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Epoca nuova: necessità di cambiare

di Gianfranco La Grassa - 01/12/2008

 

1. Tutti sostengono che bisogna cambiare, ma sembra invece di vivere al rallentatore, quasi da fermo, quello che è invece un importante mutamento d’epoca. Fra al massimo vent’anni (e anche meno), nulla sarà più come prima; tuttavia, se continua così, sentiremo ancora i ragionamenti degli ultimi trent’anni (come minimo, e che non siano quelli degli ultimi sessanta). Per quanto mi sem-brino piuttosto deficitari in fatto di cultura, gli ambienti che si continuano a definire “la destra” sono tuttavia i meno restii ad un certo mutamento, pur se fortemente ideologico e poco “reale” (per quan-te ambiguità abbia tale termine). Gli ambienti definiti “la sinistra” sono particolarmente ostili a cambiare mentalità e metodi di lotta politica. I più tetragoni e ottusi li troviamo schierati in una pre-sunta “estrema” sinistra; e i più orripilanti, in quanto mummie, sono quelli che continuano a cian-ciare di comunismo senza un minimo di analisi di che cosa è stato il socialismo reale del XX secolo, che politica (e che teoria) hanno portato avanti i vari Pc nel mondo, ecc. Adesso poi, quasi solo in Italia, ci sono gruppetti “comunisti” ridotti all’osso e che tuttavia continuano a scindersi, ad accu-sarsi reciprocamente di essere “traditori” o “deviazionisti”, ecc. Uno spettacolo veramente patetico e anche ridicolo.
Poiché pochi hanno ancora il coraggio di parlare di classe, allora si blatera continuamente di “lavoro”, di “lavoratori”, di “masse lavoratrici”. Questi lavoratori sono però solo quelli rigorosa-mente inquadrati e manipolati da elefantiaci apparati di Stato detti sindacati; per la maggior parte si tratta di lavoratori delle mansioni esecutive a livelli bassi o medio-bassi di salario. Che ci siano altri strati sociali che lavorano – i “professionisti”, i lavoratori “autonomi” e “artigiani” (piccole e picco-lissime imprese), manager e perfino gli agenti strategici del capitale – non rientra nella considera-zione di chi è agganciato ad una visione che già era superata nella seconda metà del novecento. Il ritardo è enorme; un’epoca è praticamente tramontata, un’altra sta drammaticamente nascendo, ma tutto sembra proseguire, soprattutto in questo nostro paese, come se fossimo ancora ai miti degli anni ’60 e ’70.
La fine della Classe Operaia (mai esistita nei termini in cui fu “proclamata”), l’identica fine dell’altrettanto falsamente ideologico terzomondismo, ha condotto pochi anni fa autentici buffoni (e alcuni intrallazzatori) a teorizzare il Movimento dei movimenti, il social forum, i no global. Questi mestatori di professione – attorniati da intellettuali che usurpano questo nome, ma che si sono fatti una turpe nomea servendo i dominanti nel mentre si fingono estremisti e radicali – hanno addirittura parlato di “seconda potenza mondiale” in grado di opporsi agli Usa. Se almeno ci si ricordasse di questi citrulli, che ancora oggi pontificano sui giornaletti dell’estrema sinistra (ma anche sul Corrie-re, ecc.)! Bisogna avere il coraggio di segnalarli quali manutengoli del potere; ma di quello dei do-minanti più arretrati, dei servitori dei predominanti statunitensi. Non si deve permettere la continua invenzione di altre corbellerie (si pensi a quella dell’“altermondismo”) per scatenare movimenti fa-sulli, che ostacolano ogni possibile rinascita di un pensiero e di un’azione effettivamente critici ver-so l’establishment del momento, fra l’altro quello più arretrato e parassitario, quello che andrebbe intanto spazzato via onde aprire la strada a possibili “rinascite”.
E’ inutile fingere di essere fin d’ora in possesso di nuove concezioni, di nuove categorie inter-pretative. Dobbiamo rassegnarci a procedere un po’ a tentoni e via ipotesi. E’ però importante che almeno si capisca che si è in un’epoca di trapasso e che tutte le vecchie teorie sono divenute inevitabilmente dei grandi ammassi di ideologie in putrefazione. Perché è esattamente ciò che accade ad ogni grande tornante storico; quelle che erano teorie sostanzialmente vitali e conoscitive – pur con all’interno filoni ideologici in gran parte inconsapevoli – cominciano a cadere a pezzi; e l’ideologia che era una semplice vena, un rivolo, si ingrossa e invade l’intero campo del pensiero, trasforman-dosi infine in un grande manto di ghiaccio che tutto cristallizza, diventando pura credenza, fede cui ci si aggrappa per non ammettere di dover tutto ripensare e ridiscutere.
Nessuno dovrebbe essere così ingenuo, o cialtrone, da credere che l’acquisizione di nuove teorie e categorie interpretative è dietro l’angolo, è qualcosa di semplice da conquistare. Alcuni presun-tuosi, altri furbi e pronti ad approfittare dell’appoggio dei dominanti sempre favorevoli a bloccare ogni sviluppo di un pensiero critico, sfornano nuove invenzioni, che i media controllati dai detti dominanti buttano in “nuova moda”, facile, per cervelli semplici e confusi, non educati al rigore della scienza. Così si perde tempo, ma è esattamente lo scopo che le sezioni più arretrate e parassi-tarie del capitale vogliono conseguire.

2. Data la mia pregressa cultura, formatasi in anni e anni di lungo e sistematico lavoro su Marx e il marxismo, è evidente che – se non voglio librarmi nel vuoto in assenza di gravità come la mag-gioranza del ceto intellettuale in quest’epoca di grande degrado del pensiero – debbo continuare a “pestare” in quella tradizione, sapendo però che ha fallito una notevole parte delle sue previsioni e che, dunque, le sue categorie teoriche sono gravemente inficiate da errori e svisamenti, in buona parte dovuti alle curvature ideologiche che nessuna elaborazione, per quanto ricerchi la scientificità, può evitare. Ogni teoria è figlia del suo tempo, delle strutture sociali e del clima culturale della sua epoca; è dunque naturale, fisiologico, che alla fine se ne scoprano i “difetti” e la si debba superare. Il modo del superamento distingue lo scienziato dall’imbonitore, dal puro ideologo che non mira ad alcuna “verità”, ma che grida sempre alla più alta Verità, quella suprema e, per ciò stesso, del tutto indimostrabile o verificabile, passassero millant’anni.
