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Passare ad visione qualitativa della vita, significa piantare alberi per il futuro

di Francesco Lamendola - 04/12/2008


Figli della civiltà del «benessere», cresciuti a Nutella e televisione, molti di noi hanno completamente smarrito il senso delle cose importanti della vita e corrono dietro a sciocchezze assolutamente ridicole, scambiandole per questioni essenziali.
È il trionfo della quantità sulla qualità, del «paghi due e prendi tre», anche se tre non ti servono, e neppure due; e forse, a guardar bene, non ti servirebbe nemmeno uno.
Ormai, per molte persone il modo di vedere quantitativo è divenuto come una seconda pelle, una seconda natura, da cui non immaginano neppure di poter uscire - ammesso che siano disposte ad ammettere che ciò costituisce un problema.
Così, avere due automobili è meglio che averne una, e cambiarsi d'abito tutti i giorni è meglio che avere tre o quattro vestiti nell'armadio, per l'intera stagione; anche se tutto quello sfoggio di capi d'abbigliamento non fa che mettere in risalto la dozzinalità del gusto, l'assoluta mancanza di personalità, la volgarità e la pacchianeria di chi li indossa.
Avere una professione o un mestiere che facciano guadagnare cinquemila euro al mese è meglio che averne degli altri, che ne fanno guadagnare milleduecento; anche se sono professioni o mestieri che non piacciono, che non soddisfano, che sottopongono a uno stress e a una frustrazione quotidiani; anche se, poi, bisogna spendere dal medico, dal farmacista o dallo psicologo una bella fetta di quel denaro, per affrontarne gli effetti negativi.
Per una donna, poi, avere la sesta misura di seno è certamente meglio che avere la prima: ciò le  permette di paragonarsi a qualche bellona siliconata del grande o del piccolo schermo, a qualche oca dei concorsi di bellezza o a qualche velina sculettante dei rotocalchi di gossip. E avere delle gambe chilometriche è certo meglio che averle di misura normal; anzi, non è mai abbastanza: bisogna pure indossare tutto il giorno quei vertiginosi tacchi a spillo che torturano le caviglie e fanno la delizia dei fisioterapisti, interpellati per cercar di riassestare colonne vertebrali irreparabilmente compromesse.
Per quanto riguarda la vita in generale, infine, va da sé che campare cent'anni è meglio che fermarsi a settanta; certo, l'ideale sarebbe l'immortalità fisica, e la scienza ci sta già penando e provando da un bel pezzo; ma, intanto, bisogna sapersi accontentare.
Secondario è come si sta vivendo la propria vita; secondario è se si sta vivendo davvero la propria vita, o se si sta - semplicemente - scimmiottando quella di qualcun altro, magari di qualche squallido vip televisivo. Secondario è anche sentirsi soddisfatti di sé, di ciò che si è, di ciò che si fa, pur non cessando di interrogarsi su quanto si potrebbe fare per scorgere con più chiarezza l'essenziale, per sbarazzarsi di tutta la zavorra del falso ego e delle ingannevoli sirene che ci allettano con miraggi di felicità.
Già; si vuole vivere tanto; si vuole vivere a lungo.
Anche se, poi, non si ha neppure la dignità di saper invecchiare e si ricorre a ogni espediente della chirurgia estetica per simulare una giovinezza che è trascorsa da un pezzo; per celare le rughe e tentar di rinvigorire le carni ormai flaccide e cadenti; per sparare in faccia agli altri una pretesa di seduttività che si è fatta ormai patetica, se non grottesca.

Ecco come il filosofo Lucio Anneo Seneca la pensava al riguardo (Seneca, «Lettere a Lucilio», XV, 93; traduzione italiana di Giuseppe Monti, Milano, Rizzoli, 1966, 1974, pp. 337-39):

