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Ma gli spiriti della montagna non amano lo scempio di trafori, viadotti e ferrate

di Francesco Lamendola - 01/12/2008


Julius Kugy, il celebre alpinista austriaco che fece oggetto delle sue ascensioni soprattutto il Monte Tricorno, e del quale abbiamo già avuto occasione di occuparci (cfr. F. Lamendola, «Ricordo di Julius Kugy, alpinista-poeta delle Alpi Giulie», consultabile sul sito di Arianna Editrice), non amava l'abuso di attrezzature permanenti sulle pareti rocciose e nemmeno il chiasso delle comitive domenicali di alpinisti dilettanti e di turisti che della montagna non capiscono nulla e, invece di ascoltarla, vi portano i rumori molesti e la nevrosi della vita cittadina.
Il suo atteggiamento era quello, proprio degli spiriti religiosi, della contemplazione, della lode e del ringraziamento: profanare la montagna, in qualunque senso, gli sembrava una cosa intollerabile, addirittura blasfema.
Ci uniamo di cuore a una tale disposizione d'animo nei confronti di tutto il mondo della natura, e della montagna in particolare: la montagna che, da sempre e in tutte le tradizioni religiose, è simbolo di ascesa verso la spiritualità, di misticismo, di purificazione interiore. Anzi, ci spingiamo anche più in là, e ipotizziamo come cosa assai probabile che le montagne siamo molto, ma molto di più che degli insiemi di rocce e minerali, messi a disposizione dell'uomo perché le sventri e ne faccia qualunque genere di uso a fini economici. Anche di questo abbiamo già parlato in un precedente lavoro («La montagna è un essere vivente dotato di anima e volontà?», anch'esso sul sito di Arianna), per cui non torneremo sull'argomento.
Crediamo che gli spiriti della montagna non siano affatto contenti delle gallerie che continuamente vengono aperte nelle sue viscere, per collegare con strade e autostrade gli opposti versanti; delle ferrovie e delle autostrade sopraelevate che, con gli enormi piloni di cemento armato che le sostengono, deturpano la bellezza e rovinano la quiete dei boschi e delle rocce; e neppure dei chiodi a pressione, dei gradini di acciaio e di tutte le altre opere permanenti che vengono infisse sulle pareti più ripide, per facilitare l'ascensione agli scalatori.
Sono ormai in pochi a pensarla così.
Le popolazioni alpine sono divise fra i supposti vantaggi economici del turismo di massa, a cominciare da sciovie e funivie sempre più invasive, e la preoccupazione per l'arrivo di una crescente cementificazione al servizio della tecnologia dei trasporti (le varie linee ferroviarie ad alta velocità, per esempio); e, fra gli alpinisti in senso stretto, sono sempre meno numerosi quelli che, come Walter Bonatti, ritengono che non si debba abusare dei mezzi artificiali per facilitare le ascensioni al solo scopo di creare un alpinismo di massa, oltretutto rovinando per sempre l'intatta bellezza dei versanti rocciosi.
La cosiddetta opinione pubblica, poi, imbottita di slogan scientisti da quattro soldi e ricattata da una classe dirigente che presenta la difesa dei valori ambientali come una battaglia di retroguardia contro il progresso e contro le opportunità di lavoro e di guadagno, in genere non si pone neppure il problema, contenta solo di sapere che, grazie al nuovo traforo, si potrà risparmiare una mezz'ora di viaggio in automobile o che, grazie alla nuova via ferrata, anche il ragioniere con la pancetta potrà salire, la domenica, su qualche monte famoso e farsi immortalare dalla videocamera o dalla macchina fotografica digitale, mentre posa da conquistatore proprio sulla cima.
Il qualunquismo più becero e la pigrizia mentale, uniti a dosi massicce di consumismo nelle sue forme più deteriori, regnano incontrastati.

Vale la pena di ascoltare quello che aveva da dire, circa un secolo fa, il bravo Julius Kugy su questo argomento, mentre è facile immaginare quello che il vecchio alpinista austriaco penserebbe, se potesse vedere fino a che punto sono arrivati gli effetti negativi di quell'assalto generalizzato alle montagne, di cui egli vedeva e denunciava le prime avvisaglie.
