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Un gioco vecchio

di Gianfranco La Grassa - 18/10/2008

 

C’è voluto Berlusconi per ricordare che in Borsa ci si va anche per speculare e che, dati i prezzi depressi di tanti titoli, ci sono pericoli di Opa ostili (scalate azionarie) da parte soprattutto di alcuni fondi sovrani (affermazione, questa, già fatta il giorno prima dal presidente della Consob).

Quando ero studente di Economia e Commercio (mezzo secolo fa), non nel libri di testo ma nelle lezioni dei “baroni”, ci venivano spiegati alcuni giochetti vecchi quanto il capitalismo, pur se ovviamente mutano le forme particolari del gioco e gli “oggetti” su cui quest’ultimo si esercita. A volte però è soprattutto il nome, messo in inglese, che muta più che non l’oggetto cui il termine si applica. Ad esempio i futures o gli swap sono solo “evoluzioni” delle ben più vecchie operazioni a termine; per chi non è un tecnico e non deve operare in Borsa, il concetto non è gran che differente. Vediamo invece, nei suoi termini generalissimi, un possibile giochetto (ripeto antichissimo).

Partiamo da una situazione di profonda depressione e calo dei prezzi dei titoli in Borsa. Le “autorità” (che siano quelle internazionali, le Banche centrali, i Governi, poco importa; in genere si muovono e agitano tutti) si riuniscono e varano piani di riassestamento: che sia il piano Paulson, o la decisione di non far fallire “nemmeno una banca”, o l’entrata dello Stato nel capitale delle banche private, o la semplice immissione di grandi masse di liquidità, ecc. A questo punto, i possessori di grossi capitali procedono all’acquisto di notevoli quantità di titoli ai prezzi depressi, i quali però, a questo punto, cominciano a risalire. Allora, i milioni di piccoli risparmiatori (le “pecore da tosare”) si rianimano, credono che effettivamente le “autorità” abbiano finalmente imboccato la strada giusta, e si buttano perciò ad acquistare dei titoli, consolidando così un forte rialzo dei prezzi. Immediatamente, i grandi capitalisti vendono ciò che avevano acquistato ricavando favolosi guadagni; evidentemente, però, i prezzi dei titoli scendono. Le suddette “pecore” si spaventano e iniziano anch’esse a vendere; e si torna a capofitto in basso. Visto l’insuccesso delle precedenti misure, le “autorità” si riuniscono di nuovo, emettono proclami roboanti, calcano ancor di più la mano sulle loro improbabili misure di riassestamento. E il gioco ricomincia (è già ricominciato mentre scrivo).

Ripeto che queste cosucce le sapevo quand’ero studente. C’è da restare allibiti a vedere a quale livello di moralità sono arrivati i tecnici e i giornalisti finanziari che tengono bordone a simili manovre; e mai le spiegano, anzi si dedicano a spargere “fiducia” non appena le “autorità” sparano le loro “rodomontate”. Quando il solito Berlusconi che, tutto sommato, sembra a questo punto un po’ meno mentitore di altri, avanza l’idea di sospendere per qualche tempo il mercato di borsa – decisione che gli Usa presero nel 1914 per oltre cinque mesi mettendo in mora i tentativi della Borsa di Londra di creare difficoltà a quella statunitense in situazione di crisi (e si trattava di due paesi alleati nella I guerra mondiale!) – i vari tecnici e giornalisti finanziari (di destra, sostenitori del Governo) si scatenano accusandolo di dichiarazioni irresponsabili. Invece erano del tutto responsabili; e tanto più lo si capisce adesso avendo saputo, anche dalla Consob, della possibilità di scalate ostili da parte di capitali stranieri che potrebbero impossessarsi (o quanto meno ridurre l’autonomia) di nostre imprese, magari strategiche.

Ancora una volta si dimostra che i puri ideologi (e finti scienziati o scadenti tecnici) liberisti – come già quelli ottocenteschi, contro cui polemizzò (e per fortuna con successo) List, allora proni all’imperialismo inglese – stanno giocando il tutto per tutto pur di far restare l’Italia un paese servo degli Usa; questa è la funzione del liberismo, appoggiato da quei gruppi di subdominanti, che si pongono quale puro stuoino su cui i predominanti (gli Usa) possano pulirsi i piedi quando e quanto vogliono.    

