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Italia: un paese senza giovani

di Simonetta Fiori - 26/09/2008

 

I quindicenni nel 1980 erano un milione, nel 2009 saranno appena la metà
Un saggio di Massimo Livi Bacci affronta un problema demografico con fortissime incidenze sociali
Tra le persone incluse nello Who´s who solo il 2 per cento ha meno di 35 anni

La catastrofe è nascosta dietro una parola inglese, disempowerment. I demografi la chiamano "sindrome del ritardo", ossia la lentezza biblica con cui i giovani oggi conquistano autonomia e responsabilità. Un ingranaggio mortifero che dilata i tempi di attesa in un gioco al rimbalzo: il ritardo negli studi si riflette sul lavoro provocando costanti rinvii nelle scelte esistenziali come casa, matrimonio, figli. Una letargia tutta italiana che finisce per spogliare i giovani delle loro prerogative, relegandoli in ruoli marginali nella politica e nell´economia, in famiglia e nella cultura. In una recente rassegna di Who´s who - l´elenco delle persone che a ragione o torto sono considerate influenti nelle professioni o nell´élite pubblica - poco più del 2 per cento ha meno di trentacinque anni. Ed è diminuita tra il 1990 e il 2004 la percentuale di quelli compresi tra i 35 e i 50 anni.
Pochi, lenti e impotenti. Questo è il desolante quadro disegnato da Massimo Livi Bacci nel nuovo saggio sui giovani (la popolazione tra i 15 e i 30 anni), una meticolosa mappatura che incrocia statistiche e censimenti nell´arco dell´ultimo ventennio (Avanti giovani, alla riscossa, pagg. 118, euro 10). Scaraventati nei piani bassi delle classifiche europee, assistiamo al fenomeno con granitica indifferenza, come "narcotizzati", suggerisce Livi Bacci, professore di Demografia all´Università di Firenze e senatore del Partito Democratico. Anche il linguaggio restituisce questo diffuso intontimento, ancora "ragazzi" a trent´anni, "scrittori in erba" a quaranta, "giovani promesse" a cinquanta se si fa parte del Pantheon accademico. «La società s´è addormentata», sintetizza Livi Bacci, «ma temo che l´anestetico sia stato somministrato in dosi troppo massicce».
Specie ormai rara, decimata da una crisi di natalità che non ha eguali in Europa, i nuovi giovani contano tra le proprie file un numero sempre più esiguo di persone. Basti un dato: nel 1980 ha compiuto quindici anni quasi un milione di ragazzi e ragazze; nel 2009 i quindicenni saranno appena 560.000. In teoria il declino numerico dovrebbe implicare una maggiore disponibilità da parte dei genitori, dunque un più rapido ingresso nella società. Solo in teoria. Perché nella pratica, spiega Livi Bacci, è vero che i ventenni del 2008 hanno una dote assai più ricca rispetto ai loro coetanei del primo dopoguerra, «sono più alti, più sani, più istruiti, forse anche più belli, stando ai canoni estetici». Ma contano assai di meno dei loro scalcagnati nonni e bisnonni. «L´investimento dei genitori sui figli è oggi molto alto, ma tende più a conservare o ad aumentare il tenore di vita (consumi) che non la formazione del capitale umano (investimento). Questo processo ha concorso insieme ad altri fattori a indebolire la condizione giovanile». Con gravi conseguenze.
Prendiamo ad esempio la creatività. Uno studioso americano, Benjamin Jones, ha analizzato "l´età della scoperta" nelle biografie dei grandi innovatori e dei premi Nobel per la scienza tra il 1901 e il 2003. L´apice della vena inventiva viene raggiunto intorno ai trentacinque anni, mentre la curva raggiunge valori molto bassi dai cinquantacinque anni in poi. Nell´arco del secolo, poi, l´età media della scoperta aumenta di sei anni, a causa dell´inizio più tardivo dell´attività scientifica. Ne consegue che se la formazione ha tempi troppo lunghi - e ancor più estenuante è l´attesa del lavoro - ne soffre il potenziale innovativo della società. Si perde "l´attimo", e non si recupera.
Il ritardo italiano è ben evidenziato dai dati statistici, sia in relazione alla nostra stessa storia, sia nel confronto con i nostri contemporanei in Europa. Quel che Livi Bacci segnala nitidamente è un´inversione di tendenza rispetto alla rivoluzione novecentesca: se il secolo scorso è stato contrassegnato dalla progressiva "liberazione" della componente giovane da gravi patologie e da diverse costrizioni sociali, oggi la spinta positiva appare esaurita. Non pochi i segnali di questa involuzione tra gli adolescenti, come l´aumento dell´obesità e la diffusione di sindromi depressive, entrambe condizioni tipiche delle società prospere.