E’ dunque indispensabile, quando si lavora su “vecchi paradigmi”, compiere un’opera di loro continuo sgrossamento, ma soprattutto di lente e progressive torsioni, e poi radicali ristrutturazioni, degli stessi onde provare ad adattarli a quelli che appaiono essere i “fatti”, i processi in corso di svolgimento secondo date direzionalità. Anche su questi fatti e processi è necessario essere prudenti, mai sposarli come ormai definitivi e certi; fatti e processi hanno senza dubbio un loro nocciolo duro, ma dipendono comunque in buona parte dalla loro interpretazione. Se le categorie usate in quest’ultima sono incerte e imperfette, non possiamo non tener conto che ci muoviamo in un circolo vizioso, che è del resto ineliminabile se si vuol pensare e non ripetere sciocchezze à la page.
Ci si ricorderà come pochissimi anni fa alcuni consapevoli falsificatori, seguiti come al solito da coloro che amano le mode, si fossero gettati sulla tesi della fine degli Stati nazionali. Non vi era al-cuna fine in vista; semplicemente, era venuto meno il bipolarismo per collasso (ancora da spiegare “realisticamente” e non soltanto ideologicamente) di uno dei due poli (il socialistico), mentre nel campo capitalistico continuava, e si rinsaldava, il predominio incontrastato degli Usa, una delle formazioni particolari che compongono quella complessiva o mondiale. Oggi – attribuendo come al solito la colpa ad un qualche personaggio (in questo caso George Bush) di quanto deriva invece da inevitabili, e non solo personali o di gruppo di comando, errori nella valutazione della fase storica – tutti parlano di rinascita delle nazioni, in realtà mai morte, e di entrata in una nuova epoca multipo-lare.
In effetti, si tratta di quella da me definita policentrica. Sarà bene non gettarsi di nuovo a capo-fitto su un’ipotesi, dandola per vera e definitiva. A mio avviso, siamo in progressiva marcia verso quell’epoca, ma non ci siamo ancora; e si prega di non trarre in modo definitivo la conclusione dell’inarrestabile declino degli Usa. D’altronde, adesso, qualcuno pensa che tale declino si fermerà per il semplice fatto dell’elezione del nuovo Presidente statunitense. Ci troviamo veramente in pre-senza di bambini o di ritardati mentali, di quelli che credono solo alla funzione di una singola per-sona per ogni data epoca. Punterei sull’avvicinamento alla fase policentrica, ma senza nascondermi che sarà lento e con molte giravolte. Quello cui andrà incontro, con molte probabilità (infantile sa-rebbe quantificarle), chi vivrà i prossimi decenni, sarà un periodo in qualche modo somigliante ai decenni tra otto e novecento: un continuo farsi e disfarsi di alleanze tra paesi (potenze), un gioco molto variato delle varie “nazioni” per assestarsi nelle migliori condizioni possibili quanto a reci-proci rapporti di forza. E ci saranno certe alleanze di fronte ad un determinato problema e alleanze diverse per risolverne un altro.
Per non meno di due-tre decenni gli Usa resteranno in netto vantaggio quanto ad apparato belli-co, ma anche per ciò che riguarda l’avanzamento scientifico-tecnico. Non ci potranno perciò essere durante questo periodo confronti militari del tipo di quelli mondiali del novecento. Tutto si svolgerà per vie traverse; magari con eventi bellici minori, ai margini delle sfere di influenza di quelle che saranno le principali potenze competitrici degli Usa. E con molti altri giochi, fatti di competizioni aperte, di sottili e coperte manovre di influenza (ed eventuale corruzione) in direzione di settori ca-pitalistici arretrati di date formazioni particolari (esempio tipico l’Italia), di accordi e successivi di-saccordi per poi tornare all’accordo, magari nell’ambito di un diverso schieramento, ecc.
Si continua pervicacemente a pensare che ormai non si possa fare a meno di una cooperazione generale, perché i pericoli (ad esempio la crisi attuale) sono comuni. Circa due anni fa, in Perspec-tives chinoises apparve un articolo (di un commentatore americano o inglese), in cui si sosteneva che le potenze emergenti in Asia erano ancora impastoiate in una vecchia politica ottocentesca (e primonovecentesca) di alleanze e sordi conflitti tra potenze; mentre invece, estremamente avanzati e moderni, lanciati verso il futuro, erano i paesi occidentali, in specie europei e Usa, che capivano la necessità di un coordinamento comune (alle strette dipendenze statunitensi, si dimenticava di scri-vere l’estensore dell’articolo). Da qui in avanti, diventerà sempre più chiaro che il comportamento generale dei più forti paesi sarà esattamente quello attribuito dall’articolo di cui sopra alle “arretra-te” potenze asiatiche.  
Il primo “fatto” da tenere presente è dunque l’approssimarsi del policentrismo; tuttavia ancora (assai) imperfetto, e per lungo tempo, a causa di quella posizione di primato mantenuta dagli Usa, il cui declino non sarà così veloce e lineare come certuni sperano (a vanvera). E’ in un mondo di nuo-vi contrasti tra “nazioni” (paesi) che ci si dovrà muovere d’ora in avanti.