 

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Che la speculazione non possa fare tutto da sola, ma si innesti su dati oggettivi – in tal caso, sulle brutte notizie che arrivano dall’economia reale – va da sé. Questo però conferma che un’ulteriore menzogna raccontata da “tecnici ed esperti” è quella secondo cui l’effettiva causa della crisi reale è quella finanziaria. E’ semmai più vero l’inverso pur se logicamente, una volta innescatasi la crisi, si instaura un circolo vizioso in cui causa ed effetto si scambiano reciprocamente di posto. Inoltre, la crisi finanziaria è molto più appariscente, i suoi “oggetti” hanno rapidi sbalzi di prezzi, ecc. Infine, va tenuto presente che, sostanzialmente, la crisi economica nel suo complesso (finanziaria e reale) ha cause ben più profonde.

 Sostenere, come ho letto in questi giorni, sia che la finanza è responsabile dell’“ingrippamento” dei consumi a loro volta responsabili di quello della produzione (anche su questo ci sarà molto da obiettare in un prossimo intervento), sia che l’attuale fallimento dei vari piani escogitati dalle “autorità” è dovuto non alla speculazione ma alle cattive notizie provenienti dai settori economici reali, è solo contraddirsi a seconda del bisogno di raccontare questa o quella menzogna in base alle necessità del momento dei “tecnici ed esperti” pagati per ingannare gli ignari.

Questi “birichini” – con il loro latinorum (oggi l’inglese) e con ragionamenti intricati di tecnica finanziaria che farebbero invidia al ben noto “Azzeccagarbugli” – criticano chiunque avanzi l’ipotesi di Opa ostili; l’importante, essi sostengono in quanto autentiche “quinte colonne” antinazionali, è che lo Stato non si interessi minimamente di ciò che avviene nei mercati. Se la vedano gli azionisti delle società – ad es. quelle italiane – che debbono dimostrare di essere capaci di difendersi da soli. La scusa presa oggi – in un periodo in cui il management (certo anche per sue precipue colpe) è sotto attacco da parte della proprietà (azionisti dei gruppi di controllo) – è che non si devono blindare le grandi imprese difendendo così l’inefficienza dei manager. Intanto, uno dei titoli che si è trovato sotto attacco è stato quello dell’Eni; e non mi consta che i suoi vertici siano inefficienti (semmai ci sono “elementi” di boicottaggio antinazionale che si sono fatti ben vivi, costringendo alla reazione perfino la Gazprom, partner importante della nostra azienda). Inoltre, sarà semmai da affrontare direttamente il problema di una direzione manageriale di scarsa efficacia; non si risolve il problema favorendo l’acquisizione dell’azienda da parte di una straniera, che piazzerà al comando suoi uomini di fiducia demandati a fare i suoi specifici interessi. Il vero fatto è che abbiamo settori di ideologi e tecnici liberisti – di cui il giornalaccio Libero, con il suo inserto finanziario, è uno dei punti di raccolta (per questo va seguito) – al completo servizio di interessi stranieri, diciamo pure americani.

Non ci si faccia tuttavia nemmeno ingannare da chi fa l’ipotesi di scalate da parte di Fondi sovrani arabi, perché questi ultimi sono, a volte per vie assai traverse e con qualche subordinata cointeressenza, la longa manus del paese che sta oggi difendendo con i denti la sua traballante supremazia globale. Parlare di arabi è solo mettere in guardia dal pericolo di ulteriore perdita di autonomia dell’economia nazionale, senza d’altra parte avere il coraggio di proferire un solo motto contro coloro – gli Usa – di cui non si contesta comunque il predominio (mi riferisco al nostro Premier, spero sia evidente).

Spiegheremo in altra occasione perché, se i liberisti sono questi mentitori antinazionali di cui sto parlando, non staremmo meglio seguendo gli statalisti “keynesiani”, che partono dall’aumento della domanda (in specie dei consumi) come misura principe  per “salvarci” dalla crisi reale. Qui mi limiterò a pochi punti sostanziali.

