A partire dagli anni novanta si è diffuso il termine federalismo fiscale, per indicare il progressivo ampliamento dell’autonomia finanziaria delle regioni attuato con le leggi di riforma delle autonomie locali (142/1990 e 241/1990), e perfino il termine federalismo amministrativo per identificare il decentramento attuato dalle leggi Bassanini (59/1997, 127/1997, 191/1998). Ancora oggi si plaude ai vari tentativi di completare il processo di riforma iniziato in quegli anni evocando il federalismo, non perché gli italiani siano diventati tutti federalisti convinti, ma perché, inserendolo nel programma di una coalizione elettorale, si aggregano partiti come la Lega Nord o qualche suo surrogato, come Alleanza Lombarda, che fu determinante per la vittoria di Romano Prodi. Infatti, senza un partito etnico nordista - che converta in federalismo le istanze secessioniste dei popoli padani - né la destra, né la sinistra, riuscirebbero a governare. Cominciamo a dire che, sul piano giuridico, non è corretto chiamare federalismo la semplice devoluzione di competenze dallo Stato agli enti pubblici territoriali, giacché tale processo non ha nulla di federalista. La normazione regionale è stata istituita, e successivamente ampliata, sottraendo talune materie alla legislazione statale ed attribuendole alle regioni, secondo un procedimento inverso rispetto a quanto avviene nella formazione di uno Stato federale. Ne è risultato un sistema di autonomie variamente definito in dottrina - regionalismo avanzato, a due velocità, a geometria variabile, a velocità variabile - qualificabile federalismo solo e nella misura in cui si accetti la sostanziale inconsistenza della distinzione tra federalismo e regionalismo, ignorando l’essenza del federalismo come processo e struttura. L’idea federale risponde al bisogno dei popoli di unirsi per perseguire fini comuni, restando tuttavia separati per conservare le rispettive peculiarità. Si basa sul principio che le relazioni politiche e sociali vengono costituite nel modo migliore per mezzo del patto, inteso come atto di nascita di una comunità a base complessa, invece che come egemonia imposta da una parte a detrimento delle altre mediante conquista o involuzione oligarchica. Parte dal presupposto che gli esseri umani sono capaci di compiere scelte costituzionali e s’identifica, non in particolari istituzioni volute dall’alto, ma nella istituzionalizzazione di particolari relazioni che procedono dal basso. Le parti federate formano l’unità federale, e non viceversa. I poteri locali devolvono competenze al potere centrale, e non viceversa. L’idea federale esprime un valore, ancor prima che un assetto istituzionale. Vuol dire prediligere relazioni umane basate sulla cooperazione negoziale e la condivisione di obiettivi, nel rispetto dell’integrità delle parti. Essa risponde al bisogno dei popoli di unirsi per perseguire fini comuni, restando tuttavia separati per conservare le rispettive peculiarità. Il federalismo è l’ideologia politica ispirata all’idea federale. Nel diritto costituzionale identifica un modello di divisione territoriale del potere politico basato sulla ripartizione di competenze tra un governo generale - riferito allo Stato federale nella sua unità - ed un certo numero di governi costitutivi - riferiti agli enti pubblici che lo compongono, e che sono definiti anch’essi Stati, esattamente Stati federati, o in altro modo (es. Länder, Cantoni). Il federalismo, come struttura istituzionale, ha due fondamentali caratteri distintivi. In primo luogo, lo Stato federale è posto, almeno in linea di principio, su un piano di equiordinazione rispetto agli Stati federati, nel senso che rifugge generalmente da metodi d’imposizione nei loro confronti preferendo forme collaborative e d’intesa. In secondo luogo, ogni costituzione federale stabilisce una precisa ripartizione delle competenze tra Stato federale e Stati federati, nel senso che esistono materie che rientrano esclusivamente nella sfera di attribuzioni dei governi costitutivi e materie date, in forma esplicita o residuale, alla competenza del governo generale. L’equiordinazione tra Stato federale e Stati federati distinguerebbe il federalismo dal modello di Stato unitario decentrato, in cui l’entità statuale è sovraordinata rispetto agli enti pubblici minori. L’esclusività delle competenze dei governi costitutivi, nonché il carattere talvolta residuale delle competenze del governo generale, distinguerebbe il federalismo dallo Stato regionale, in cui il potere degli enti pubblici territoriali ha quantitativamente minore rilevanza e va sempre qualificato come autonomia attribuita dallo Stato agli enti locali. Le regioni di uno Stato federale non sono enti locali di un governo centrale, ma enti sovrani che trasferiscono alcune loro attribuzioni ad un ente che agisce nel loro comune interesse e che da esse trae legittimità. Esistono tuttavia alcuni giuristi che la pensano diversamente. Potremmo chiamarli negazionisti. Infatti