3. Un altro “fatto”, che darei per ormai definitivo, è la fine della “lotta di classe” come immagi-nata nel novecento da ampie forze (e non solo quelle “comuniste”). Le classi pensate erano fonda-mentalmente due: quella dominante (nel capitalismo, i proprietari delle condizioni oggettive della produzione; quindi dei mezzi di produzione e della terra) e quella dominata (il lavoro salariato pro-duttivo, da cui si estrae il pluslavoro nella forma di valore, la cui parte decisiva è il profitto). Tra queste due poteva sussistere – e anche ampliarsi – una serie di strati intermedi, come riconobbe lo stesso Marx (vedi ad esempio il vol. II delle Teorie sul plusvalore); tuttavia, lo scontro antagonisti-co fondamentale, caratterizzante la specifica dinamica della società capitalistica e poi la sua tra-sformazione (transizione) in una nuova forma sociale, era quello che opponeva le due classi decisi-ve sopra nominate. E’ ora di dire basta a questa finzione: la società va studiata nella sua struttura di rapporti tra gruppi o vasti raggruppamenti. In ogni caso, essa è più complicata di quanto ammesso dalla teoria delle classi sia nel comparto dei dominanti sia in quello dei dominati.
La semplice proprietà dei mezzi produttivi – che obbliga poi a capziose ed estenuanti distinzioni tra forma giuridica e reale potere di controllo – non può più essere posta quale fulcro della divisione della società in gruppi conflittuali. E’ certamente indispensabile fissare, con una certa elasticità, al-cuni criteri di massima per non complicare tale divisione fino a frantumare la società in un pulvisco-lo di “molecole” sciolte da legami dotati di senso. Spingendo all’estremo, potremmo fare di ogni individuo un “gruppo” a se stante, non ricavandone proprio alcun vantaggio ai fini dell’analisi e del-le possibilità d’azione. Bisognerà intanto procedere per sommi capi, in base a ciò che sembra più utile per pensare le nostre società capitalistiche avanzate. L’importante è partire da un’ipotesi forte sulla fase attuale: torneranno a diventare più incisivi, per alcuni decenni, gli scontri tra formazioni particolari, mentre le lotte sociali – ridotte da una teoria decrepita, come già detto, a semplice con-flitto capitale/lavoro, o tra masse diseredate dei paesi arretrati e paesi avanzati, per non parlare della stupida tesi delle Moltitudini e Movimenti in urto con forze “imperiali” mal definite e amebiche – dovranno passare in seconda linea; non ignorate, solo in seconda linea, in quanto, detto con il lin-guaggio di un tempo, “surdeterminate” dai conflitti tra le suddette formazioni. E non perché si di-sprezzino i dominati, come qualche sciocco “buonista” ha eccepito, ma semplicemente per concre-tezza e realismo. In questa fase si deve ri-centrare l’attenzione su un tipo di conflitto, che non è nemmeno semplicemente tra dominanti come si potrebbe troppo facilmente supporre, bensì proprio tra formazioni particolari (o paesi).
E’ però a questo punto essenziale chiarire un punto onde evitare fraintendimenti. Abbiamo detto che, in un certo senso, oggi “tornano le nazioni”; in realtà non tornano affatto, semplicemente si rendono di nuovo perfettamente visibili anche agli occhi di chi non riusciva più a pensarle in quanto sovrastate dal netto predominio statunitense dopo il crollo socialistico e dell’Urss. Non vorrei che si pensasse la nazione come nella prima metà del novecento, in termini di acceso nazionalismo. Non credo sarà così. Si riaffacciano ove più ove meno – tutto dipende dall’arretratezza e parassitismo dei gruppi dominanti, spesso propensi al servilismo verso la preminenza monocentrica di un paese, gli Usa – gli interessi e i “bisogni” di date popolazioni che hanno, in generale, un comune territorio, una lingua comune, abitudini e tradizioni (in parte) comuni.
Il tutto da interpretare con molta elasticità; e con una particolare attenzione al termine popola-zione. Perché questa non è un insieme sociale compatto e unitario, pur quando “insista” su un dato territorio, parli la stessa lingua, abbia una storia e certe tradizioni parzialmente omogenee. Non esi-ste certamente la supposta divisione in due fondamentali classi contrapposte polarmente (l’antagonismo foriero della trasformazione da una forma di società ad un’altra), ma nemmeno una comunità divisa al suo interno da pure questioni relative ad una presunta mutua cooperazione (ad es.: distribuzione delle prestazioni di lavoro e dei prodotti delle stesse). La conflittualità – pur non mettendo minimamente in discussione la specifica forma riproduttiva dei rapporti sociali (detta, molto all’ingrosso, capitalistica) – si estende in orizzontale e in verticale, sia negli assetti del potere interno, sia nei confronti dei dominanti di altre formazioni particolari, ecc. L’“analisi concreta della situazione concreta” s’impone soprattutto in una fase come questa. Così pure diventa necessaria una speciale attenzione allo sviluppo ineguale delle diverse formazioni particolari; e con molti “alti e bassi” nello sviluppo della stessa formazione nelle sue inter-relazioni con le altre.
In ogni caso, la nazione non è un concetto che sta al di sopra della sua popolazione, dei vari gruppi e strati sociali che la compongono; essa non è una inscindibile entità unitaria e “quasi misti-ca”. D’altra parte, è piuttosto insoddisfacente – pur se la si può usare in certi contesti e con pruden-za – l’espressione sistema-paese, giacché trasmette l’idea di una società quasi simile ad una azienda con i suoi reparti ben coordinati e i cui interessi sono armonizzabili in un contesto di competitività – valutata in termini di mera efficienza economica – con altri sistemi dello stesso tipo. Viene a man-care l’idea della conflittualità strategica – che crea semmai “disarmonia” – sussistente già all’interno di ogni cosiddetto “sistema-paese” e necessaria ad apprestare, spesso mediante forma-zione di eventuali blocchi sociali di speciale rilevanza, una competizione verso l’esterno mai fonda-ta soltanto, se non nella pura ideologia dei dominanti, sulla suddetta efficienza, concezione di rara grettezza economicistica che nasconde l’elemento decisivo della potenza e dello scontro per le sfere di influenza. Il termine migliore è tutto sommato formazione particolare, che coincide spesso con un dato paese, popolato da strati e gruppi sociali comunque accomunati dall’abitare in un certo terri-torio, sotto la giurisdizione di dati apparati “pubblici” (denominati Stato); strati e gruppi dotati di caratteri che possono tuttavia ben dirsi “nazionali”.  