«…Ogni giorno noi facciamo il processo al destino: "Perché quello è stato rapito quando più la vita gli sorrideva? E perché non è capitato a quell'altro? Perché di prolunga quella vecchiaia che è di peso a se stessa e agli altri?". Ora io ti chiedo: ti sembra più giusto che tu obbedisca ala natura o che la natura obbedisca a te?
Del resto, che importanza ha uscire più o meno presto da un corpo da cui si dovrà comunque venir  fuori? Non dobbiamo preoccuparci che la vita sia lunga, ma che sia piena; poiché una vita lunga dipende solo dal destino, ma dipende dalla volontà se la vita è piena. E, se è piena, la vita è anche lunga. Si ha pienezza di vita quando l'anima ha ripreso possesso del bene che le spetta e non dipende più che da se stessa. Che giovano a quell'uomo ottant'anni passati senza fare niente?  Costui non è vissuto, ma si è attardato nella vita; né è morto tardi, ma ha impiegato molto tempo per morire.  Quell'altro è morto nel vigore delle sue forze: lui, almeno, ha compiuto i suoi doveri di buon cittadino, di amico e di figlio affettuoso: non è stato manchevole sotto nessun aspetto. Se non è giunto al termine della sua età, ha avuto una vita piena. L'altro ha vissuto ottant'anni: no, ha vegetato per ottant'anni, a meno che tu non intenda che è vissuto come si dice che le piante vivono
Ti scongiuro, caro Lucilio, facciamo in modo che la nostra vita, come ogni oggetto prezioso, valga più per il suo peso che per il suo volume. Misuriamola non secondo la sua durata, ma secondo le opere che realizziamo. Vuoi sapere che differenza passa fra uno spirito virile che disprezza la fortuna  e che, dopo aver compiuto tutti i suoi doveri di uomo, ha conosciuto la vera felicità, e l'uomo che ha lasciato passare nell'inerzia i suoi anni? L'uno esiste anche dopo la morte, l'altro ha cessato di vivere prima di morire. Onoriamo, perciò, e annoveriamo fra le persone felici colui che ha saputo fare buon uso di quel po' di tempo che gli è toccato.  Egli ha conosciuto la vera luce: non è stato uno dei tanti:  ha vissuto da forte. Talvolta ha goduto il cielo sereno; talvolta, come avviene di solito, ha visto i raggi del sole risplendere fra le nuvole. Perché ti chiedi quanto tempo ha vissuto? Egli vive ancora: è passato con un balzo ai posteri e ha lasciato un ricordo di sé.
Se mi fossero dati in aggiunto altri anni di vita, non li rifiuterei; ma  durò che ho conosciuto intera la felicità, anche se la mia esistenza è stata abbreviata.  Io non ho adattato i miei programmi di vita a quel giorno che un'avida speranza  mi aveva promesso come termine della mia esistenza;  non c'è giorno che io consideri come ultimo. Perché mi chiedi quando sono nato o se sono ancora nell'elenco dei giovani soggetti alla mobilitazione? Ho ricevuto la mia parte. Come in un corpo di piccola statura può trovarsi una personalità perfetta, così anche in un mediocre spazio di tempo la vita può essere perfetta. La durata della vita fa parte  delle cose esteriori: non dipende da me. Dipende da me vivere con pienezza tutto il tempo che mi è stato assegnato.  Quello che mi si deve richiedere è di non trascorrere i miei anni nell'ignavia  e nell'oscurità e di dare un indirizzo alla mia esistenza, senza lasciarmi travolgere dagli eventi.
Vuoi sapere qual è la vita più lunga? Quella che si conclude in saggezza. Chi la raggiunge, tocca la meta non più lontana, ma più alta. Egli può essere orgoglioso e ringraziare gli dei, fra i quali si è collocato per suo merito e per merito della natura. Ad essa egli restituisce una vita migliore di quella che aveva ricevuto; e, perciò, è ben giusto il suo orgoglio. Egli ha fornito un esempio di virtù, ha mostrato le sue qualità e la sua grandezza: se gli fosse concesso maggior tempo, continuerebbe a vivere come è sempre vissuto? Tuttavia per quale scopo viviamo ancora? Ormai abbiamo goduto della conoscenza della natura: sappiamo quali siano le origini, come essa regoli il mondo, per quali vicende rinnovi l'anno, in che modo abbia racchiuso tutte le cose esistenti, facendo di sé confine a se stessa. Sappiamo che le stelle si muovono per proprio impulso e che, esclusa la terra, nulla è fermo, ma tutto corre senza interruzione. Sappiamo come la luna oltrepassi il sole e perché e lo lasci indietro, pur essendo di lui meno veloce;  come riceva la luce e come la perda; quale sia la legge che regola il succedersi del giorno e della note. Non resta che andare là dove queste cose potranno vedersi più da vicino.
Tuttavia, aggiunge chi è saggio, io non abbandono la vita più serenamente solo perché  ho la speranza che mi si apra la strada per tornare nella divina sede.  Ho meritato di essere accolto dove sono già, perché fin d'ora il mio spirito si è sollevato verso gli dei, come il loro spirito è disceso in me. Ma anche se l'esistenza mia, come quella di ogni essere umano, si dissolvesse nel nulla, e dovessi morire per non passare in nessun altro luogo, sento di avere un'anima ugualmente grande...»

