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Serge Latouche: finalmente questa crisi è scoppiata

di Claudio Marradi - 08/11/2008

 
 
«Le elezioni negli Stati Uniti? C'è una notizia buona e una cattiva. Anzi, le notizie buone sono due: la prima è che Bush non è più presidente, la seconda è che la Palin vicepresidente non lo sarà mai». E' il commento alla notizia del giorno di Serge Latouche, approdato in una sera di burrasca a Palazzo ducale di Genova per un incontro su come sopravvivere allo sviluppo al tempo della crisi globale. «La notizia cattiva - continua - è che da oggi non sarà più così divertente sentire barzellette sul presidente americano». Anche se una non resiste proprio a raccontarla. «Bush padre e figlio stanno passeggiando quando Bush senior dice «vedi figliolo, tu hai fatto lo stesso errore che io feci un giorno con tua madre: non tirarsi indietro in tempo…». Strappa così una risata alla folla infradiciata che ha sfidato la grandine per sentire questo docente di storia del pensiero economico all'università di Paris XI, che dalla fine degli anni Ottanta ha al suo attivo circa una ventina di titoli di critica all'economia occidentale, l'ultimo dei quali è Breve trattato sulla decrescita serena .

«E forse anche le piogge torrenziali di questi giorni, con la deregulation climatica indotta dalla devastazione ambientale del capitalismo, qualcosa hanno a che vedere» nota Latouche. Per il quale le buone notizie però non sono finite e che spiazza tutti quando si rallegra perchè «finalmente questa crisi è scoppiata. Si tratta - spiega - di un'occasione di "pedagogia della catastrofe" e per cominciare a produrre un po' meno e un po' meglio. Perché la ricetta, da destra e da sinistra, per uscire dalla crisi, sembra sempre quella di produrre sempre di più. Anche la sinistra radicale - rimprovera - si è ammalata della sindrome della torta, che non è mai sufficientemente grande per essere divisa in parti uguali. Farebbe invece meglio a tornare a Marx, che già nel 1848 riteneva sufficiente la ricchezza prodotta dal capitalismo per cominciare a parlare di redistribuzione. Da allora gli incrementi di produttività sono cresciuti di trenta volte e la torta è lievitata enormemente, avvelenandosi di ingredienti come inquinamento e disuguaglianze vergognose».

E comincia a illustrare le otto "erre" che sono le iniziali di altrettante misure correttive capaci di innescare il circolo virtuoso della decrescita: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare la produzione, ridurre, riutilizzare, riciclare. Un elenco di proposte paradossali ancora prima che un programma, ammette lo stesso Latouche, che al di là della soddisfazione per la fine dell'era Bush e l'elezione di un presidente che non è legato a doppio filo alla lobby petrolifera, non sembra in fondo riporre eccessive speranze nel cambio di inquilino alla Casa Bianca: «L'elezione di Obama è senza dubbio uno degli effetti collaterali positivi di questa crisi, ma mi rendo conto che se un uomo politico volesse applicare seriamente un programma simile finirebbe assassinato nel giro di 48 ore. E questo - continua - non lo auguro certo al nuovo presidente degli Stati Uniti». «La decrescita - spiega - è una rivoluzione culturale e non può essere riassunta dal programma di un partito politico. Una scelta e non semplicemente un crollo della produzione, perché non c'è niente di peggio di una società della crescita senza la crescita. E' la disintossicazione di un immaginario che si fonda su pubblicità, obsolescenza programmata dei prodotti e credito al consumo, che sono i pilastri della società della crescita. Per questo sarebbe meglio parlare di "a-crescita" con la "a" privativa, esattamente come si parla di ateismo. Occorre recuperare una visione laica dell'economia, che deve smettere di essere una religione e riappropriarsi del denaro, desacralizzando la moneta. Non è un caso - nota- che sulle banconote da un dollaro ci sia scritto "In god we trust"». «E poi destrutturare - continua - la coppia classica "abbondanza e penuria". Perchè la penuria è un'invenzione del capitalismo al tempo delle enclosures, la recinzione e privatizzazione di terre comuni a partire dall'Inghilterra del XII secolo».

Rivaluta poi perfino una parola come "povertà", «che è rinuncia al superfluo e non mancanza del necessario e che solo l'immaginario capitalista ha fatto diventare una cosa vergognosa». Ma cosa fare se anche nei cosiddetti paesi in via di sviluppo in cima ai desideri delle persone c'è il telefonino di ultima generazione? «la decolonizzazione dell'immaginario dei paesi poveri non può che iniziare da un'ecologia del nostro immaginario. E se in Italia il 70% ha scelto Berlusconi bisogna ammettere che c'è molto da fare». «L'obiezione che così facendo si tornerebbe all'età della pietra non ha fondamento» ribatte poi: «L'impronta ecologica degli europei smette di essere sostenibile negli anni 70, che non erano certo la preistoria» Non è che oggi mangino tre volte di più. «E' piuttosto cambiata la qualità delle merci che troviamo sugli scaffali dei supermercati, che ora incorporano centinaia di migliaia di chilometri di trasporti a base di combustibili fossili». Ma non c'è più molto tempo, avverte, «perché stiamo vivendo oggi il sesto periodo di scomparsa delle specie animali, che sta avvenendo a una velocità inedita nella storia dell'umanità. Negli ultimi anni, per esempio, è scomparsa la metà delle api italiane. E poi perché tra il 2030 e il 2070 anche gli scenari più ottimisti prevedono il collasso del sistema mondo». E' l'ultimo ammonimento di questo profeta ironico della decrescita, che conclude con un'altra storiella: «Un vecchio pianeta incontra la Terra, che non vedeva da tanto tempo. «Come va?» le chiede. «Non molto bene - risponde lei - temo di avere una malattia mortale, si chiama Umanità. Non ti preoccupare - la tranquillizza l'altro - ci sono passato anch'io, è come una febbre ma poi passa, perché è provocata da batteri che alla fine si autodistruggono».