La(e) crisi accentuerà(nno) le “particolarità” di queste formazioni e delle loro inter-relazioni (di scontro e di mutevoli alleanze). Tuttavia, non bisogna lasciarsi ingannare dall’inversione dei rappor-ti causa/effetto che l’apparenza (reale, ma “di superficie”) impone. La(e) crisi è (sono), in ultima istanza, l’effetto di un già iniziato processo di policentrismo, sia pure incerto, iniziale, imperfetto. L’attuale crisi non sarà l’ultima. Non prendo nemmeno in considerazione gli sclerotici resti pseu-domarxisti che si attendono il crollo del capitalismo; sto invece dicendo che si tratta della prima cri-si di proporzioni effettivamente assai consistenti, che nasce dal suddetto sviluppo ineguale, e che non si concluderà per merito di una solo presunta azione coordinata delle varie formazioni capitali-stiche avanzate (le “vecchie” e le “emergenti”). Essa troverà un provvisorio assestamento nella “ri-classificazione” dei rapporti di forza tra formazioni particolari; senza immaginare che in questa riarticolazione debbano necessariamente essere sfavoriti gli Usa. Non esistono direzioni univoca-mente determinate da cause certe, e dunque prevedibili come il moto degli astri. L’analisi politica è molto più complicata, relativa a situazioni instabili, mobili, fluide; essa è dunque aperta ad errori di previsione notevoli, che debbono essere corretti dimostrando elasticità.
La prima conclusione è dunque la seguente: esiste una tendenza – non univoca e unilineare, ric-ca invece di improvvise svolte e discontinuità – al policentrismo, il cui effettivo avvento non può essere ritenuto certo al 100% e tanto meno molto vicino. Per un periodo di tempo piuttosto prolun-gato, inoltre, non sono pensabili scontri bellici generalizzati (“guerre mondiali”) tra le principali po-tenze, sia già in essere sia in formazione. La lotta sarà condotta con altri mezzi, e in essa sarà possi-bile anche per una media potenza giostrare secondo gli interessi “nazionali” della sua “popolazio-ne”; ricordando quanto appena detto, di limitativo, a proposito dei concetti di nazione e di popola-zione, corrispondenti comunque a determinate “realtà” che, per la fase prossima ventura, avranno maggior significato e maggiore forza propulsiva rispetto ai vecchi concetti della “lotta di classe”, del “terzomondismo”, per non parlare di quell’autentica invenzione denominata “altermondismo”: una colossale idiozia formulata da ideologi “ultrarivoluzionari” in servizio permanente effettivo alle dipendenze dei (sub)dominanti più arretrati e parassitari dei paesi capitalistici subordinati ai (pre)dominanti statunitensi.

4. Per quanto il conflitto più intenso e più denso di effetti sarà quello sussistente tra formazioni particolari, va ricordato quanto appena sostenuto: ognuna di queste formazioni ha determinati inte-ressi complessivi (detti “nazionali”) che riguardano la sua “popolazione”, ma quest’ultima non è un blocco omogeneo; in essa, certamente, vi sono gruppi dominanti che, in reciproco contrasto di inte-ressi specifici, tentano di imprimere alla politica dell’intera formazione un determinato orientamen-to piuttosto che un altro. Spesso, all’interno di una data formazione (quindi nell’ambito della sua specifica popolazione) si formano blocchi sociali “coagulatisi” attorno a certi gruppi dominanti e sotto la loro direzione; gruppi di cui il blocco sociale costituitosi rappresenta una sorta di “cintura di sicurezza”, una serie di “contrafforti” che difendono la “roccaforte centrale”. Altre volte, non esiste un vero blocco sociale; dati gruppi dominano, e si scontrano per il predominio, approfittando della disgregazione del tessuto “nazionale” e attuando – ogni gruppo con sue particolari modalità e obiet-tivi – la politica del divide et impera.
Credo che oggi in Italia siamo vicini a quest’ultima situazione; d’altronde, mi sembra sia la si-tuazione tipica di un paese che ha largamente perso in autonomia, per cui i suoi gruppi (sub)dominanti si alleano e/o si scontrano fra loro sempre appoggiandosi, con manovre varie, ai gruppi (pre)dominanti della formazione particolare che ha in quella certa epoca la preminenza; oggi si tratta ovviamente ancora degli Usa. Se la configurazione della formazione mondiale è in marcia verso una posizione di diverso “equilibrio” (anzi, diciamolo in termini più appropriati: di squilibrio) maggiormente spostato in direzione del policentrismo, il nostro paese, ove voglia difendere i suoi interessi “nazionali”, non dovrebbe più permettersi simile disgregazione. Sarebbe necessaria, onde sortire dalla prossima crisi in condizioni meno peggiori di altri paesi, la radicale sconfitta degli at-tuali gruppi dominanti (quelli che ho spesso indicati con l’espressione GFeID, grande finanza e in-dustria decotta, un coacervo di gruppi oggi non più solido e coeso come qualche tempo fa) e l’almeno iniziale formazione di un determinato blocco sociale.
La sconfitta della GFeID – non la si dia ormai per spacciata, è solo indebolita ma sempre vigile e pronta ad azzannare – passa per il contemporaneo scompaginamento di quel miscuglio di forze che fingono di rappresentare e difendere gli interessi del lavoro (contro il capitale). Si sottintende sempre il lavoro salariato, quale scadente succedaneo della ormai antica e superata “classe operaia”. In realtà, poi, si difendono pezzi di lavoro salariato privilegiato (si veda ad esempio tutta l’oscena vicenda di Alitalia) o i lavoratori del settore “pubblico”, abbarbicati a vantaggi (piccoli per carità) che comunque irritano altre (vaste) porzioni della popolazione, data la proverbiale inefficienza di tale settore nel nostro paese. Alcune frange presunte “radicali” si rifanno ancora ai lavoratori (ese-cutivi) dell’industria con mentalità e metodi di tempi remoti.
