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Nulla si impara senza sofferenza, e comprendere è un po' morire: ma per rinascere

di Francesco Lamendola - 01/10/2008

  

Nel precedente articolo Siamo tutti alla ricerca del ramo d'oro come Enea nel sacro bosco di Diana, presso Cuma (sito di Arianna Editrice) abbiamo evidenziato l'importanza di individuare il proprio «ramo d'oro» al fine di accedere a un livello superiore di consapevolezza, unica via per uscire dal labirinto angoscioso dell'effimero e del provvisorio, e per i cominciare a vedere la realtà con la necessaria chiarezza ed equanimità.

Abbiamo altresì affermato che il «ramo d'oro» è l'amore, inteso come comprensione e accettazione della nostra natura di manifestazioni dell'Essere; e, pertanto, come capacità di abbracciare affettuosamente cose, persone e situazioni, con le quali formiamo una fitta rete di interazioni che sono altrettante manifestazioni dell'unica Realtà sostanziale: l'Essere non manifestato, anteriore e superiore a tutte le forme di manifestazione.

Infine, abbiamo individuato la caratteristica fondamentale di ogni autentica iniziazione, ossia di ogni percorso verso l'illuminazione: quella di corrispondere a un viaggio di andata e ritorno della nostra anima verso il piano dell'Essere non manifestato. La sola andata, infatti, corrisponde bensì al distacco dall'attaccamento alle cose e alle passioni  terrene, ma presenta il grave pericolo di un altro genere di attaccamento: quello nei confronti del distacco medesimo. Potrebbe, infatti, generarsi una sorta di attaccamento alla rovescia, tale da creare una nuova forma di dipendenza e, in ultima analisi, di schiavitù: quella dello «splendido isolamento» del mistico puro. Il vero iniziato, pertanto, conosce anche la via per ritornare sul piano della vita ordinaria, ma portando con sé il tesoro prezioso di quanto ha appreso nel suo viaggio verso l'illuminazione.

Ora desideriamo soffermare la nostra attenzione su un altro concetto, analogo e parallelo a quello di salita e discesa verso il piano della superiore consapevolezza: ossia sul concetto di morte e rinascita.

Aristotele, in un suo aureo passo, afferma che «non è baloccandosi che si impara: l'apprendere è unito a sofferenza». E questa massima, se è vera nell'ordine della sapienza ordinaria, è - a maggior ragione - vera, quando si passa alla sfera del sapere iniziatico.

Non è possibile né pensabile alcuna illuminazione, senza una componente di sofferenza: questo è il concetto fondamentale, che suona così ostico agli orecchi della società moderna, edonista per eccellenza. In genere, anche gli studiosi di iniziazione tendono a sottolineare il carattere negativo di tale concetto, affermando che esso esprime una verità dura, ma necessaria.

Più giusto sarebbe, secondo noi, sottolineare invece il suo carattere ambivalente: ambivalente, si badi, e non già  indifferente; ossia suscettibile di sviluppo in due diverse direzioni. Se lo sviluppiamo in senso negativo, abbiamo l'idea di un apprendimento iniziatico irto di spine e di difficoltà, nonostante le quali è possibile, alfine, trionfare delle limitazioni del manifestato, e accedere, con l'illuminazione interiore, al piano del non manifestato, ossia dell'Essere puro, dell'Essere in sé. Ma se lo sviluppiamo in senso positivo, arriviamo a comprendere che la sofferenza è un mezzo non solo necessario, ma altresì fecondo e, perciò, anche utile in se stesso, per liberarci dal velo di Maya delle false apparenze e per avere accesso al piano dell'Assoluto, ove le cose ci si mostrano nella loro vera natura e sotto la loro vera luce: una luce così sfolgorante, che solo per qualche breve istante possiamo, forse, sostenerla.

Già i nostri nonni sapevano il grande segreto che vivere è un po' morire, e che solo morendo si può rinascere ed aprire gli occhi su un nuovo livello di consapevolezza. Lo sapevano istintivamente, senza avere studiato e, a maggior ragione, senza avere studiato le tecniche dell'estasi e le finalità del misticismo: era la vita, in tutta la sua rude semplicità, che lo aveva insegnato loro, nella palestra del lavoro e degli affetti quotidiani.

