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Alcune considerazioni su pacifismo, cristianesimo e « guerra giusta»

di Francesco Lamendola - 25/09/2008

 

 

 

Il lettore ricorderà, forse, che ci eravamo a suo tempo occupati del problema, storico ed etico-filosofico insieme, dell'atteggiamento dei primi cristiani di fronte alla guerra e, più in generale, di fronte all'esercizio delle armi, precisamente nell'articolo È lecito a un cristiano militare? Alcune riflessioni sul caso di Massimiliano (consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice), prendendo lo spunto da un celebre caso di martirio nell'Africa settentrionale.

Vogliamo ora cercar di fare il punto sulla questione delle liceità della guerra, da un punto di vista cristiano, nell'epoca presente, dopo la tragica esperienza di due conflitti mondiali e dopo l'avvento dell'arma atomica, sperimentata su bersagli umani nel 1945, ed oggi talmente potenziata e perfezionata, nonché talmente diffusa fra gli arsenali militari di più Stati, da mettere seriamente in pericolo le prospettive di sopravvivenza dell'intera umanità.

Anche se, dopo la fine della  «guerra fredda», i media e gran parte degli intellettuali hanno accantonato la questione, come se il pericolo non fosse più immediato e reale, a noi sembra che vi sia stata una intenzionale e, quindi, colpevole rimozione di quello che è uno dei massimi problemi che incombono sul futuro dell'umanità, e una delle poche questioni capitali, sulle quali non è consentito alcun agnosticismo e alcun indifferentismo.

Restando nell'ambito della cultura italiana, dobbiamo ricordare la coraggiosa presa di posizione di Carlo Cassola, già tanto bistrattato - e a torto - dalla critica «impegnata» e «progressista», per un preteso disimpegno della sua opera letteraria (vi fu chi lo paragonò a Liala); il quale, incurante dei motteggi e dei sorrisetti di degnazione della quasi totalità dei suoi colleghi scrittori, condusse una solitaria battaglia civile per rendere consapevole il vasto pubblico della urgenza e gravità del pericolo di guerra nucleare, e per scuotere le coscienze intorpidite dai miti deresponsabilizzanti di un consumismo becero e sfrontato.

Ma, dopo la caduta dell'Unione Sovietica, si è preferito credere che il grande pericolo, se mai vi era stato, sia definitivamente scomparso, o, quanto meno, che si sia di molto attenuato; e solo la crisi internazionale provocata dal conflitto in Georgia, nella tarda estate del 2008, ha indotto alcuni intellettuali a una riassunzione di consapevolezza nei confronti del problema della pace e di ciò che significherebbe, oggi, un conflitto armato tra le maggiori potenze del pianeta.

 

Che cosa ha da dire la cultura cristiana a questo proposito; la cultura, cioè, che per quasi due millenni è stata dominante nel mondo occidentale, e ha accompagnato l'Europa (e, poi, buona parte del resto del mondo) attraverso profondi cambiamenti economici, sociali, politici, tecnologici e intellettuali?

Nonostante le previsioni dei tre grandi cattivi maestri della modernità - Marx, Nietzsche e Freud -, secondo i quali la definitiva «morte di Dio» (visto come proiezione alienata e rovesciata delle nostre aspirazioni e delle nostre paure terrene), avrebbe condotto all'emancipazione dell'uomo e alla instaurazione di un mondo migliore, non abbiamo assistito né alla prima cosa, né alla seconda. L'uomo, infatti, non si è emancipato (se non per ricadere in nuove e peggiori forme di schiavitù), e il mondo che ci accingiamo a lasciare in eredità ai nostri figli non si può affatto considerare migliore di quello che abbiamo ricevuto dai nostri genitori.

Il cristianesimo, quindi - piaccia o non piaccia - si è dimostrato una forza spirituale ancora viva e capace di offrire delle risposte al grave disorientamento dell'uomo moderno; e, al di là dei panegirici fuori luogo di molti suoi sostenitori, così come delle astiose polemiche di molti suoi detrattori, sembra effettivamente in grado, nonostante tutto, di fornire una indicazione verso l'Assoluto, in tempi di una profonda e generalizzata crisi di valori e di certezze.