 

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Tutte le crisi iniziano dalla parte della finanza, che è quella più volatile e sottoposta a più ampie (e soprattutto rapidissime) oscillazioni, prendendo così il davanti della scena. E’ ovvio che il disordine nel circuito finanziario scombina il sistema economico complessivo fondato sulla generalità degli scambi mercantili. La crisi di tale circuito provoca carenza di liquidità con tendenza delle banche a restringere il credito alle imprese produttrici (questo spiega tutte le immissioni massicce di liquidità effettuate dalle “autorità” negli ultimi tempi). Le suddette imprese dei settori detti reali ritardano i pagamenti ai loro fornitori mentre fanno tutto il possibile per essere pagate presto dai clienti; il che mette in sofferenza chi è più debole e con minori risorse di “scorta”. In definitiva, si avvita anche la crisi reale.

Solo film e romanzi vari hanno diffuso quei luoghi comuni per cui si crede che, dopo il giovedì nero (24 ottobre) ma soprattutto dopo il crollo del 29 ottobre (martedì nero) 1929, corpi di finanzieri cadevano come pere marce dai grattacieli. In realtà, lo sprofondamento massimo dell’economia complessiva (produttiva più ancora che finanziaria) si ebbe a fine 1931 e inizio ’32. Sembra che la finanza rappresenti la causa  cui segue il blocco dei settori produttivi; questa è la sequenza che appare, quella che balza subito agli occhi. Non vi è però crisi se non quando il sistema perde un suo centro regolatore, quello che “marxisti” come Kautsky e Hilferding pensavano si formasse in seguito ai processi di quella centralizzazione monopolistica dei capitali, che fu tesi formulata da Marx con precisi connotati sociali (riproduzione del rapporto tra proprietà ridotta a gruppo di rentier, da una parte, e lavoratore collettivo cooperativo, dall’altra), mentre i due epigoni di cui sopra la interpretavano in senso puramente economicistico.

Lenin, pur senza accorgersi di questa “coloritura” economicistica che deformava la concezione marxiana, sostenne che “il monopolio è concorrenza portata ad un livello più alto”. Ed aveva perfettamente ragione, senza tuttavia mettere in luce la causa decisiva di tale acutizzazione. Intendiamoci, egli si rese conto che l’elemento effettivamente in grado di aprire la strada alla rivoluzione nel cosiddetto “anello debole” era lo scontro interdominanti sul piano mondiale, e non certo il semplice conflitto capitale/lavoro (fra l’altro erroneamente identificato con la lotta di classe), da lui sempre considerato di tipologia prettamente sindacale. Tuttavia, bisogna trarne la conclusione ultima: l’aperto e sempre più duro confronto tra formazioni particolari (quelle divenute grandi potenze), che connota una fase policentrica, è la vera ed essenziale causa delle crisi economiche realmente gravi e squassanti.

Ritorniamo quindi alla crisi del 1929. Essa raggiunse il suo apice, quello della crisi produttiva e della disoccupazione di massa, nel 1932. Subito dopo ci fu l’elezione di Roosevelt, il New Deal, le politiche della spesa pubblica, ecc. Per decenni, dopo il 1945, ci hanno stonato la testa con il grande successo delle politiche keynesiane – travestite spesso da Stato sociale – che ormai, si sosteneva con improntitudine, avevano allontanato ogni possibilità di crisi capitalistica. Vi era qualcosa che non “quadrava”, come dimostrava lo stop and go di certe politiche seguite dall’Inghilterra, ma comunque il nuovo dogma non fu mai contraddetto, semmai “affinato”. Solo ultimamente ci si è “ricordati” che dopo il 1933 – considerato quale data di chiusura della “grande depressione” – il sistema capitalistico non ebbe alcuna vera impennata; andò avanti con brevi riprese e nuove ricadute fino al ’39, anno in cui il Pil americano non aveva ancora superato, almeno a quanto ne so, quello del ’29. In ogni caso, non vi è dubbio che fu la seconda guerra mondiale, regolando definitivamente i conti tra potenze in conflitto da molti decenni (dalla fine del monocentrismo inglese), a risolvere veramente la crisi riassegnando un “perno” regolatore (gli Usa) all’intero campo capitalistico. In effetti, un’altra menzogna storica da sfatare è che le “potenze alleate” fossero tutte vincitrici. Nient’affatto: dalla seconda guerra mondiale uscirono solo due vincitori: Usa e Urss. Gli sconfitti furono Germania e Giappone, Inghilterra e Francia (lasciando da parte il nostro paese che non è mai stato una potenza).