Ecco cosa scriveva, fra l'altro, nella sua opera in due volumi «Dalla vita di un alpinista», tradotto da Ervino Pocar (Milano, L'Eroica) e riportato nell'antologia «Primo Fiore», a cura di Bindo Chiurlo, Udine, Editrice Idea, 1944, pp.  506-511:

«Tornando una volta dopo alcuni anni alla Ponza Grande, ti trovo l'inizio dell'esile cresta che porta al cono terminale, sul contrafforte della cresta Susner, una grande chiazza rossa, sfacciata, visibile da lontano. Mi arrestai colpito e addolorato. O villano senza riguardi! Mi dispiace, ma fu proprio questa la mia prima reazione. E ancora oggi, dopo tanti anni, mi sento montar le vampe alla testa. Vai lassù e cancella quella macchia, se vuoi ancora esser degno di comparire davanti alla faccia delle montagne. Ma perché una macchia in quel posto? Per spiegare che lì bisogna passare sullo spigolo del crinale, anziché volare sugli abissi  che s'aprono di qua e di là? Chi si arroga il diritto di permettere così poco buon senso in un alpinista? O si vuol attirare lassù della gente che non c'entra?
Non so ricordarmi d'aver visto in Svizzera, in Piemonte, sulle montagne francesi, un simile scandalo. Ho paura che sia un privilegio delle nostre Alpi orientali. Voglio ammettere che laggiù non si tratti forse puramente di un sentimento gentile, ma anche di altre direttive, di altri forse concetti sull'industria del forestiero. Ma quale altro effetto fa quella montagna senza tinture! Il viaggiarvi dà maggior piacere, maggior senso di grandezza, di libertà, d'indipendenza. Evitare codesta gente, il cui amore per la montagna sboccia dal pentolino del colore! Sono le vie di povera gente piccina.
Se quegli "amici della montagna" sono gente di alta montagna, conficcano nella roccia pioli di ferro, da farla apparire più deplorabile che il corpo di San Sebastiano, e vi tendono funi, da noi preferibilmente funi di ferro anziché di canapa, forse perché quelle lasciano alle mani ricordi più duraturi. Poi, spingono su per quelle file di chiodi., colleghi consoci e conoscenti, certo più intrusi che chiamati, i quali pendono spaventati fra cielo e terra e, invocando tutti i santi, giurano: quest'è la prima e l'ultima volta! - e imprecano contro quella malaugurata ascensione. C'è qualcuno che ne abbia un vantaggio?
Quanto a me, io salgo più volentieri per rocce difficili che per sentieri addomesticati. Quelle mi presentano anche meno difficoltà. Il sentiero artificiale è quasi sempre una profanazione. S'incatena il gigante, lo si butta a terra e si grida alla folla: "Eccovelo, ora lo potete calpestare". Quella gli si getta addosso, lo schernisce, lo insudicia. E ciascuno nella folla si crede di averlo vinto. "Poh, un monte facile", dice un eroe: "non ne val la pena", dice un altro. Poi si fanno fotografare, come i cacciatori, in posa spavalda, con un piede sulla nobile selvaggina uccisa! Badate! Avviene talvolta che il gigante incatenato si scuota e gridi ai suoi aguzzini un terribile memento!
In questo modo furono resi praticabili alcune vie che io scopersi sulle Giulie. Il più grande dolore mi fu dato da chi assicurò la via diretta al Montasio dalla Salsera. Io non avevo alcun diritto di pretendere che mi si interrogasse. Ma avrei riveduto tanto volentieri i passaggi decisivi di quella grande giornata; eppure non ebbi il coraggio di andarci. Non volli vedere la "via chiodata"!
