inquinato l’aria dell’Iraq (…) Il team di avvocati, che fa base ad Amman, in Giordania, dichiara di voler portare George e Tony davanti alla Corte Internazionale dell’Aia, e chiedere per loro il massimo della pena secondo le leggi olandesi e del diritto internazionale».

 

Iran. 25 gennaio. Per gli Stati Uniti l’offerta del Cremlino di trasferire in Russia il processo di arricchimento dell’uranio iraniano non cambia nulla. Gli USA, ha detto il portavoce del dipartimento di Stato McCormack, ritengono che nella riunione del 2 febbraio del Consiglio dei Governatori dell’Aiea ci debba essere un voto per il deferimento di Teheran al Consiglio di Sicurezza. Washington è convinta di avere i voti sufficienti per ottenere il deferimento dell’Iran.

 

Pakistan / Iran. 25 gennaio. Nuova Delhi e Teheran ribadiscono la volontà di realizzare il più presto possibile il cosiddetto “gasdotto della pace”, di oltre 2.600 chilometri e del valore di circa 4,5 miliardi di dollari, che dal territorio iraniano raggiungerebbe l’India passando per il Pakistan. Lo hanno detto congiuntamente il ministro pakistano del petrolio e delle risorse naturali, Muhammad Naseer Mengal, ed il vice ministro del petrolio iraniano Hadi Najad-Hosseinian. Il gasdotto scorrerebbe per 1.115 chilometri in territorio iraniano, 705 in Pakistan e 850 in India, e verrebbe incontro alla crescente domanda energetica di Nuova Delhi. Secondo alcuni analisti, il vertice tra Islamabad e Teheran su quest’opera ha rappresentato anche una sfida indiretta agli Stati Uniti, da sempre ostili al progetto in funzione anti-Iran, che Washington vorrebbe esclusa dai circuiti di distribuzione del petrolio e del gas. È dal 1996 che gli iraniani propongono il progetto, ricevendo però il rifiuto dell’India, che temeva eventuali attentati al gasdotto in territorio pakistano. La riconciliazione tra Islamabad e Nuova Delhi, avviata dal 2004, ha favorito però un dialogo su questa iniziativa.

 

Sri Lanka. 25 gennaio. La guerriglia Tamil (LTTE) accetta di incontrare il governo di Colombo, a metà febbraio a Ginevra, in Svizzera. Lo ha detto un responsabile della missione di pace sotto l’egida della Norvegia, Eric Solheim, ricordando che le Tigri di Liberazione della Terra Tamil (LTTE) avevano solo accettato di recarsi ad Oslo per colloqui, respingendo ogni altra offerta di incontro in qualche località asiatica, come preferito dal governo cingalese. I tamil non intendono, però, raggiungere alcun accordo mentre persiste la repressione. Secondo i diplomatici, se non si sblocca la situazione, il ritorno alla guerra sarà inevitabile.

 

Mongolia. 25 gennaio. Il parlamento mongolo ha designato come nuovo primo ministro Enkhbold, già sindaco della capitale Ulan Bator. Come riferisce l’agenzia Misna, la nomina del capo del Partito rivoluzionario del popolo mongolo (Mprp) –ex partito comunista che guidò il paese per tutto il ventesimo secolo ed è rimasto al potere 14 anni dopo la caduta del regime sovietico– ha messo fine a una crisi politica iniziata settimane fa quando oltre metà dell’esecutivo, composto da membri del Mprp, si dimise provocando la caduta del governo e del suo primo ministro Tsakhia Elbegdorj, di tendenze liberiste. La crisi era stata caratterizzata da proteste popolari di simpatizzanti dei diversi schieramenti politici. Enkhbold ha promesso che cercherà di formare al più presto un nuovo governo e ha sottolineato che gli obiettivi della sua amministrazione sono aumentare salari e pensioni, oltre a includere nel futuro esecutivo altri partiti politici.

 

Salvador. 25 gennaio. È morto uno degli esponenti storici del Fronte Farabundo Marti di Liberazione Nazionale (FMLN), Jorge Schafik Handal. Handal, 76 anni, ieri sera ha avuto un attacco cardiaco che lo ha colto appena sceso all’aeroporto della capitale proveniente dalla Bolivia, dove aveva assistito all’insediamento del presidente Evo Morales. Attualmente deputato in Parlamento, Handal era molto amico del presidente venezuelano Hugo Chávez. La sua vita è trascorsa tra esilio e clandestinità come capo di una delle quattro organizzazioni guerrigliere, il Partito Comunista, che costituirono il FMLN e combatterono l’Esercito sostenuto dagli USA nella guerra civile 1980-1992, che lasciò circa 70mila morti.

 

USA / Venezuela. 25 gennaio. «Il presidente venezuelano Hugo Chávez si sta intromettendo troppo nelle questioni interne di altri Stati. Deve lasciare che i rispettivi presidenti si occupino dei loro Paesi e la cosa migliore per la regione sarebbe che Chávez pensasse solo alle sue questioni». Lo ha detto l’ambasciatore statunitense a Lima, James Curtis Struble, parlando con la stampa peruviana a proposito della recente crisi –ricomposta– tra Perù e Venezuela, innescata dal sostegno indiretto di Chávez al candidato alle presidenziali peruviane Ollanta Humala.