Tutta questa genia dovrebbe essere buttata al macero; se non si fa presto, saremo in gravissimo ritardo nell’epoca ormai apertasi e usciremo disfatti dalla crisi in atto. Dispiace certo che sia la de-stra ad attaccare i sindacati (oggi non tutti), ma si tratta di sfortunata coincidenza; perché anche una forza che intendesse promuovere la trasformazione in avanti del paese non potrebbe non porsi il problema di spazzare via questi “apparati burocratici di Stato” (con dirigenti inamovibili più ancora dei monarchi di alcuni secoli fa), una troppo pesante palla di piombo per poter muovere qualche passo.
Si è già detto: per la prossima fase storica, saranno più incisivi e forieri di trasformazioni impe-tuose i conflitti tra formazioni particolari; mentre i vecchi tipi di lotte sociali, che si continuano te-stardamente a voler promuovere, avranno effetti sempre più gravi e pericolosi in termini di tenuta della nostra specifica (“nazionale”) formazione particolare. Se la futura epoca, in cui siamo già en-trati, ha le caratteristiche ipotizzate, vecchi sindacati e vecchia sinistra (in particolare quella ancora rimasta alla “lotta di classe”, degradata però al presunto confronto capitale/lavoro) debbono essere il primo ostacolo da abbattere.
E’ bene perdere un po’ di tempo e di spazio al fine di evitare ogni equivoco. Fossimo in un’epoca pienamente policentrica, del tipo di quella dell’imperialismo tra otto e novecento, con il suo corteggio di grandi scontri mondiali tra formazioni particolari assurte al ruolo di grandi poten-ze, la situazione sarebbe diversa. Non a caso – in un contesto politico (e teorico) di quel genere, quindi del tutto diverso da quello odierno – Lenin fu l’unico del gruppo dirigente bolscevico ad af-ferrare subito l’inutilità dei “due tempi” della rivoluzione nella situazione (di “anello debole”) della Russia verso la fine della Grande Guerra; non aveva senso attendere il completamento della “rivo-luzione borghese” prima di organizzare e dirigere quella “proletaria”. Chi oggi si rifacesse a quei tempi, sarebbe sommamente ridicolo. Non è fra l’altro mai esistita effettivamente alcuna rivoluzio-ne proletaria; e lo affermo pur nutrendo la massima (e senza riserve) considerazione del grande av-venimento del 1917 e anche della (tanto denigrata) funzione del gruppo dirigente staliniano nell’opera pensata – ma non lo fu affatto in realtà – quale “costruzione del socialismo” (fu un’altra cosa ma egualmente grandiosa e i cui effetti si stanno manifestando più compiutamente proprio nell’epoca in apertura o forse già apertasi).
Inoltre, non sussiste adesso un pieno policentrismo; nemmeno siamo in presenza di un presunto Impero americano. Lo si è creduto per circa dieci-dodici anni; atteniamoci ora all’esistenza di una formazione mondiale, nel cui ambito una delle sue costituenti particolari è ancora decisamente più potente delle altre – non solo in termini militari; con grandissima probabilità, pure la crisi in atto, quando si “assesterà”, dimostrerà che gli Usa non sono “cotti” come pensano certuni – ma non rie-sce a costruire un vero Impero. I vecchi rimasugli di ideologie in disfacimento, che ancor oggi usa-no termini quali imperiale o imperialismo, seminano solo confusione. Siamo in una fase di “incam-minamento” verso il policentrismo, ma per alcuni decenni una formazione particolare (gli Usa) rappresenteranno ancora un centro più rilevante di altri; e tale configurazione mondiale impedirà scatenamenti di confronti generali per un regolamento dei conti in vista del passaggio ad una nuova epoca, caratterizzata da un più netto predominio di una potenza sulle altre (un’epoca cioè relativa-mente monocentrica).
E’ semplicemente ridicolo pensare attualmente a questo molto futuro monocentrismo; eppure al-cuni sedicenti (ex)marxisti si dedicano a indicare (e con quale certezza!) il futuro paese che domine-rà il mondo nel XXI secolo; prima erano sicurissimi sarebbe stato il Giappone, adesso la Cina. E-sercizi di rara inutilità, forse fatti in buona fede, ma che vanno combattuti in quanto distolgono l’attenzione dalla fase che si sta aprendo adesso (o forse già apertasi da qualche tempo, a nostra in-saputa). Basta con gli infantilismi di certi intellettuali, ben pagati e i cui libri vengono stampati e distribuiti (e tradotti in più lingue) perché, ne siano o meno consapevoli gli autori, servono mirabil-mente a distogliere forze da una serrata critica alle forze più reazionarie, del tipo della nostra GFeID. Non faccio i nomi di questi autori fasulli, ma sono perfettamente leggibili in quanto ho ap-pena scritto.

5. Se l’epoca che avanza è quella ipotizzata, ha forse senso pensare a grandi rivolte (vere rivolu-zioni) dei dominati? Lasciamo perdere quei “poveretti” che ancora agognano rivoluzioni “comu-ni(tari)stiche”. Se si divertono in questo modo, perché distoglierli dai loro giochi? In fondo l’infanzia è – o si dice essere – un’età felice nella sua incoscienza di quanto capiterà una volta dive-nuti adulti. Noi, che pensiamo di essere almeno un po’ maturati, non ci metteremo a predicare il “salto” delle diverse tappe, come fece Lenin nel 1917. Nemmeno però sosteniamo il completamento di una qualche rivoluzione dei dominanti. Si deve solo prendere atto che, in un’epoca quale dovreb-be essere la presente, il conflitto tra formazioni particolari per i loro interessi “nazionali” diverrà viepiù mobile e dinamico, e sovrasterà gli altri conflitti. Dal primo sta derivando quello sviluppo ineguale (delle varie formazioni in questione), che potrebbe poi sfociare in un loro confronto gene-ralizzato per la supremazia; in ogni caso, verrà rimessa con netta radicalità in discussione la relativa preminenza che una formazione particolare (gli Usa) mantiene tuttora, nell’attuale fase, rispetto alle competitrici.