Il mondo bipolare – detto impropriamente della “guerra fredda” – fu un sistema in definitiva stabile nei due campi, con continue turbolenze nel cosiddetto terzo mondo. Il crollo del socialismo reale sembrò lasciare, per 10-12 anni, campo libero – e funzione centrale, “potenzialmente” regolatrice – agli Usa. Fiorirono in tale contingenza le demenziali tesi sulla fine degli Stati nazionali; situazione che esprimeva solo la temporanea ipersupremazia statunitense, durata in definitiva veramente poco. Tralascio gli errori di strategia internazionale della superpotenza – primo fra tutti l’enfasi sul “terrorismo” come nemico globale, una sciocchezza che gli Usa pagheranno anche in futuro – per arrivare alla adesso asserita, da un numero via via crescente di osservatori e studiosi, “rinascita delle nazioni”. La strada è ancora lunga, ma ci si riavvia con passo sempre più sicuro al policentrismo; fra 20-30 anni avremo di nuovo un bel gruppetto di potenze in conflitto per nuovi regolamenti di conti, sulle cui concrete forme di manifestazione non mi permetto di fare profezie.

 

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Nelle varie ipotesi fatte sulle cause della crisi, i marxisti in genere non si sono fatti ingannare dai bagliori di quella finanziaria. Pur se essa precede, nelle sue manifestazioni più eclatanti, quella reale, sono le difficoltà che cominciano a presentarsi in quest’ultima – difficoltà spesso occultate dall’apparenza di buoni ritmi di crescita, a volte coadiuvati da qualche calcolo statistico “addomesticato” – a provocare reazioni in un settore che, ad un certo punto, prende uno sviluppo ipertrofico per conto suo come se veramente i soldi possano permanentemente fare soldi (la famosa “mentalità di Pinocchio”). Non entrerò certo in una elencazione delle tesi marxiste sulle cause della crisi. Dico solo che la più “realistica” sembra quella, accettata da Lenin, relativa all’anarchia dei mercati.

Come sopra rilevato, alcuni marxisti – quelli della centralizzazione monopolistica dei capitali quale tendenza alla formazione di un unico centro organizzatore – non potevano accettare una tesi del genere; Lenin invece lo fece poiché riteneva appunto il monopolio del tutto compatibile con l’acutizzarsi della concorrenza, anzi come un ulteriore impulso alla stessa, non più svolgentesi tra imprese di modeste dimensioni, bensì tra giganti economici che avrebbero infine coinvolto nel conflitto i rispettivi Stati. In realtà – pur se come sempre cause ed effetti si concatenano fra loro in un circolo interattivo – è necessario afferrare con chiarezza che è il conflitto strategico, dunque politico, tra agenti capitalistici l’effettivo “motore” della crisi. Quest’ultima (finanziaria e reale, aspetti che anch’essi vanno a concatenarsi “in circolo”) non diventa mai grave fino a quando sussiste la fase tendenzialmente monocentrica. Tutte le profezie di crisi, sfornate a getto continuo dai marxisti – anche di origine keynesiana come Sweezy – nel secondo dopoguerra, sono sempre state deluse e smentite. Il mondo bipolare è stato un mondo “strano”: un campo detto “socialista”, che non lo era, ma comunque nemmeno era assimilabile al capitalismo tout court; un campo capitalistico con netta e regolatrice supremazia statunitense.