 

Bolivia. 25 gennaio. Il neo-presidente Evo Morales, giunto oggi al terzo giorno del suo mandato, ha nominato i vertici delle forze armate boliviane, chiedendo «l’appoggio dei militari nel processo di cambiamento» e annunciando l’apertura di un’inchiesta per lo scandalo della consegna illegale di 28 missili boliviani agli Stati Uniti nelle settimane precedenti le elezioni presidenziali. Come riferisce l’agenzia Misna, Morales ha conferito l’incarico di comandante delle forze armate al generale Wilfredo Vargas, promuovendo in ruoli di comando altri alti ufficiali e passando invece alla riserva attiva una trentina di generali, alcuni dei quali indagati con Antezana per lo scandalo dei missili. Il ricambio ai vertici delle forze armate, notano sui quotidiani boliviani di oggi alcuni analisti, colpisce soprattutto i generali promossi in tale carica nel biennio 1973-1974, come nel caso di Antezana e di un altro degli indagati per lo scandalo dei missili, il generale Marco Antonio Vásquez.

 

Germania. 26 gennaio. Gli sgravi fiscali sugli accantonamenti finanziari delle centrali nucleari tedesche non rappresentano un aiuto di Stato. Lo ha deciso il Tribunale di primo grado dell’UE. La legge tedesca impone alle strutture di accantonare riserve finanziarie per coprire le spese di smaltimento e di chiusura definitiva degli impianti, prevedendo che tali accantonamenti possano essere iscritti nel passivo del bilancio, determinando così una riduzione della base imponibile.

 

Costa d’Avorio. 26 gennaio. Un tribunale militare della Costa d’Avorio ha emesso mandati di arresto internazionali contro due ufficiali francesi, tra i quali l’ex-comandante del contingente inviato da Parigi nella sua ex-colonia. Lo si apprende da fonti giudiziarie, citate dalla stampa internazionale. I provvedimenti riguardano il generale Henri Poncet, comandante del contingente ‘Licorne’ nel novembre 2004, quando i soldati francesi spararono sulla folla ad Abidjan provocando non meno di una sessantina di vittime e centinaia di feriti tra i manifestanti, in gran parte disarmati, e il colonnello Patrick Destremau, responsabile delle truppe francesi all’esterno dell’Hotel Ivorie di Abidjan, dove avvennero gli incidenti. Una dozzina di militari francesi, compreso Poncet, sono già sotto accusa nel loro Paese per la morte di un ivoriano a maggio dell’anno scorso, avvenuta in circostanze poco chiare, dopo essere stato fermato dai militari della Licorne. Al momento, la Francia mantiene in Costa d’Avorio circa 4.500 soldati sotto l’egida dell’ONU, che affiancano la missione di pace del Palazzo di vetro, conosciuta come ONUCI, con circa 6.500 caschi blu.

 

Palestina. 26 gennaio. Un voto per la resistenza. Il movimento islamico Hamas, vincitore delle elezioni legislative palestinesi, si è detto pronto a cooperare con Al Fatah. Il presidente Abu Mazen ha accettato le dimissioni del premier Abu Ala e ha lanciato un appello a tutte le forze palestinesi perché rispettino il risultato del voto. Abu Mazen darà l’incarico di formare il nuovo governo a una personalità designata da Hamas.

 

Iraq. 26 gennaio. Gli attacchi insorgenti sono aumentati del 30% in Iraq: 34.100 nel 2005, di fronte ai 27.000 del 2004. Il dato è contenuto in una relazione diffusa dall’esercito USA.

 

Iraq. 26 gennaio. L’esercito USA è ridotto «allo stremo», a «una sottile linea verde», e la macchina da guerra più potente al mondo è sul «punto di rottura». Lo studio del Pentagono, che segnala che l’esercito degli Stati Uniti è stato ridotto al «punto di rottura» dalla “guerra al terrorismo” sui fronti dell’Iraq e dell’Afghanistan, prospetta una gamma di soluzioni per affrontare la situazione. Ecco alcune delle misure allo studio o già adottate. Il numero delle brigate da combattimento in servizio permanente effettivo passerà nei prossimi anni, come già previsto, da 33 a 42, con l’obiettivo dichiarato di permettere ai soldati di passare due anni alla loro base per ogni anno al fronte, mentre attualmente stanno un anno e mezzo alla base e un anno al fronte, in Iraq o in Afghanistan. Nel frattempo, l’esercito sta infoltendo i ranghi delle unità da combattimento, mentre affida a civili alcune funzioni non combattenti attualmente svolte da militari, con il risultato di aumentare gli effettivi combattenti senza aumentare il totale degli effettivi, che sono circa 482mila. L’esercito sta «riequilibrando» le sue unità, convertendo unità di artiglieria o di difesa aerea, che sono oggi meno necessarie, in squadre speciali e polizia militare.