Nessuna persona diventa migliore, se non ha sofferto: questo è il grande segreto. Il quale, però, si accompagna ad un mistero ancora più inquietante: non tutti coloro che soffrono diventano migliori; ve ne sono molti - forse, la maggioranza - che non imparano niente dal proprio soffrire; e, meno ancora, dal soffrire che infliggono ad altri. E ve ne sono alcuni che la sofferenza rende ancora peggiori: più insensibili, più cinici, più rancorosi e vendicativi.

Dunque, la sofferenza è condizione necessaria, ma non sufficiente, per guidare l'essere umano a una più profonda comprensione del vivere e a una più larga e generosa partecipazione alla realtà nella quale è stato chiamato.

Ora, se questo è vero sul piano della consapevolezza ordinaria - e chi ha fatto l'esperienza della sofferenza, fisica e soprattutto morale, ne ha avuto per lo meno una rapida intuizione -, a maggior ragione è vero sul piano della consapevolezza iniziatica, intendendo quest'ultima espressione nel suo significato più ampio e generale: non è indispensabile, infatti, una cerimonia di iniziazione fatta di riti e di parole segrete, per essere degli iniziati nel senso profondo della parola.

 

Ma che cosa vuol dire, esattamente, morire e rinascere?

L'esperienza della morte interiore è quella che si fa allorché si viene investiti da una sofferenza così grande, che tutte le nostre facoltà ordinarie ne vengono investite e travolte, come se le spazzasse un vento di bufera. Vuol dire vedersi crollare intorno ogni certezza, ogni sicurezza, ogni punto fermo; vuol dire non sentirsi più alcun terreno solido sotto i piedi; vuol dire fare l'esperienza dell'assoluta indigenza, dell'assoluta impotenza, dell'assoluto annientamento.

E c'è almeno un momento, nella vita di ogni essere umano, in cui tale esperienza si presenta: se non altro, quello della propria morte.

Abbiamo affermato, d'altra parte, che una esperienza del genere non porta con sé, necessariamente, il germe della rinascita; che non sempre il dolore ci purifica e ci illumina; ma che, talvolta, ci sprofonda in una nera notte sconsolata, dove smarriamo per sempre la parte migliore e più preziosa della nostra stessa umanità, trasformandoci in relitti straziati da un'amarezza senza fine: poveri esseri rattrappiti dal dolore e incattiviti dalla disperazione.

In linea di massima, crediamo si possa dire che è cosa rarissima l'esperienza un essere umano il quale, non avendo mai fatto l'esperienza, e neppure sentito l'intima aspirazione ad elevarsi verso un piano più alto di consapevolezza e di grazia - intesa, quest'ultima, come disponibilità ad accogliere una forza benefica, di origine non umana, che ci soccorre nei momenti più difficili del nostro cammino - trovi accesso all'illuminazione per mezzo della sofferenza.

Perché ciò avvenga, di norma, è necessario che vi sia stato un cammino spirituale, o almeno che vi sia stata la vaga, ma sincera nostalgia di intraprendere un cammino spirituale, dal piano del contingente e del relativo verso il piano dell'assoluto e del necessario. Pensare diversamente, significa ammettere che un soldato possa imparare a combattere nel bel mezzo della battaglia, senza aver mai visto prima un'arma in tutta la sua vita: una cosa che può, forse, accadere una volta su un milione; ma la cui assoluta eccezionalità conferma, appunto, la regola. E la regola è che, per sperare, non diremo di vincere, ma almeno di sopravvivere, il soldato deve affrontare la battaglia con un minimo di conoscenza dell'arte militare.

Fuor di metafora, la sofferenza - quella vera, quella che ci fruga sino in fondo all'anima; non le delusioni e gli insuccessi passeggeri, che noi così spesso siamo portati a ingigantire per poterci autocommiserare senza ritegno - richiede, perché possa tradursi in un'esperienza di illuminazione, di catarsi e di rinascita, un intenso lavoro preparatorio, una certa dimestichezza con il sacrificio e la rinuncia; e, soprattutto, una certa disponibilità a mettersi in gioco e a pagare di persona il prezzo di ogni effettivo avanzamento.

Abbiamo specificato effettivo avanzamento perché, molto spesso, noi scambiamo i nostri successi più effimeri ed esteriori per un reale avanzamento (sociale, affettivo, economico); mentre si tratta di un avanzamento solo apparente, che può forse ingannare gli altri e, talvolta, il nostro stesso io cosciente, ma non inganna gli strati più profondi della nostra anima.