Gli economicisti – liberali, keynesiani, “marxisti” e quant’altro – si scatenarono in peana di glorificazione di un futuro secolo di armonico sviluppo quando avvenne il crollo del 1989 (seguito dalla dissoluzione dell’Urss due anni dopo). Veramente stolti. Dopo appena una dozzina d’anni di monocentrismo americano, le potenze già “socialiste”, finalmente liberatesi di quel pasticcio chiamato appunto socialismo, sono sbocciate come formazioni particolari potenzialmente antagoniste degli Usa. Soprattutto dopo il 2003 – anno forse decisivo per la svolta della Russia – si è notata una sempre più netta avanzata verso la situazione policentrica o multipolare. Non illudiamoci: tale avanzata non proseguirà come una autostrada; ci saranno ancora intralci (in specie per il non coordinamento di potenze come Russia, Cina, India, tutte sordamente competitrici le une rispetto alle altre), ma il cammino, quale trend di media durata (due-tre decenni come già sostenuto), è grosso modo segnato. Forse perfino l’Europa, se non pretenderà di essere proprio una Unità europea, potrà dare un contributo al “ritorno delle nazioni”.

La crisi attuale sarà già notevolmente grave; uso il futuro perché l’anno di reale inizio della stessa sarà il prossimo e non credo che essa durerà un solo anno. Per adesso assisteremo alle borse sulle montagne russe, in un crescendo di picchi e sprofondamenti, nel mentre sullo sfondo si comincerà sempre più a preoccuparsi dell’arrivo di quella reale, che è di fatto la vera crisi, la causa dei maggiori sprofondamenti con notevoli sofferenze per la gran massa della popolazione; e che, lo ripeto, è in definitiva la causa delle stesse turbolenze finanziarie, pur se queste ultime la anticipano sul piano dell’impatto di maggiore evidenza e spettacolarità empirica. Al fondo di tutto però, già lo si è rilevato, sta la netta tendenza al multipolarismo; di conseguenza, questa crisi, per quanto si risolverà infine come ogni crisi, non metterà affatto termine alle difficoltà, invece crescenti. Alla fine della presente crisi – non credo comunque nel 2009 come (si) illudono gli “esperti” – mi aspetto di sentir sostenere che ormai siamo in uscita dal tunnel, che si prospettano anni rosei di nuovo sviluppo, ecc. Tutte balle. Dalla crisi usciremo come si è usciti da quella del 1929, con brevi e modesti rialzi dei tassi di sviluppo e nuove depressioni. Diciamo che si “galleggerà”. Perché, in ogni caso, entreremo in un’epoca di conflitto che esigerà – in forme che deciderà “la Storia”, cioè il casuale configurarsi di una certa articolazione delle varie formazioni particolari nell’ambito di quella mondiale – il “regolamento di conti” e il nuovo formarsi di un certo equilibrio basato sulla ri-centralizzazione della supremazia a livello globale; con una o al massimo due potenze “vincitrici” (lo ribadisco: non avanzo profezie sui mezzi specifici utilizzati per prevalere).

Questa è semplice indicazione di un quadro generale; cercheremo di sforzarci per comprendere quali politiche sembrano più opportune in casi come questi. Per il momento, dico solo che mi sono venuti i brividi sentendo Berlusconi annunciare che si vuol aiutare l’industria automobilistica europea. Il rifiuto della UE di fronte alla richiesta di Marchionne di 40 miliardi di euro per quest’ultima mi era sembrato uno dei pochi momenti di lucidità di tali organismi comunitari così contestabili normalmente. Adesso, tale saggio rifiuto sembra rimesso in discussione.

Ulteriori brividi si avvertono nel sentire il presdelarep sostenere che il clima viene prima della finanza. Questo politically correct – vero patrimonio, del tutto negativo oltre che banale come tutti i luoghi comuni, della sinistra – è ormai una delle peggiori iatture che pesano sul nostro futuro. Da questo punto di vista, mille volte più realistico Berlusconi rispetto ai disastrosi “sinistri” (si leggano anche le dichiarazioni di Veltroni), ormai fuori della realtà di questi tempi burrascosi, e dunque molto pericolosi per le nostre sorti future. Torneremo presto sull’intera questione delle politiche in tempi di crisi. Oggi abbiamo solo sfrondato “alcuni rami” di discussione.