L’Italia non ha certo i titoli per divenire una delle potenze che, in un futuro non prossimo, gio-strerà per la supremazia globale; a quell’epoca, si formeranno probabilmente blocchi di alleanze, e il nostro paese sarà all’interno di una di esse. Non ci interessa però simile problema, un autentico “futuribile”. In questo periodo bisogna sfruttare al massimo le potenzialità presenti per muoversi nell’ambito del prossimo, chiamiamolo così, policentrismo imperfetto, un policentrismo in cui un polo sarà più espanso, più denso, dotato di maggior forza proiettata sia all’interno che verso l’esterno. Tale polo dovrà però fare i conti con le strategie competitive degli altri. La conflittualità, come sopra rilevato, si svilupperà in modo speciale tra formazioni particolari; tuttavia, ognuna di queste si aprirà a più ampie prospettive di successo in base alla coesione interna, che non significa però, è stato già chiarito, la presenza di una popolazione compatta ed omogenea. La stratificazione e segmentazione sociali permangono e si accentuano, così come la tensione tra gruppi: a volte centri-peta a volte centrifuga, a volte cioè comportante alleanze tra di essi, altre volte la reciproca lotta.
La formazione italiana ha l’aspetto dell’“anello debole”; non certo in senso leniniano poiché l’epoca è tutt’affatto diversa. Si tratta di una società abbastanza disgregata – anche in senso inter-regionale – poiché ancora dominata da gruppi sociali incapaci di vera egemonia, di costituzione di blocchi sociali. Gruppi fondamentalmente arretrati, di una passata stagione industriale, sempre pronti ad essere inglobati e orientati dallo “straniero”, da altre formazioni più coese e forti, prima fra tutte quella Usa. Se la finanza di questo paese ha dato dimostrazione di espandersi fuori control-lo, e tuttavia in base ad interessi strategici predominanti, figuriamoci che cos’è la nostra. Sorvolia-mo in questa sede. Nemmeno mi soffermerò qui sulla stagione delle privatizzazioni – iniziata dopo la bella impresa di mani pulite che distrusse il regime in buona parte poggiato sull’industria di Stato – portate avanti soprattutto da personaggi di sinistra, in piena combutta con le destre liberalizzanti, soprattutto finanziarie e confindustriali. Questa è una storia che va trattata a parte.
La crisi complica il quadro dei possibili cambiamenti politici in Italia, pur se potrebbe aprire lo-ro nuove prospettive. Tuttavia, lo scopo di questo mio scritto non è quello di vaticinare, né di pro-pugnare svolte politiche appropriate, che al momento in effetti non si vedono; nemmeno si avverte la formazione di soggetti politici adeguati allo scopo. Voglio semplicemente fare qualche ipotesi su ciò che sarebbe necessario avvenisse per porre le basi di un futuro, non immediato in una situazione di crisi come l’attuale, rafforzamento della formazione Italia. Innanzitutto, ribadisco che l’ostacolo fondamentale da abbattere è l’attuale assetto politico fondato sul gioco degli specchi tra destra e si-nistra, pur se ritengo soprattutto quest’ultima l’elemento primo della profonda degenerazione del tessuto sociale italiano, pervaso da vasti processi dissolutivi connessi al “politicamente corretto” che inocula gravi elementi di disfacimento tramite il lassismo e permissivismo anarcoidi, l’antimeritocrazia, la difesa di piccoli privilegi del “lavoro protetto” (da sindacati burocratizzati e corrotti) che consentono poi – tramite la cosiddetta concertazione tra le parti sociali – il dilagare di quelli, ben più consistenti, della GFeID, cioè di tutta la parte più arretrata dei gruppi dominanti, i più legati all’influenza statunitense.
Scarsa rilevanza hanno i gruppetti sempre più sparuti della sinistra detta “estrema”, ivi compresi quelli sempre in vena di mimare disgustosamente i rituali del comunismo novecentesco, che già a-veva ben poco a che fare con quello pensato da Marx, essendosi risolto solo in una forma di statali-smo hard: sia pure con effetti positivi ma non certo comunistici in alcun senso del termine. Tali gruppetti, in una situazione di possibile decomposizione sociale a causa di una crisi magari più gra-ve del previsto, possono comunque svolgere un ruolo molto negativo, provocando una reazione di rigetto e di “volontà di risanamento” tale da fornire argomenti e popolarità a svolte effettivamente autoritarie; altro che quelle in atto secondo questi dementi sempre in prima linea a strillare “al lupo” credendo così di conquistare consensi: non si capisce bene di chi salvo che degli scervellati come loro, disadattati e spostati, sempre pronti alla “manifestazione”, privi di un progetto qualsiasi, di una analisi minimale della fase attuale – essi vivono ancora negli anni ’50 del secolo scorso, i più “mo-derni” arrivano fino al ’68 e ‘77 – con sempre in bocca un “comunismo” o un “movimentismo” fine a se stessi. Continuando così, a qualcuno potrebbe venire in testa di seguire i consigli di Cossiga: lasciarli, in estrema minoranza qual sono, creare ogni giorno caos e disagi crescenti che, uniti agli eventuali effetti della crisi, produrrebbero nella stragrande maggioranza della popolazione la richie-sta di mezzi appropriati per stroncarli e tornare alla “ragione”.
Se c’è, all’interno di simili bande di scalmanati, qualcuno in buona fede e sensato, si deve essere pronti al dialogo; ma questi è pregato di pensare al nuovo che avanza, senza più attardarsi in inattua-li e inattuabili progetti “comunistici” (quelli novecenteschi fra l’altro, diversi da quelli di Marx, co-munque battuti dalla storia) né crogiolarsi in stupide e arcaiche progettazioni presunte anticapitali-stiche, quando si tratta innanzitutto di capire con quale capitalismo – anzi capitalismi – si ha a che fare al presente; e in quale fase di ripresa graduale della lotta tra questi ultimi ci si trova.