Agli amici della montagna col pentolino del colore, a quelli che salgono colla pala, coi pioli di ferro, con le corde metalliche, vien dietro una moltitudine urlante. E questi vogliono i rifugi con servizio di trattoria, o meglio rifugi alberghi, o diciamolo pure: osterie alpine. I loro pensieri e desideri si concentrano nella birra. E quando sono giunti alla meta, il tinnire dei bicchieri si mescola al placido gorgoglio del torrente e l'odor di cucina al profumo delle altitudini. Noi siamo rimasti inosservati, poiché essi sono inchiodati alle panche là dentro. Si odono le loro voci, essi raccontano le loro gesta. Usciranno solo più tardi, quando li inviterà il pisolino al sole. Ci tiriamo da parte rattristati. Ed ecco un tale che ci passa accanto di corsa, accaldato, senza fiato. Non ha occhi per la bellezza della natura. Egli guarda fisso dinanzi a sé, l'orologio alla mano. "In due ore, quattordici minuti, quaranta secondi", ci grida passando, con aria di trionfo. Noi abbiamo impiegato quattr'ore a salire e ci spaventiamo. E' accaduta una disgrazia a valle? No, no: è l'uomo dei tempi, l'uomo dei record. Egli misura i suoi divertimenti e il suo trionfo sulla brevità del tempo. Anche l'uomo in corsa rappresenta tutta una categoria. Per un attimo scompare nell'osteria alpina, certo per annunciare la sua bravura, e fila via, forse per un altro record, verso la vetta. Chissà, forse il gran colpo gli riesce ed egli può tornare a casa col primo treno. Noi non lo vediamo più. - noi partiamo coll'ultimo. E allora non gli possiamo dire quanto ci dispiaccia che egli abbia potuto vedere tanto meno di noi e ce non si sia accorto di tante belle cose. Ma forse ci avrebbe guardati senza comprensione, o anche con altezzosa commiserazione. L'uomo dei tempi è l'alpinista più esclusivo, più pieno di sé. Si sa, chi va adagio ha motivo d'essere modesto. Ma forse è il più felice. Quegli uomini del record, infatti, certo non raggiungono mai la felicità vera e tranquilla. Troppo spesso capita che i loro successi siano sorpassati. Quasi sempre arriva uno più temerario, uno più abile, uno più veloce. Col successo uno si butta sul mercato e scatena la vile concorrenza. Ma nessuno può soverchiare, nessuno può togliere l'amore pei monti e per la natura che arde nel silenzio del tuo cuore. Fa che il tuo cuore lo tenga stretto, sempre!
Non si creda che io voglia dileggiare o sminuire iol lavoro provvidenziale delle mostre società alpine. Io sono contro l'esagerazione e la dismisura. Anche noi accetteremo con gioia e gratitudine un segno marcato chiaramente di corda per assicurarvi la vita in qualche punto pericoloso, o un semplice rifugio in un recesso tranquillo o su un'altura dominante. Anche un rifugio-albergo, anche una vera osteria nel posto conveniente. In questa materia non si possono stabilire delle norme. Per tante cose non ci sono in montagna le tavole della legge.. Si giudichi con senso e buon senso. La discrezione e la finezza di sentimento additeranno sempre la via buona.
Ricordo i miei primi anni nelle Alpi Giulie, or è quasi mezzo secolo. La piccola capanna M<aria Teresa sul Tricorno, la vecchia e modesta capanna del Mangart, il nido di rondini sotto la parete delle rocce del Jôf Fuart: ecco gli alloggi che offrivano. Quando le malghe erano troppo misere o troppo lontane, si dormiva all'aperto. In fatto di vie assicurate non v'erano che alcuni chiavicchi saldati sul Tricorno, pochi gradini scalpellati nei lastroni del Mangart, una buona e breve serie di chiodi sul Jôf Fuart. Vie segnate non ce n'era. La prima fu segnata, per quanto io sappia, da Riccardo Issler fra la Camarcia e i Sette Laghi. Si cercavano le vie sulla carta o, siccome quelle d'allora lasciavano presto in asso, col proprio istinto. Pastori e bracconieri davano le informazioni. Guide autorizzate v'erano nelle stazioni del Tricorno, a Fusine e Cave del Predil, per il Mangart e il Jôf Fuart, più tardi anche a Plezzo. Chi voleva le guide per nuove ascensioni, se le doveva cercare e educare.