Ribadiamo il concetto: se vogliamo che la sofferenza non diventi per noi né una imboscata tesa a tradimento, né una prova dolorosamente inutile, è necessario che ci prepariamo per tempo, cioè fin da giovani. E questa è, appunto, la regola numero uno dell'aspirante alla vera iniziazione: capire che la vita umana (potremmo dire, parafrasando Platone) non è altro che una lucida e consapevole preparazione alla morte.

Vi sono numerose persone spiritualmente morte, i cui cadaveri ingombrano le strade del mondo. In apparenza sono perfettamente vive, e non sempre mostrano evidenti, al primo sguardo, le ferite mortali dalle quali non sono più guarite; non sempre la depressione è scolpita sui loro visi angustiati e raggelati. Accade che delle persone spiritualmente morte sappiano celare così bene il proprio spaventoso segreto, perfino a se stesse, da simulare abilmente, dietro la maschera di un frenetico attivismo e di una esuberanza del tutto artificiale, la loro vera condizione.

Invece colui che, attraverso la morte interiore, ha saputo trovare l'occasione della propria rinascita, è, sì, un vittorioso e un trasfigurato; ma non bisogna pensare che la sua vittoria ci si imponga con ostentazione o che la sua luce traluca evidente anche ad uno sguardo distratto. Certo, il rinato è un essere di luce (almeno parzialmente, perché l'illuminazione non è mai un possesso definitivo, ma sempre faticosa e incessante riconquista); ma la sua luce non è sfavillante come quella delle vetrine o delle insegne pubblicitarie. È una luce dolce e soffusa, che talvolta si può percepire solo quando le si è abbastanza vicini.

Così, il vero iniziato non fa nulla per mettersi in mostra; non proclama ai quattro venti la sua verità; non si atteggia a salvatore del mondo. Nessuno meglio di lui ha compreso tutta la penosa fragilità della natura umana, tutta la vacuità delle umane ambizioni e tutta la stoltezza di ogni forma di orgoglio e presunzione.

Egli è un mite, un discreto, un appartato (ma non un insocievole), anche quando si trova nel bel mezzo del chiasso e della folla. Per riconoscerlo, è necessario possedere, se non qualcosa della sua luce, almeno la consapevolezza del proprio stato di miseria e la segreta nostalgia di elevarsi a un più autentico piano di esistenza.

Allora e solo allora, ecco, potremo riconoscerlo: uomo tra gli uomini, senza onori e senza pompe, silenzioso operatore di pace e di bene.

Scopriremo allora che egli fa, in apparenza, le stesse cose che fa la maggior parte di noi. Lavora, fatica, si occupa della sua famiglia; non è un superuomo nel senso volgare del termine; non compie gesta eccezionali, a meno che le circostanze non siano anch'esse eccezionali. O meglio, la sua eccezionalità risiede proprio nella semplicità e nella benevolenza con cui fa le cose di ogni giorno, libero dalle smanie del falso ego: l'attaccamento, il desiderio, la paura, l'invidia, l'ambizione, la volontà di ferire i propri nemici.

Esistono persone del genere; e, forse, sono più numerose di quanto non si creda, ovviamente a diversi gradi di consapevolezza, purezza e perfezione; concetti - peraltro - sempre relativi, anche nel suo caso. Solo che non siamo abituati a riconoscerle, perché il nostro sguardo cerca istintivamente i segni esteriori della bellezza, della  ricchezza, della distinzione.

Né si deve credere che l'iniziato, per il fatto di essere un trasfigurato, sia anche, sempre e comunque, un pacificato. Forse lo è, o forse no; anche questo, del resto, è un concetto relativo. Certo egli sa trasmettere agli altri un senso di pace: quanto a se stesso, è possibile che, nelle profondità del suo intimo, stia ancora sostenendo delle battaglie durissime, le quali potrebbero anche non avere mai fine.

Non importa.

L'iniziato sa che la vita, in senso spirituale, è una lotta continua per far emergere la parte migliore di sé stessi; è un travaglio; è - come diceva, appunto, Aristotele - una sofferenza, senza la quale non si impara né si cresce veramente.