Non bisogna, d'altra parte, sopravvalutare la capacità, o la possibilità, da parte della cultura cristiana, di operare quella trasformazione spirituale cui aspira l'umanità desiderosa di pace, specialmente considerando i margini di tempo assai ristretti con i quali ci troviamo a dover fare i conti, e non solo riguardo alla minaccia della guerra (basti solo pensare alla catastrofe ecologica e climatica che ci incombe sul capo).

Non bisogna, però, confondere la cristianità con il cristianesimo, ma tenere sempre presente la giusta distinzione tra le due cose fatta notare, a suo tempo, da Kierkegaard; e, anzi, il paradosso secondo il quale, se la società è interamente cristiana, allora nessuno è veramente cristiano. Ma, a differenza dell'epoca in cui visse Kierkegaard, oggi la società occidentale non è più cristiana neppure in senso formale; e la miglior prova di questa affermazione è data dal fatto che i governi, gli intellettuali e le masse occidentali sembrano ricordarsi, ormai, del proprio cristianesimo quasi solo quando si tratta di farne una bandiera, per ragioni che nulla hanno a che fare con la religione o con la morale, contro altre religioni.

Dunque, se pure i cristiani sono divenuti ormai una minoranza nel mondo occidentale, e se pure la cultura cristiana è divenuta, e da tempo, una cultura minoritaria nell'ambito dell'Occidente (sostituita, peraltro, non già da altre culture, ma da un processo di radicale deculturazione, ossia da un materialismo spicciolo e banale, che è la negazione della cultura stessa), resta il fatto che il messaggio evangelico, nel senso etimologico di «lieto annuncio», conserva la sua freschezza e, anzi, la sua perennità.

Pertanto, al di là della dimensione del divenire e della contingenza, noi possiamo - e, forse, dobbiamo - interrogare quel nucleo originario, quell'annuncio che ha dato origine, nel tempo storico, alla cultura cristiana (la quale, al suo interno, è sempre stata talmente variegata, da far quasi pensare a delle culture cristiane, al plurale), ma che ha una proposta globale nei confronti dell'uomo, essendo quest'ultimo - oggi più che mai - alle prese con sfide e pericoli  di portata, appunto, globale.

E quando adoperiamo l'espressione «proposta globale», intendiamo una proposta che tenga conto, investa e faccia appello a tutte le dimensioni della natura umana, a tutte le sue risorse, a tutte le sue potenzialità, a tutte le sue attese, speranze e nostalgie, prima fra tutte quella dell'Assoluto; senza ignorarne alcuna.

Sulla base di questo criterio, e non per banale moralismo, abbiamo definito Marx, Nietzsche e Freud dei «cattivi maestri»: perché ciascuno di essi, a suo modo, si è fatto portatore di una proposta globale, prometeica, titanica; ma ciascuno di essi ha sacrificato parti essenziali della natura umana, finendo per mutilare e denigrare l'essere umano nella sua totalità. Infatti, la struttura ontologica della persona umana è tale, che non è possibile mutilarne o denigrarne una parte, senza sfigurarla e umiliarla nella sua totalità.

Non aver tenuto conto di questo fatto, dunque, è stato il peccato capitale di quei falsi riformatori dell'umanità; ma si è trattato di un peccato inevitabile, partendo - come costoro hanno fatto - da una idea distorta e contraffatta della persona umana: che non è né un ventre da saziare (Marx), né un Dioniso da far danzare incessantemente (Nietzsche), né un Figlio che solo ribellandosi al Padre e uccidendolo - almeno idealmente - potrà conquistare la propria libertà (Freud).

 

Il messaggio cristiano e la pace, dunque.

Bernhard Häring, il teologo tedesco di fama mondiale, in una sua concisa ma efficace monografia degli anni Ottanta, Nuove Armi per la pace (titolo originale: Umrüsten zum Frieden.Was Christen heutentun müssen, traduzione italiana di  Carlo Danna, Edizioni Paoline, Torino, 1984, pp. 31-36), fra l'altro, scriveva:

 

Nel suo studio rigorosamente documentato Roland Bainton giunge alla conclusione che «la chiesa primitiva è stata pacifista fino  all'epoca di Costantino».Il suo pacifismo deriva  non già da un uso legalistico di testi del Nuovo Testamento, bensì «da uno sforzo di attuare ciò che viene considerato il pensiero di Cristo. In rapporto ai problemi sociali la chiesa non fissa un dettagliato codice di etica o una nuova teoria politica, ma stabilisce una nuova scala di valori».