Così parlava un romano dell'età di Nerone che, dopo una brillante carriera politica, si era ritirato  dagli affari pubblici per affrontare una radicale scelta esistenziale, capace di mettere la vita al riparo dal pericolo della dispersione e dell'alienazione e di riconciliarla con se stessa, di ricompattarla, di ridarle splendore, dignità e significato, al di là di tutte le vicissitudini esteriori: ora liete e piene di lusinghe, ora avverse e drammatiche.
C'è una frase, soprattutto, che vorremmo evidenziare in questo brano: «Si ha pienezza di vita quando l'anima ha ripreso possesso del bene che le spetta e non dipende più che da se stessa.»
Una riflessione così acuta e penetrante, così sobriamente essenziale, che vale da sola un intero trattato di filosofia.

Tuttavia c'è anche un altro ordine di ragionamento, in base al quale dovremmo riappropriarci di una visione qualitativa della nostra vita, tale da rendere a quest'ultima freschezza ed entusiasmo, al di là del pensiero della nostra morte individuale.
Alludiamo al nostro debito nei confronti delle generazioni future e, più in generale, del progetto cosmico di cui facciamo parte e cui siamo stati chiamati a collaborare.
Così come noi non viviamo solamente per noi stessi, ma anche per gli altri  - cioè per essere, come dice Seneca, dei buoni  cittadini per la società, dei buoni amici per i nostri amici, dei buoni figli per i nostri genitori, e così via -, ugualmente noi non moriamo solamente per noi stessi, ma anche per gli altri: per lasciare a chi verrà dopo i frutti del nostro lavoro, della nostra rettitudine, della nostra bontà e intelligenza.
Come dice Cecilio Stazio (nei «Synephebi», di cui non ci è rimasto che un frammento): siamo chiamati a piantare un albero che farà ombra ad altre generazioni.
Cicerone, nel «Cato Maior de Senectute», VII, 24, esprime questo concetto in maniera semplice, ma efficace (Cicerone, «L'arte di invecchiare», traduzione italiana di Bartolomeo Rossetti, Roma, Newton Compton, 1994, p. 47):

«E poi per lasciar da parte queste divine inclinazioni, posso nominare i contadini romani della campagna sabina, miei vicini ed amici, che, senza di loro, nei campi non si farebbe quasi nessun lavoro di quelli importanti; non si seminerebbe, non si raccoglierebbe, non si riporrebbero i frutti della terra. Benché per loro questo è meno sorprendente: nessuno infatti è tanto vecchio da non credere di poter vivere un altro anno; ma loro si dedicano anche ad altri lavori, che sanno bene non riguardarli:
"Lui pianta alberi, che saranno utili a un'altra generazione"
come dice il nostro Stazio nei "Sinefebi"». E invece il contadino, per quanto sia vecchio, non esista a rispondere a chi gli chiede per chi semina: "Per gli dei immortali, che non hanno voluto soltanto che io ricevessi tutto questo dagli avi, ma che lo trasmettessi anche ai posteri.»

E noi, che pensiamo sempre al modo di possedere più cose alla nostra vita, al nostro piccolo Ego; e che sappiamo dire sempre e soltanto: io, io, io: ebbene, per chi ci stiamo affaticando, noi, oltre che per il miserabile obiettivo di aggiungere qualche cosa in più al nostro sfrenato narcisismo e al nostro infantile egocentrismo?
«Serit arbores, quae alteri saeculo prosient»: vi sono una grande bellezza, una profonda saggezza di vita in questa semplice frase.
Noi non viviamo né moriamo solamente per noi stessi, ma anche per gli altri: la nostra vita e la nostra morte, con quello che lasceremo in eredità di bene e di male, sono il dono che noi facciamo alle generazioni future, che ne siamo consapevoli o no.
Se saremo vissuti solo per accumulare due o tre macchine nel garage o un centinaio di vestiti nell'armadio; se saremo vissuti solo per apparire fisicamente belli e seducenti; se non ci saremo preoccupati d'altro che di soddisfare ogni nostro capriccio e ogni nostro appetito passeggero, non lasceremo proprio nulla a quanti verranno dopo.
Se saremo vissuti cercando di realizzare, per la nostra anima, il possesso del bene che le spetta da sempre, allora qualche cosa lasceremo: un esempio, in primo luogo; e poi, forse, anche un mondo migliore.
Se riusciremo a lasciare un mondo un po' migliore - anche solo di pochissimo, anche solo di un pollice - rispetto a quello che abbiamo ricevuto da coloro che ci hanno preceduti nella vita, allora avremo adempiuto la nostra missione, saremo stati fedeli alla chiamata.

Vorrà dire che avremo piantato almeno un albero, all'ombra del quale potranno riposare altri uomini  dopo il lavoro e potranno giocare altri bambini: bambini come lo siamo stati noi, quando giocavamo; uomini come lo siamo ora noi, quando lavoriamo.
Vorrà dire che avremo pagato il nostro debito con la vita, restituendo almeno in parte tutti i tesori che abbiamo ricevuto gratuitamente, al momento di nascere.