Erano vie lunghe ed aspre. I monti apparivano più selvaggi e più grandi. Molte erano imprese bell'e buone e avevano ancora il fascino di viaggi di scoperta. Qualche montagna più discosta non aveva nome neanche tra il popolo. Eccettuate alcune cime principali, quasi tutte erano ancora vergini. Nella penombra delle gole vivevano le leggende. La montagna che oggi è la nostra fede e la nostra speranza, la montagna che oggi sappiamo per averla conosciuta e che ammiriamo con amore, era ancora avvolta nel velo dell'ignoto e del mistero donde sorgevano il timore e la superstizione. Intorno a quasi tutte le ascensioni passate s'era formato un mito che univa il vero al fantastico. Quell'età dell'oro dispensava aureole dorate. E cominciava allora l'età classica per le Alpi Giulie; pian piano essa si avanzò dalle Alpi Occidentali dove ferveva ormai il lavoro. Procuriamo di conservare quanto è possibile dell'aura meravigliosa di quei tempi primi!
Non esageriamo con le martellate, le costruzioni, i segnavie. Quanto più rendiamo praticabile la montagna in questa guisa, tanto più la distruggiamo. Non con pale e picconi, non con la cazzuola, col minio e con birrerie, ma questo lavoro fa fatto con occhio amoroso e chiaroveggente, col cuore puro ed entusiasta. Non scacciate i cari spiriti della montagna dalla loro dimora. In punta di piedi. Non chiamateli, ma state in ascolto. E poi non disturbate il loro placido governo. Ve ne saranno grati e vi compenseranno.»

Oggi più che mai dovremmo tenere a mente queste parole di Julius Kugy: Non scacciate i cari spiriti della montagna dalla loro dimora.
E pensare che il vecchio gentiluomo si addolorava per una macchia di vernice rossa sulla parete rocciosa. Che cosa direbbe oggi, davanti allo spettacolo dei trafori che portano le autostrade per chilometri e chilometri nel ventre delle montagne; dei viadotti sospesi a venti, cinquanta, cento metri e più, sul fondo delle valli, deturpandone la bellezza con le gigantesche gettate di cemento armato; dei treni ad alta velocità che sfrecciano fin negli angoli più remoti e poetici della catena alpina, sempre inseguiti dal fantasma urlante della fretta, dell'ambizione e del guadagno ad ogni costo?
L'atteggiamento dell'uomo contemporaneo verso la natura è quello del padrone orgoglioso e irresponsabile, non quello del figlio rispettoso e amorevole.
Per gli Indiani delle Grandi Pianure era inconcepibile imitare quello che vedevano fare dall'uomo bianco: scavare gallerie alla ricerca dell'oro. Essi dicevano: «La Terra è nostra Madre. Come si può strappare i visceri della propria madre?». Forse sono in pochi a sapere che la guerra finale dei Sioux per la difesa delle loro terre, quella culminata nella battaglia del Little Big Horn contro il colonnello Custer (1876), fu essenzialmente una guerra religiosa per proteggere le Black Hills, che essi consideravano sacre, dall'avidità dei cercatori d'oro bianchi.
Perfino l'agricoltura era guardata dai pellerossa con una certa diffidenza e sempre per la stessa ragione: perché si trattava di affondare l'aratro nel seno della Madre Terra. Essi vivevano principalmente di caccia e di raccolta e la loro esistenza era legata al bisonte, che consideravano un dono del Grande Spirito: un dono del quale non abusavano di certo come avrebbe fatto l'uomo bianco, sterminandolo in pochi decenni; ma, al contrario, come qualcosa da utilizzare con saggezza e moderazione, senza nulla sprecare dell'animale ucciso: né la carne, né la pelle, né le corna, né i nervi e nemmeno gli escrementi (utili, d'inverno, per il riscaldamento, dato che la prateria è pressoché priva di alberi).
Dunque, la montagna come essere vivente; la montagna come luogo privilegiato della divinità (dal Monte Sinai di Mosé al Monte della Trasfigurazione di Cristo); la montagna come popolata da spiriti gentili e benevoli verso coloro che la avvicinano con umiltà e gratitudine, ma che fuggono inorriditi davanti alla prepotenza e alla profanazione della società di massa.