Nel nostro tempo militarista qualche scrittore cattolico tende a spiegare il pacifismo dei cristiani dei primi tre secoli facendolo dipendere da considerazioni non pacifiste: i padri si sarebbero opposti al servizio militare perché comportava l'eventualità di dover tributare culto idolatrico all'imperatore e altre occasioni di peccato. Sembra nondimeno che la chiesa abbia in qualche modo tollerato il servizio militare, specialmente nelle zone di confine minacciate da invasioni. Bainton rileva che esiste una tradizione pressoché continua «di servizio militare da parte dei cristiani sulla frontiera orientale». Ma in linea di principio «tutti i più importanti scrittori dell'Oriente e dell'Occidente hanno respinto la partecipazione dei cristiani alla guerra». Il servizio militare era tollerato, almeno in parte, perché poteva essere considerato una specie di servizio di polizia. Ma la guerra era vista come cosa totalmente diversa.

All'inizio dell'era costantiniana i Padri della chiesa, pur facendo qualche concessione alle teorie della «guerra giusta», inculcarono il pacifismo come regola assoluta per i monaci e per il clero e tracciarono direttive rigorose per un comportamento non-violento nella vita privata. Ambrogio e Agostino per esempio non ammettevano che fosse lecito uccidere per legittima difesa al di fuori del servizio militare o pubblico. E san Basilio, quantunque avesse lasciato cadere l'obiezione generale contro la partecipazione dei cristiani ad operazioni belliche, continuava ad esprimere l'avversione della chiesa primitiva contro lo spargimento di sangue: «Le uccisioni fatte in guerra, i nostri padri non le consideravano uccisioni… ma forse sarà bene che costoro [che hanno ucciso in guerra], poiché le loro mani non sono pure, si astengano per tre ani dalla comunione».

A differenza della chiesa del tempo, piuttosto militarista, le sette del tardo medioevo erano generalmente inclini a quel pacifismo che aveva contraddistinto il cristianesimo primitivo. Tra i protestanti, gli anabattisti (mennoniti) e in seguito i quaccheri erano e sono fermamente attaccati a questa tradizione, ma in maniera notevolmente diversa tra di loro, Mentre gli anabattisti si astengono dalla vita politica, i quaccheri sanno combinare un forte senso di responsabilità e l'attività politica con il pacifismo. (…)

Anche se nella grande tradizione delle chiese vi sono sempre stati molti amanti della pace e molti operatori di pace, non tutti rivelarono l'ottimismo del quacchero William Smith che sognava l'esercito spirituale che avanza sotto lo stendardo dell'amore: esso avrà una forza tale che «le guerre cesseranno, la crudeltà avrà termine e l'amore abbonderà».

Le grandi chiese, caratterizzate, in un modo o nell'altro dall'alleanza fra trono e altare, avevano naturalmente difficoltà a lasciarsi porre delle domande dal pacifismo di questo o di quel tipo. Oggi notiamo una svolta significativa al riguardo. La lettera pastorale dei vescovi nordamericani (maggio 1983) guarda con grande attenzione all'opzione cristiana in favore della non-violenza e chiede che si approfondisca la questione di una resistenza non-violenta quale alternativa alla difesa militare. Il terzo schema del documento sulla pace dei vescovi tedeschi occidentali (maggio 1983) conteneva questa proposizione: «Il principio della non-violenza è indubbiamente di per sé molto più vicino a Gesù». E la redazione definitiva richiama in molti passi lo spirito della non-violenza.

Il Concilio vaticano II, pur ricordandoci in molti passi che la Provvidenza divina esige istantaneamente da noi che ci liberiamo dall'antica schiavitù della guerra, riprende, ma in una formulazione accuratamente ristretta, la teoria tradizionale della 'guerra giusta'. «Fintantoché esisterà il pericolo della guerra, e non ci sarà un'autorità internazionale competente munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di legittima difesa.