6. La crisi rende il nostro paese ancora più debole, tra un Governo assai meno decisionista di quanto vuol apparire e un’opposizione che non ha idea alcuna. Occorrerebbe in realtà un autentico cesarismo (altro che quello di cui viene accusato il Premier). Un cesarismo però capace di attuare misure strategiche pur nella situazione di crisi; anzi in un certo senso approfittando della stessa. In realtà, non vi è alcuna forza politica che sfugga alla banale tesi della crisi dovuta alla debolezza del-la domanda e al fatto che non viene combattuto in modo deciso il pessimismo della gente e la ten-denza a spendere meno; ma perché si ha da spendere sempre meno, salvo una minoranza, non piccola, che sciala. Il governo decide di dare qualcosa in più ai meno abbienti affinché accrescano i loro consumi; se saranno intelligenti, cercheranno invece di accantonare qualcosa per i tempi grami che tutti preannunciano. L’opposizione vorrebbe che si desse ancora di più; inoltre sciopera e crea ulteriore caos e perdita di produttività per difendere una spesa pubblica del tutto inefficiente e piena zeppa di effettivi “sprechi” (basti pensare a quelli sempre sussistenti nell’apparato scolastico-universitario e in quello sanitario); dove per “spreco” si intende anche una spesa corrente (spesso per personale in esubero) che assorbe quasi tutto l’ammontare della stessa.
Del resto, anche la Confindustria brontola, ritiene del tutto insufficienti le misure anticrisi e vor-rebbe una politica diversa, antifiscale, ecc. Tuttavia, mi sembra che in definitiva si chiedano aiuti “a pioggia”, non diversificati, non legati all’effettiva ristrutturazione del sistema produttivo italiano onde renderlo più competitivo come si ripete ogni secondo momento. Nessuna competitività effetti-va è possibile in base ad una semplice riduzione di costi – trattando l’imposizione come un costo – o con altri aiuti vari del tipo, ad esempio, di quelli chiesti dall’industria automobilistica, sempre fa-cendo appello al problema dell’occupazione che essa, con l’indotto che muove, dovrebbe assicura-re. Infine, come sostenuto più volte, non è sufficiente una maggiore efficienza economica delle im-prese, che solo in via presuntiva verrebbe ad accrescersi se aumentassero i profitti e se questi fosse-ro investiti nella produzione. Intanto, bisogna vedere di quali investimenti si tratta, in quali settori – trainanti o meno, modernizzatori dell’intero sistema o meno – verrebbero effettuati. Inoltre, si tra-scura, come fanno tutti gli economi(ci)sti, il problema dell’efficacia della politica svolta con riguar-do all’intero paese (la “nazione”, con tutte le cautele indicate nell’uso del termine), la cui più o me-no presunta competitività ci si ostina a riferire al mercato globale, non tenendo invece conto del confronto più complessivo con gli altri paesi, con le altre formazioni particolari.
E’ un periodo in cui si fanno a livello internazionale tanti bei discorsi di cooperazione comune, di accordo nel prendere le misure anticrisi. Questo è atteggiamento di facciata, sempre per la pere-grina convinzione che ci si difenderebbe dalla crisi infondendo ottimismo. In realtà, ognuno cerca di adattare a sé le varie misure; e non è atteggiamento sbagliato perché ogni formazione ha strutture sociali e produttive particolari, con specifiche esigenze, che ben difficilmente possono essere sacri-ficate ad un beneficio generale soltanto propagandato, dato che la crisi, grave o meno che sarà, farà il suo decorso alla faccia dei vari tentativi di evitarla, addomesticarla, aggirarla. E’ necessario parte-cipare invece alla giostra delle varie alleanze e conflitti che si va aprendo e sarà via via più variata. Oggi come oggi, occorrerebbe ad esempio una politica estera nettamente orientata ad est, ma al momento soprattutto verso la Russia e – ostacolo insormontabile finché durano gli attuali assetti po-litici (non solo governativi) – verso l’Iran. E non per l’importante, ma tutt’altro che risolutiva, que-stione degli approvvigionamenti energetici (fra l’altro siamo in fortissimo ritardo riguardo alla que-stione dell’atomo), bensì per l’apertura di, certo soltanto parziali, zone di influenza verso est e sud-est (e nord Africa); è ovvio che dovremo condividere con altri tali zone, ma almeno ci piazzeremmo in posizioni abbastanza favorevoli.
La politica estera non è però sufficiente, se non si ritrova una politica interna di riaggregazione sociale, che non può riguardare l’intera popolazione e l’intera struttura produttiva. Le scelte priori-tarie – anche per l’aumento di quel minimo di potenza indispensabile alla politica estera – debbono essere nella direzione della sconfitta della GFeID, con le sue forze politiche di destra e sinistra d’appoggio, affidando invece un ruolo trainante alle poche grandi imprese di punta che abbiamo, le uniche in grado di creare realmente una nostra specifica capacità di penetrazione (senz’altro parzia-le) nelle suddette zone di influenza; a patto però che contribuiscano pure al rinsaldarsi della nostra struttura socio-produttiva complessiva, quella che attribuisce efficacia al complesso “nazionale” co-stituito dal nostro paese, dalla nostra formazione particolare.
E’ ovvio che non si tratta di alcuna “rivoluzione sociale”; preconizzarla nell’attuale fase storica è da dementi o provocatori. Si deve pure demolire quello stupido spirito antimilitarista per cui ad esempio la nostra Finmeccanica viene contrastata da certa sinistra in quanto produce “armi”; produ-ce ben più di questo, è – o potrebbe essere, perché oggi non è probabilmente utilizzata in tale sua funzione – utile all’avanzamento di molti nostri settori produttivi. La stessa finanza, se fosse piegata all’appoggio di date strutture produttive, svolgerebbe una ben diversa funzione e non verrebbe la-sciata libera nelle sue manovre “avventuriste”, di completo distacco dall’economia detta reale, con stravolgimento della stessa. In effetti, un conto è detto avventurismo finanziario nel paese premi-nente centrale, dove comunque sono attuate strategie di predominio; ben altri effetti esso ha nei pae-si resisi subordinati al centro, nei quali viene indebolita l’intera struttura socio-produttiva. E chi non riuscirà ad almeno attenuare tale stato di subordinazione, uscirà dal periodo di crisi in condizioni peggiori.
