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…e la chiamano crisi

di Angelo Spaziano - 27/10/2008

 

 

 

Una volta un tale disse che è più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, piuttosto che per un ricco andare in paradiso. Andatelo a dire a tutti quei nostri connazionali che appena la settimana scorsa hanno fatto la fila per sbancare il superenalotto. O a quelli che si indebitano col gratta e vinci o che fanno l’alba davanti alle slot-machine. Anche quel gran pezzo di figliola di Marilyn Monroe una volta confessò candidamente che se è vero che il denaro non dà la felicità avrebbe preferito disperarsi in una Rolls Royce piuttosto che in un vagone della metropolitana. Ecco il più calzante esempio di aforismi “incompresi”, tipo “nel gioco l’importante è partecipare, non vincere”.

 

 

Fatto sta che proprio per l’esigenza di far quadrare i tanti desideri con la limitata quantità di beni a disposizione qualcuno tanto tempo fa ebbe la genialatà di creare una disciplina apposita: l’economia. Un universo che fino a ieri, quando la saggezza imperava, aveva dimestichezza solo con parametri fondati sul duro lavoro, sulla produzione di beni, su solide mura e collaudati macchinari. Oggigiorno, al contrario, con la telematica, la tecnologia, l’hardware e il software, la materia è diventata inafferrabile e impalpabile come un ectoplasma, e come un ectoplasma si sta tramutando dopo il suo proditorio assassinio operato per mano della finanza. Si tratta di un delitto i cui effetti nefasti si stanno materializzando fin troppo concretamente sotto i nostri occhi in questi giorni. E’ stata proprio questa smaterializzazione del settore e la sua trasformazione da coefficiente di produzione a moltiplicatore d’illusioni a ridurre nell’immaginario collettivo il concreto soggetto economico a mero simulacro finanziario.

 

 

Il fatto è che la tecnologia ha diabolicamente moltiplicato gli effetti perversi di una mentalità permeata di smodata avidità, unita alla concezione tutta anglosassone dell’esistenza concepita come una folle corsa verso l’autoaffermazione e l’arricchimento a tutti i costi. I nostri genitori, vaccinati dalla tragedia della guerra, hanno dovuto rimboccarsi le maniche e ricostruire daccapo questo paese, e tutti sappiamo quanti sacrifici è costato tutto ciò. Duro lavoro, poche o niente ferie, risparmio, sobrietà e frugalita. Anni di fatiche per comprarsi la casa d’abitazione poi vessata dalla tassa più iniqua che esistesse, l’ici; una macchina magari pagata a rate; abiti ritoccati stagione dopo stagione. Scarpe risuolate più volte. Vacanze dai nonni, se c’erano, sennò niente. La borsa era solo quella della spesa e le promesse di arricchimento facile hanno sempre trovato un argine nell’antica saggezza contadina dei nostri avi, da sempre diffidenti verso beni che non siano solide mura, terra da dissodare, alberi, braccia e voglia di lavorare. Altro che azioni, cedole, tagliandi e polizze. Tutta cartaccia verso la quale la diffidenza non si è mai sopita.

 

 

Dall’altra sponda dell’Atlantico la musica è sempre stata diversa. La casa? Ecco l’anticipo. La macchina? Ecco i soldi. La vacanza? Ecco il prestito. Tanto per pagare c’è sempre tempo. Le banche, generose, finanziavano doviziosamente gente che non aveva assolutamente la possibilità di ripianare il debito in quanto completamente all’asciutto del valsente necessario per permettersi una tale quantità di follie. Gli istituti di credito, insomma, in special modo le finanziarie, hanno avuto in America il ruolo che da noi era ricoperto dallo stato dirigista e paternalista. Sin qui poco male. Il fatto è che i “buffi” contratti da questi istituti, essendo ripianabili a lungo, se non lunghissimo termine, venivano “acquistati” in denaro sonante (cartolarizzazioni) da altri istituti, i quali a loro volta trasformavano col belletto questi debiti appena comprati in “prodotti” (subprime) ad altissimo rendimento da immettere sul mercato e da spacciare come l’ecstasy. Usura come tossicodipendenza di un organismo che, se tenuto a stecchetto, va in sindrome da astinenza da interessi e da denaro invece che da “buco”.

 

 

Come una droga altamente tossica, infatti, questi “fondi spazzatura” erano sì convenientissimi, in quanto le percentuali di guadagno per chi era così fesso da comprarseli arrivavano alle stelle, ma erano basati sul nulla. Si trattava soltanto di carta priva di alcun valore se non quello di promettere rendimenti altissimi su un ammontare che semplicemente non c’era, se non nelle tasche - e nelle buone intenzioni - di milioni di nullatenenti che avevano contratto prestiti vertiginosi pure per farsi il lifting.