Qui l'alternativa di una difesa non-violenta sistematica, ben ponderata e preparata, non è o non è ancora pesa seriamente in considerazione. Il fatto che i documenti ecclesiali più recenti lo facciano, è un evento di portata storica, che si deve naturalmente sanche allo spirito e alle finalità del Concilio Vaticano II…»

 

Molte cose sono cambiate in questi ultimi venti anni, dopo il pontificato di Giovanni Paolo II, la crisi di credibilità delle nazioni Unite, la dissoluzione dell'Unione Sovietica, l'unilateralismo della politica estera americana e, soprattutto, l'evento traumatico dell'11 settembre 2001, con tutto quel che esso ha comportato nel modificare la percezione delle altre culture, da parte di quella occidentale.

D'altra parte, e al di là delle discussioni e delle polemiche intorno alla teoria della «guerra giusta» e alla sua liceità, - ammessa, in casi estremi - dalla Chiesa cattolica -, non dobbiamo perdere di vista, ai fini della presente riflessione, due elementi di primaria importanza.

Il primo è che la posizione della gerarchia ecclesiastica riguardo a tali questioni è un fatto essenzialmente storico (come dimostra la controversa valutazione etico-religiosa di casi come quello del martire Massimiliano, già alla sua epoca), mentre la perennità del messaggio evangelico è un fatto meta-storico.

I cristiani pensano, con ciò, a una dimensione soprannaturale, quella della Grazia, per cui la genuinità del messaggio evangelico si incarna non solo nella chiesa "visibile", ma anche al di fuori di essa, e perfino tra gli atei e i non cristiani: «lo Spirito, infatti - come è scritto negli Atti degli Apostoli - soffia dove vuole».

I non cristiani pesano, semplicemente, che anche il cristianesimo, come ogni altra religione, ha subito un processo di riassestamento e di parziale trasformazione allorché è divenuto la fede dominante, almeno in senso formale, della società in cui aveva esordito (anzi, di un'altra società: quella greco-romana e non più quella giudaica). Di conseguenza, non deve suscitare eccessivo scandalo - da un punto di vista storico -  il fatto che si sia creata una divaricazione tra il messaggio originario del Vangelo e alcuni dei principi sostenuti o ammessi, oggi, dalla cultura cristiana. Si tratta, invece, di riflettere sulle ragioni di tale divaricazione e di verificare se essa non possa venire colmata, almeno parzialmente, mediante una approfondita presa di coscienza e un onesto auto-interrogarsi, da parte dei cristiani stessi.

Quel che vogliamo dire è che non bisogna pensare che la posizione «ufficiale» della gerarchia ecclesiastica esaurisca la ricchezza e la perenne freschezza di ispirazione che l'ideale evangelico porta con sé, neanche rispetto al problema della pace e della guerra; perché «là dove due o tre si riuniscono in mio nome - aveva affermato il fondatore del cristianesimo - là ci sono io».

Il secondo elemento che bisogna tenere presente è che, se l'umanità storica è una vasta comunità «pellegrinante», alla ricerca, cioè, di un senso complessivo della propria condizione e del proprio esserci, allora le risposte che essa cerca di forgiarsi, via via, di fronte all'urgenza dei grandi problemi del vivere - e l'alternativa fra pace e guerra è uno di questi - non sono, né potranno mai essere altro che dei tentativi, delle approssimazioni, quasi dei balbettii di un discorso che è, di per se stesso, indicibile e inintelligibile,  perché travalica, per sua natura, la condizione del contingente e del finito, condizione nella quale, presentemente, siamo immersi.

Ecco allora che la nostra aspirazione a una pace che non sia soltanto assenza di guerra, ma costruzione di un mondo nuovo basato sulla giustizia e sull'amore (e tutte le discussioni sulle guerre giuste e ingiuste, difensive o preventive, nonché sulle varie forme di lotta e resistenza non-violente), ci apparirà per quello che essa effettivamente è: una tensione ideale, necessaria ma non autosufficiente, al reintegro della persona umana nella totalità dell'Essere, dal quale essa proviene e al quale aspira, con tutte le sue fibre più nascoste, a fare ritorno.

Se perdiamo di vista questo fatto, perdiamo di vista l'essenziale.

E può accadere che, animati dalla volontà di creare un mondo nuovo e migliore, radicandolo nel contingente e nel finito, finiamo per costruire - come si è visto più volte, e come purtroppo continuiamo a vedere, nella storia moderna - qualche cosa che assomiglia molto all'Inferno.