Una “testa” deve avere però un “corpo” che la coadiuva; e se poi, nel coadiuvarla, esso contri-buisce pure a far nascere “nuovi pensieri”, tanto meglio. In un paese capitalistico avanzato, soprat-tutto con la specifica struttura socio-produttiva del nostro, non si sarà mai in presenza di una forma-zione particolare con caratteri “nazionali” se non si stabiliscono interazioni positive tra il lavoro dipendente (salariato) e quello denominato “autonomo”, che non credo corrisponda a quelli che un tempo i piciisti indicavano quali ceti medi produttivi. Il lavoro autonomo, così come del resto quello salariato, non è un blocco unico e non corrisponde al concetto (ripostiglio) di ceto medio. Sia pure con terminologia approssimativa, è meglio indicarli entrambi con il termine di blocchi lavorativi: stratificati tuttavia al loro interno secondo settori alti, medi, bassi. Il lavoro salariato degli strati bas-si non è semplicemente costituito da quella che potrebbe essere definita, in termini soltanto sociolo-gici, “classe” operaia, che ne è soltanto una parte. Il lavoro autonomo degli stessi strati meno che mai può essere assimilato ai contadini poveri del tipo, ad esempio, di quelli della formazione sociale russa nei primi decenni del novecento.
Occorre un’analisi, ma anche una concreta politica – condotta da ben altre organizzazioni rispet-to a quelle attualmente esistenti – per stabilire quali sono i lavoratori salariati medio-bassi che do-vrebbero costituirsi in blocco sociale con quelli autonomi degli strati corrispondenti; blocco che rappresenterebbe appunto quel “corpo” in grado di coadiuvare la “testa” – i nostri settori (certo ca-pitalistici) d’avanguardia, quelli di punta – nel dare unità “nazionale” alla nostra formazione parti-colare, sconfiggendo e stabilendo una chiara egemonia (o anche supremazia dotata di buone dosi di coercizione) nei confronti della GFeID e degli strati alti dei due tipi di lavoro (dipendente e “auto-nomo”).     
L’unico partito politico che oggi, in qualche misura, sembra avere la possibilità di far interagire tra loro i due suddetti tipi di lavoro è la Lega, che tuttavia ha, a mio avviso, delle caratteristiche e-stremamente negative. Intanto, non vi è nella sua politica nessuno sforzo di analisi e di differenzia-zione tra gli strati medio-bassi e quelli alti dei lavori in questione. Inoltre, ancor più grave, è una forza con insediamento geografico regionale, che tenderebbe a rompere – malgrado certi improvvi-sati e raffazzonati raccordi con alcuni parziali movimenti meridionali – l’unità della “nazione”; con ciò rischiando di consegnarci ad ulteriori subordinazioni, in specie nei confronti dell’area tedesca. Infine ha una politica estera decisamente disastrosa, sia antirussa che islamofoba (e antiaraba in ge-nerale), che vanificherebbero proprio i migliori atouts che l’Italia ha verso aree di possibile buon allargamento delle nostre zone di influenza.
Purtroppo, al momento – di fronte all’impasse e intrinseca debolezza e divisione degli schiera-menti maggiori di sinistra e di destra, debolezza che credo si accentuerà con la poco felice scelta di unire F.I. e An – l’unica forza piuttosto coesa, e che per la verità implica in qualche misura il supe-ramento dell’ormai vetusta divisione tra destra e sinistra, è appunto la Lega. Da qui derivano ulte-riori pericoli di disgregazione del nostro tessuto “nazionale”. Se a questa debolezza, per certi versi strutturale, si aggiungono le azioni puramente sfasciste dell’Idv (una forza di chiara provocazione che vorrebbe ripristinare i nefasti giustizialisti di mani pulite, probabilmente con intenti assai simili a quelli di allora, ma in una situazione assai mutata), l’opposizione da “tanto peggio tanto meglio” del Pd, la pura vena anarcoide e pre-politica di movimenti di “estrema” sinistra – il tutto “condito” con i comportamenti della Cgil, anch’essi torbidi, contrari agli interessi più complessivi del paese – abbiamo un quadro delle disastrose condizioni politiche dell’odierna Italia. Personalmente, non cre-do se ne potrà uscire con le misure dette “democratiche”. O il paese si disgregherà completamente oppure, prima o poi, sarà effettuata un’azione di forza per ridare quel minimo di coesione e incisivi-tà alla politica “nazionale”, sia interna che estera. Con tutti i pericoli del caso, perché solo un indo-vino saprebbe prevedere quale soluzione “uscirebbe dal cappello” in una simile eventualità.

7. Ho voluto delineare, sia pure all’incirca, un quadro del momento presente, così come esce dalle ipotesi che mi sento in grado di fare. A partire da tale schizzo disegnato, credo sia possibile cominciare a pensare al riempimento di alcune aree dello stesso. Abbandonando però del tutto la vecchia mentalità della destra e della sinistra; e soprattutto trattando con la massima asprezza coloro che insistono avventuristicamente e infantilmente a predicare certi miti: il comunismo (non di Marx; e il comunitarismo è in definitiva un suo surrogato abbastanza scadente), l’antimperialismo d’antan, il terzomondismo, l’altermondismo. Tutte ideologie da “spazzatura della Storia”. In questa buttiamole e dedichiamoci, prima che sia troppo tardi (anzi, per la verità, presumo che siamo già “fuori tempo massimo”), ad una seria riflessione politica sulla fase attuale, con l’elaborazione dei “primi nuclei” di un nuovo pensiero teorico; per quanto mi riguarda, ricercati in base al ripensamen-to e riformulazione della mia pregressa formazione (il marxismo), ma senza preclusioni in altre di-rezioni purché non siano la semplice caricatura – e dunque grave peggioramento – di quelle vec-chie, ormai marce e decrepite.