essi negano autonomia concettuale al federalismo ed affermano l’inconsistenza della distinzione tra questa formula ed il regionalismo. Secondo costoro, non avrebbe alcun senso parlare di federalismo come tipo di Stato distinto e separato da altri tipi di Stato, che sono comunque strutturati in un ente statuale ed un certo numero di enti locali. Sarebbe più corretto parlare in ogni caso di autonomia distinguendo tra forme più ampie o più ristrette di decentramento, ed identificando le materie che rientrano nella competenza - piena, esclusiva o concorrente - degli enti locali. Per il pensiero negazionista, la distinzione tra Stato federale e Stato regionale, essendo solo nominalistica, non avrebbe alcun valore scientifico. Sarebbe accettabile solo la distinzione tra Stato unitario e Stato che garantisce costituzionalmente le autonomie territoriali. E sembrerebbe più corretto parlare sempre - cioè per qualsiasi Stato, comunque definito - di ripartizione collaborativa del potere tra ente sovrano ed enti autonomi, i quali possono esercitare un insieme più o meno ampio di competenze. Così, per una parte della dottrina, il federalismo cesserebbe di esistere come ipotesi istituzionale alternativa al regionalismo. La devoluzione di competenze - anche laddove viene presentata come transizione verso uno Stato federale, che concettualmente non esiste - porterebbe al rafforzamento dello Stato regionale e non a qualcosa di diverso. L’inconsistenza della differenza tra federalismo e regionalismo sarebbe confermata dal fatto che gli Stati federati di uno Stato federale possono avere meno competenze delle regioni di uno Stato regionale. E’ il caso dei Länder austriaci rispetto alle comunidades autonomas spagnole. Il paradosso dell’attuale confronto politico è che, chiamando federalismo qualcosa che è il suo contrario, cioè la devoluzione fiscale dallo Stato agli enti locali, si aderisce implicitamente al pensiero negazionista, che considera federalismo e regionalismo semplici sfumature della stessa idea di Stato. Questa posizione accomuna tutti i partiti, dai liberaldemocratici alle attuali espressioni larvali di culture centraliste - neofascisti e veterocomunisti - compreso la Lega Nord, proprio il partito che ha avuto il merito storico di aver portato il federalismo al centro del dibattito sulle riforme istituzionali. Essi riescono ad essere tutti federalisti proprio perché nessuno è veramente federalista. Qualcuno non lo è mai stato, qualcuno non lo è più. In questo scenario si colloca il plauso bipartisan indirizzato al ddl sul federalismo fiscale, recentemente approvato dal Consiglio dei Ministri e destinato a trovare attuazione, dopo il suo specifico iter parlamentare, in una serie di decreti attuativi che impegneranno il governo almeno per due anni. È un disegno di legge ordinaria e non costituzionale, come ha giustamente precisato il ministro Tremonti, che contiene una delega per dare attuazione all’art.119 Cost. come modificato nel 2001 dalla riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione. Questa riforma non ha rivoluzionato l’assetto costituzionale in senso federalista, ma ha rafforzato il modello regionalista italiano definito nel 1948 devolvendo alcune competenze fiscali dal governo centrale agli enti locali. La tanto decantata autonomia di entrata e di spesa, di cui parla il ddl governativo, non s’identifica certo con la compartecipazione regionale all’IVA, né con la compartecipazione comunale all’IRPEF. I cosiddetti tributi propri di regioni e province restano al momento qualcosa di nebuloso, mentre quelli dei comuni esprimono già una contraddizione di fondo. Qualcuno infatti dovrebbe spiegarci come fa un tributo comunale ad essere proprio e al tempo stesso derivato da tributi già erariali. Rimane il timore che la maggiore autonomia impositiva degli enti locali produca un aumento della pressione fiscale. Ci riferiamo in particolare ai tributi di scopo, che dovrebbero essere destinati a turismo e mobilità urbana, nonché all’apertura del ministro Calderoli alla richiesta delle Province di partecipare all’imposizione fiscale sugli autoveicoli. Ma la contraddizione più evidente emerge nell’allocazione delle risorse. In teoria si parla di superare il sistema di finanza locale improntato a meccanismi di trasferimento. In pratica vengono stanziati 1,31 miliardi di euro che consistono proprio in trasferimenti, a vario titolo, dal governo centrale agli enti locali: 780 milioni per il mancato gettito dell’Ici, 434 milioni per evitare il ticket sanitario, il resto come regalo a Roma ladrona ed ai terroni di Catania. Sarebbe questo il federalismo gentile sbandierato da Bossi all’ultima festa dei popoli padani? L’unica gentilezza, che emerge dal dibattito in corso, è la cortese attuazione, da parte del centrodestra, di una pessima riforma fatta dal centrosinistra. Il federalismo è un’altra cosa, e i leghisti, quelli veri, lo sanno bene.
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