 

Cina. 26 gennaio. La Cina non si ferma, ora è la quarta potenza. L’economia cinese fa un altro balzo in avanti e conquista il quarto posto nella graduatoria mondiale. Dopo l’Italia (scavalcata nel 2004), anche Francia e Gran Bretagna restano indietro e Pechino si piazza subito dopo Stati Uniti, Giappone e Germania. In realtà è d’obbligo il condizionale, perché si tratta di stime preliminari. Ma se saranno confermate le cifre diffuse ieri dall’Ufficio centrale di statistica di Pechino, la crescita del PIL cinese a 2.260 miliardi di dollari nel 2005 (+9,9%) non lascia margini di dubbio. D’altro canto, il governo di Pechino si trova a gestire una situazione interna non facile. È vero che i dati dell’Ufficio di statistica diffusi ieri parlano di vendite al dettaglio in crescita del 12,9%, di una produzione industriale a valore aggiunto che segna un +11,4 e di investimenti fissi aumentati del 25,7%. È altresì vero che l’inflazione è crollata dal 3,9 all’1,8% in un anno. Ma proprio mentre da Davos si guarda alla Cina come al mercato interno più interessante anche per rilanciare la macchina produttiva di un Occidente già molto provato, ecco che i consumi risultano in calo dello 0,5. E non è l’unica spina nel fianco, se è vero che cresce lo scontento nelle campagne per le precarie condizioni di vita (circa 800 milioni di persone vivono tuttora con meno di un dollaro al giorno) e il regime non manca di farsi sentire con repressioni anche violente e censure: proprio in questi giorni si susseguono gli scontri con la polizia nelle campagne del Guandong, mentre il ministero della Pubblica sicurezza ha dichiarato che nel 2005 il numero dei «disturbi all’ordine sociale» è aumentato del 6,6%, arrivando a quota 87mila.

 

USA / India. 26 gennaio. Washington minaccia l’India di sospendere l’accordo con il quale gli USA condividono la loro tecnologia nucleare, se Nuova Delhi non voterà contro l’Iran sostenendo Washington nei suoi propositi di trasferire la crisi nucleare iraniana al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Dichiarazioni «inappropriate», le ha definite il governo indiano, anche se svariati osservatori ritengono che alla fine Nuova Delhi si allineerà alle posizioni USA. L’India dipende, per l’energia, da Teheran, ma un accordo con Washington, già raggiunto nei suoi principi generali lo scorso luglio ma non ancora negoziato nei dettagli, se ratificato consentirebbe all’India l’accesso alla tecnologia nucleare civile statunitense, negata per circa trent’anni. Washington ha anche minacciato il Sudafrica che, la scorsa settimana, si era offerto nel ruolo di intermediazione per una soluzione negoziata su nucleare iraniano.

 

Corea del Sud. 26 gennaio. Per la prima volta un tribunale d’appello sudcoreano ha condannato le aziende statunitensi produttrici del micidiale diserbante Agente Orange, usato nella guerra del Vietnam, a pagare un risarcimento ai reduci sudcoreani e alle loro famiglie, vittime di avvelenamento causato dal prodotto a base di diossina. Come riferisce l’agenzia Misna, l’Alta corte di Seul, capovolgendo una sentenza di primo grado, ha ordinato alle aziende Dow Chemical e Monsanto di versare un totale di 62 milioni di dollari a 6800 persone come risarcimento per gravi danni fisici causati dalla diossina; secondo alcune fonti ogni querelante avrà un risarcimento variabile dai 7.000 ai 47.000 dollari. In una sintesi della sentenza, si legge che la Corte riconosce i due colossi dell’industria chimica come responsabili delle malattie dei reduci perché causate da “difetti” nel loro prodotto. Durante la guerra del Vietnam, la Corea del Sud inviò in appoggio all’alleato statunitense 320.000 uomini. Secondo statistiche dell’esercito statunitense, dal 1962 al 1971 l’aviazione USA scaricò sulle foreste vietnamite circa 9 milioni di litri di diserbante, di cui la metà Agente Orange. In complesso, alla magistratura sudocoreana sono state presentate due denunce contro i produttori statunitensi che coinvolgono in tutto 20.600 reduci e i loro familiari; è stato accertato che la diossina provoca molte malattie invalidanti e mortali, incluso il cancro, ma anche aborti e gravi malformazioni fisiche e mentali nei bambini nati dalle persone esposte dal veleno. Più triste il destino delle vittime vietnamite del micidiale veleno, stimate dalla Croce Rossa locale in 1 milione, inclusi 150.000 bambini.

 

USA. 26 gennaio. Le banche d’affari USA Goldman Sachs e Morgan Stanley sono gli istituti che hanno venduto il maggior numero di obbligazioni risultate insolventi. Secondo una ricerca effettuata da Bloomberg, questi due colossi bancari hanno collocato sul mercato il maggior numero di obbligazioni (bond) finite “in default” dal gennaio 2003 al gennaio 2006: Goldman Sachs ha venduto 3,5 miliardi di dollari di obbligazioni divenute poi insolventi, mentre Morgan Stanley ha raggiunto la cifra di 2,77 miliardi. Terza la Deutsche Bank con 2 miliardi di dollari. «Se, pe