Se gli uomini si ricordassero più spesso della propria doppia cittadinanza, anche il loro atteggiamento verso la montagna sarebbe diverso e più consono (cfr. il nostro precedente articolo «Ogni  uomo  è  un  viandante con  la  doppia  cittadinanza», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
Fin da quando viene al mondo, ogni essere umano si trova a vivere contemporaneamente su due distinti piani di realtà: quello del relativo e quello dell'assoluto. È possibile che molti di noi non se ne rendano neppure conto e che ad altri, pur avendo passato una intera vita fra i libri delle più diverse specializzazioni, sia semplicemente sfuggito un simile «dettaglio», dal quale dipende - né più né meno - la nostra possibilità di essere delle persone realizzate e, forse, felici. Ma questa è una legge che vale per tutti gli esseri umani, buoni e cattivi, sapienti e ignoranti: l'unica cosa che li differenzia è il grado di consapevolezza che possiedono nei confronti di essa.
In sintesi, e per andare dritti all'essenziale, ciascun essere umano è al tempo stesso cittadino di questo mondo e cittadino, o aspirante cittadino, o potenziale cittadino, dell'altro mondo: dell'assoluto, dell'eterno, della dimora dell'Essere. Una condizione particolare, che fa dell'uomo una creatura anfibia: con branchie per respirare nell'acqua dello stagno terrestre, ma anche con polmoni, o almeno con embrioni di polmoni, atti respirare l'aria libera del cielo sopra la terra. Con i piedi piantati quaggiù, ma con la nostalgia delle altezze nello sguardo.
E la montagna è, molto probabilmente  - a livello di inconscio collettivo, direbbe Jung, dato che essa è simbolo di purificazione nelle più diverse culture e religioni - l'immagine visibile di questa nostalgia, la sua proiezione sul piano della vita concreta.
Essere consapevoli della nostra natura anfibia e della nostra destinazione finale è, pertanto, l'elemento che fa la differenza tra una vita autentica e una vita inautentica, tra una vita realizzata e una vita dissipata, tra una vita piena e gioiosa e una vita disperata, anche se talvolta la disperazione è abilmente mascherata dietro l'apparenza del «benessere».
Inoltre, la consapevolezza della doppia cittadinanza dovrebbe ricordare agli esseri umani che essi non sono soltanto abitanti della Terra e che, pur essendone i figli, hanno però anche un Padre (o una Madre) che non appartengono a questo mondo. Ciò dovrebbe renderli più moderati nell'uso da fare dei beni della Terra (che essi, nella loro prevalente mentalità predatrice, chiamano «risorse da sfruttare»), perché, come è stato detto, non di solo pane vive l'uomo.
E, proprio in virtù della parte celeste che abita in lui, l'essere umano dovrebbe sentirsi responsabile delle meraviglie che la Terra offre a lui, così come agli altri esseri viventi: e, se è vero che egli rivendica un primato fra essi  a motivo dell'autocoscienza, altrettanto dovrebbe ricordare che maggiori diritti implicano anche maggiori doveri. Ora, rientra fra i suoi doveri essenziali quello di rispettare e amare la vita in ogni sua forma, di rispettare e amare la Terra in ogni suo aspetto e manifestazione, salvo il legittimo diritto di difendere se stesso dalle malattie e dalle altre offese che lo possono minacciare.
Anche di quest'ultimo diritto, peraltro, egli tende ad abusare, perché ha dilatato a tal punto il concetto di «legittima difesa», da aver dichiarato una sorta di guerra preventiva contro tutte le altre specie viventi, ad esempio sottoponendo milioni di cavie animali a sadici sperimenti di vivisezione, senza porsi alcuno scrupolo morale circa la loro liceità e circa la loro effettiva necessità.
Così, la manipolazione della montagna non è altro che uno degli infiniti aspetti che assume la protervia di un Logos strumentale e calcolante, il quale non riconosce alcun senso del mistero - ossia del sacro - e non rispetta alcun senso del limite.
In nome del suo orgogli -, che si suole definire prometeico, mentre più esatto sarebbe definirlo diabolico - l'uomo sventra la montagna, ne offusca la bellezza in nome della velocità e del profitto, la adibisce perfino a deposito degli infernali arsenali nucleari e vi scava basi militari ultrasegrete ove si compiono i più atroci esperimenti di guerra chimica e batteriologica e, forse, anche altri, di un genere persino più nefando.
Del resto, non ci narra forse Platone che la progredita e meravigliosa civiltà di Atlantide andò in rovina allorché i suoi re-sacerdoti, presi da un delirio di onnipotenza, vollero arsi alle arti esecrabili  della magia nera?