 

 

Ora tutto questo castello d’imbrogli è collassato e le banche che incautamente hanno comprato quantità vertiginose di questa paccottiglia solo perché “firmata” Lehman Brothers o Freddie Mac o Fannie Mae, negando magari l’indispensabile ossigeno a qualche sana azienda a conduzione familiare, si trovano adesso col sedere per terra. E se la sono cercata, direte voi. Giusto. Ma solo fino a un certo punto. Il fatto è che le suddette banche, rimaste senza una lira, ora cercano disperatamente di rifarsi richiedendo indietro le somme incautamente prestate, ma la maggior parte delle volte tutto questo non è possibile. La bolla speculativa, una volta esplosa, ha afflosciato i prezzi di appartamenti e loft che al momento della contrattazione del mutuo venivano valutati il doppio o il triplo di quanto lo sono oggi.

 

 

Allora gli istituti tentano di rientrare in possesso di un po’ di liquidità riversando disperatamente sul mercato a prezzi stracciati azioni di istituti sani, che vengono coinvolti a loro volta nel disastro, e stringendo i cordoni della borsa del credito verso tutte quelle imprese che per comprare macchinari e affrontare la concorrenza si vedono sbattere la porta, pardon, lo sportello in faccia. E cade giù tutto. Insomma, aveva proprio ragione il buon vecchio Pound quando affermava che «con l’usura nessuno potrà mai avere una solida casa…». E pensare che per avere strenuamente sostenuto questo ideale il grande Ez si fece un dodicennio di manicomio criminale.

 

 

Naturalmente la situazione è più grave negli Stati Uniti, i quali, ora, per salvare i loro istituti di credito decotti, hanno acceso altri debiti con i cinesi, che acquistando miliardi di obbligazioni del debito Usa stanno diventando a loro volta i “cravattari” dello zio Sam, terrorizzati dal fatto che il crollo statunitense li priverebbe di un mercato enorme per i loro miserabili prodotti fabbricati con le lacrime e il sangue di un miliardo di schiavi. Ma anche molti istituti europei si trovano sull’orlo della bancarotta per la gestione troppo “disinvolta” del denaro dei risparmiatori. Il fatto è che molti di questi enti hanno un fatturato - e conseguentemente delle perdite - che ammonta o addirittura supera il pil di interi Stati sovrani. E’ proprio il caso della Deutsche Bank che si teme possa “vantare” un debito pari al pil della stessa Germania. E ciò potrebbe valere anche per l’Inghilterra, per l’Olanda, in panico per la debacle dell’Ing, quella del “conto arancio”, per la Svizzera, che sta boccheggiando per il tracollo di Ubs, e per la Spagna, la cui locomotiva edilizia s’è impantanata di brutto, lasciando sul campo un desolato paesaggio di cantieri paralizzati.

 

 

L’impresa di salvataggio di questi pachidermi della finanza, quindi, rischia di rivelarsi una fatica di Sisifo e i governi centrali paventano di trovarsi nella spiacevole situazione di versare invano oceani di denaro in una voragine incolmabile senza avere neppure la speranza di uscire dall’impasse. La congiuntura in Italia risulta meno compromessa che altrove in quanto dalle nostre parti la fiducia è sempre stata una merce rarissima, che le banche non hanno mai profuso a piene mani. Il fatto però è che non si conosce l’esatto ammontare di queste “sòle” detenuto all’interno dei caveau nazionali. Non si sa, in soldoni, quanti subprime i nostri manager si siano fatti sbolognare dai magliari stelle e strisce e questo rende la situazione comica nella sua tragicità. Si sta infatti assistendo al gioco delle parti degli istituti che non si fidano più l’uno dell’altro e dei manager che mentre affermano impettiti che tutto è sotto controllo contemporaneamente si prostrano davanti a un tipetto come Gheddafi e lo fanno entrare negli asset finanziari nazionali. Con il rischio che ciò comporta, sia in relazione alla poca affidabilità del personaggio sia in considerazione che con l’affievolirsi della fiducia in una domanda in espansione s’è afflosciato pure il prezzo delle materie prime, del petrolio in primis, il che potrebbe procurare non pochi problemi pure ai signori del greggio.

 

 

E’ la globalizzazione, gente. Globalizzazione dell’usura, globalizzazione del tracollo da usura. Si tratta del frutto avvelenato del pensiero unico del capitalismo senza freni e senza frontiere, come vogliono Ikea e Walmart e come vagheggiavano fino a poco tempo fa i maestrini dalla penna rossa, quelli a cui il denaro piace tantissimo ma trattano con sufficienza chi si dà da fare per procurarselo. E’ la fine del capitalismo? Beh, non dico che si debba applicare alla sostanza il famoso passo del Pater nostro «rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori…», né che, all’opposto si debba sotterrare Bentham per abbracciare in toto il pensiero antiutilitarista dei maori di Mauss. Si tratta solo della fine di questo tipo di capitalismo da rapina. Il denaro deve tornare ad essere la giusta ricompensa del lavoro svolto e non una fabbrica di illusioni da alimentare con altro denaro. Magari a discapito di chi fatica e suda per un pezzo di pane.

 

 

 

 

 

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