A questo s´aggiunge l´irrilevanza sociale subita oggi dalle generazioni più giovani. Il censimento del 1911 ci dice che oltre un terzo della popolazione economicamente attiva aveva meno di 30 anni; oggi questa percentuale è pari a un ottavo. Se osserviamo poi la precocità nello scalare le gerarchie sociali e professionali, vediamo che allora avevano meno di trent´anni il 10 per cento dei medici, il 19 per cento degli ingegneri e degli architetti, il 21 per cento degli avvocati, il 22 per cento del clero. Il censimento del 1999 fornisce per categorie professionali analoghe percentuali molto più basse: il 2,9 per cento per i medici, il 9,1 per cento per ingegneri e architetti, il 7,4 per cento per gli avvocati, il 4,2 per cento dei sacerdoti. «Nel giro d´un secolo», sintetizza lo studioso, «i giovani si sono liberati dal fardello dell´arretratezza, ma hanno anche perso il loro prestigio pubblico». Dal notariato alla magistratura, dalla pubblica amministrazione alla ricerca e alla Università, non c´è settore che non registri un preoccupante avanzamento nell´anagrafe.
Può colpire, nella radiografia di Livi Bacci, la rassegnazione con cui i ragazzi italiani subiscono questo spaventoso "scippo" sociale. Più che un vulcano prossimo all´eruzione, le indagini Iard o le inchieste della Commissione europea li rappresentano come un lago tranquillo, qui e là moderatamente increspato, ma complessivamente quieto. A differenza dei loro coetanei europei, non avvertono il bisogno urgente di affiancare allo studio un lavoro remunerativo, di affrancarsi dal tepore domestico anche a rischio di scomodità, di mettere su famiglia anche in condizioni più avventurose (le statistiche qui sono impietose). Ma Bamboccioni si nasce o si diventa? «Si diventa», risponde deciso Livi Bacci. «Se il sistema formativo imponesse un ritmo; se il mercato del lavoro fosse più aperto; se le aree protette fossero smantellate; se le famiglie non fossero indotte a sostituirsi allo stato sociale che con loro è assai avaro; se ci fosse un Erasmus universale che imponesse a tutti i giovani di fare un´esperienza all´estero? allora si ridurrebbe l´anestetico del sistema e di conseguenza la quota di bamboccioni - invero assai elevata - del nostro paese».
Non ne escono bene neppure le generazioni adulte, intrappolate entro schemi tradizionali, sostanzialmente scorrette nell´educazione (i maschi esonerati dai lavori domestici), soprattutto poco propense a un´apertura europea. Anche qui le cifre Iard, calcolate sulla base di diversi indicatori - contatti con l´estero attraverso amici o famigliari, viaggi, letture o tv in lingua straniera, rapporti di lavoro - , sono sconfortanti. «Paese di storica immigrazione cosmopolita e capitale della cristianità, l´Italia si colloca all´ultimo posto delle classifiche europee per il grado di apertura internazionale», riferisce il demografo. Può sembrare incredibile, eppure è così: ultima di quindici, dopo Portogallo, Grecia e Spagna, ai primi posti l´Europa del Nord. Ma non dovevano essere le generazioni dei padri, rigenerate dal Sessantotto, quelle più libertarie e cosmopolite? «Sono poco incline ad attribuire responsabilità collettive», risponde Livi Bacci, «ma un misto di familismo mediterraneo e perdonismo hanno permeato la società italiana negli ultimi decenni. Il Grande cambiamento del ventennio del dopoguerra - che imponeva rischio e fatica - è stato metabolizzato, capitalizzato e dimenticato. In seguito non è stato percepito che le conquiste politiche e civili vanno sostenute con i fatti e con le azioni».
Intanto la salvezza - rispetto all´estinzione giovanile provocata dal calo demografico - arriva proprio dai flussi migratori. È stato calcolato che, dopo il 2015, un adolescente su dieci sarà uno "straniero" di seconda generazione (cioè figlio di immigrati) nato in Italia, una percentuale che potrebbe salire nei dieci anni successivi fino a uno su sei. A questi vanno aggiunti i figli di stranieri nati fuori d´Italia, che entreranno nel paese al seguito dei genitori. Nel 2023 si calcola che l´incidenza degli stranieri sotto i quarant´anni si aggirerebbe attorno al quindici per cento della popolazione totale di pari età. Questo accade in un paese che si scopre (o si riconferma) razzista. Siamo attrezzati per questo cambiamento?
Il titolo del saggio - Avanti giovani, alla riscossa - riecheggia un celebre inno socialista. Ma i giovani non rappresentano un partito, tantomeno un gruppo sociale coeso. Quante generazioni ci vorranno perché l´Italia esca dalla palude in cui s´è cacciata nell´ultimo ventennio? «Le società cambiano più velocemente di quanto si pensi», replica Livi Bacci. «Le prerogative si perdono e si riacquistano con eguale facilità. Basta fare le cose giuste». Tanto per cominciare, svegliarsi.