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Consumatori sudditi della pubblicità

di Bruno Laganà - 22/09/2005

Fonte: rinascita


Da quando Keynes ci ammoniva per la prima volta sui pericoli dell’eccesso del risparmio in un’economia capitalistica, sono passati oltre sessanta anni e quaranta da quando Marcuse mise sotto accusa il consumismo, ossia la tendenza della grande impresa capitalistica ad indurre comportamenti di spesa su oggetti e beni di scarsa utilità.
Entrambi questi autori e le “scuole” che da essi sono nate ci hanno indubbiamente insegnato molto, indicando con chiarezza i pericoli, uno di natura economica e finanziaria, l’altro di natura eminentemente sociale, che minacciano la crescita del mondo occidentale ed in definitiva del mondo nel suo complesso.
Il primo ci ha insegnato ad evitare le grandi crisi recessive, delle quali l’ultima fu appunto quella del ‘29, agendo soprattutto attraverso la spesa pubblica per mantenere ad un livello adeguato la domanda aggregata, composta, come noto, dalla somma dei consumi e degli investimenti pubblici e privati.
Il secondo, raccogliendo un’eredità che era comune a tutta la scuola di Francoforte, della quale egli fu il rappresentante più giovane, sottolineò come, nei paesi industrializzati, fosse in atto una omogeneizzazione delle classi sociali (l’uomo ad una dimensione) che aveva la sua dimostrazione, ma forse anche la sua causa, nei modelli di consumo.
La critica al “consumismo” che avrebbe trovato la sua diffusione di massa negli anni Sessanta, fu anche una critica al sistema capitalistico che avrebbe ucciso, attraverso la manipolazione pubblicitaria e l’omologazione delle coscienze, le diversità e quindi le possibilità di trasformazione e di risanamento della società.
Oggi, quando le ipotesi di una organizzazione diversa o alternativa della società occidentale vengono ovunque combattute e quando tutte le nazioni del mondo hanno accettato o stanno per accettare il turbo capitalismo con le sue degenerazioni di produzione e di distribuzione della ricchezza, le critiche dei due autori al capitalismo ed all’economia di mercato ci appaiono certamente sfocate ed in gran parte superate, anzi: il fatto innegabile è che proprio grazie ai correttivi “liberisti di facciata” messi in atto sotto la spinta delle loro analisi, l’economia di mercato ha sconfitto i sistemi ad economia centralizzata.
Se il crollo del muro di Berlino segna il crollo del comunismo, occorre rilevare che, a livello planetario, è stata l’economia di mercato a conquistare praticamente l’adesione di quasi tutti i governi del mondo, o con l’ampore o con la forza, con il metodo dell’export di democrazia (Serbia, Afghanistan, Iraq docunt.
Del resto, nel crollo dei regimi collettivisti dell’Est non si può negare che, fra gli altri fattori, abbia giocato un ruolo non secondario il desiderio di più ampi e liberi consumi. Si può facilmente immaginare che per le grandi masse di cittadini comuni, di città e di campagna, più della mancanza di libertà di stampa o di una opposizione politica istituzionale, il disamore verso i regimi collettivisti sia stato indotto dalla “coda” continua, quotidiana, spesso reiterata più volte al giorno, per l’acquisto, dopo estenuanti attese, di beni di consumo e di servizi essenziali, uguali per tutti e spesso di scadente qualità.
Da Lipsia a Pechino, da Varsavia a Maputo in ogni ora del giorno milioni e milioni di persone erano fisicamente ferme in lunghe code in attesa del loro turno per acquistare il pane, il latte, la carne, il riso per le necessità della famiglia mentre, contemporaneamente, le loro domande per essere ammessi a pagare l’automobile, il frigorifero, o una settimana di vacanza al mare, inserite in dossier ministeriali, sopportavano complesse e ben più prolungate attese.
Ciononostante, o proprio per questo…, nel mondo il 40% della popolazione continua a vivere sotto il livello della povertà e oltretutto in costante umiliazione perché tutte le società sono state suddivise in due nuove classi, quella di chi cavalca e guadagna con l’economia di mercato e la grande massa che è diventata la classe dei sudditi “ad una dimensione”, partecipata dal tecnico di Francoforte, dalla massaia del Wyoming, dall’operaio di Danzica e dalla dattilografa di Kiev.
Il mito del consumo coatto, che possiamo immaginare come una sovrana grassa, golosa, sorridente e prolifica, un po’ come la regina Vittoria, sta conquistando, armato come lei di tronfio cattivo gusto, ogni angolo del mondo, preceduto da due seducenti messaggere, procaci e discinte: la moda e la pubblicità.
Cancellieri e presidenti, generali ed ambasciatori, banchieri ed agenti di borsa sono, in determinate situazioni, utili e - alcuni ritengono - anche necessari, ma l’espansione e la supremazia della civiltà occidentale, se vuole continuare, deve affidarsi alla Coca Cola ed a McDonald, a Gian Carlo Ferrè ed a Chanel, a Bill Gates e ad Internet. Sono questi gli ambasciatori che raggiungono - possono raggiungere in forma concreta o virtuale le case di tutti i cittadini del mondo con ritmi quotidiani.
La macchina tritacarne opera dunque attraverso una pubblicità di massa, palese ed occulta, nei confronti dell’utilizzatore finale.
In tutte queste attività di promozione, la funzione, che è innanzitutto quella di far conoscere l’utilità del preparato, i suoi confini di applicazione e le controindicazioni, si perde nell’ansia di acquisire comunque nuove quote di mercato, di remunerare le spese sostenute per la ricerca, di accrescere i profitti.
Inoltre, instillata dai messaggi pubblicitari nelle menti dei “clientes”, la domanda di beni e servizi risponde sempre meno a necessità primarie ed il consumo non si rivolge a beni indifferenziati. Persino nel cibo, il più essenziale dei bisogni, il consumatore sceglie fra prodotti che soddisfano in diversa misura le sue esigenze di gusto, di igiene, di dieta, di comunicazione, di maggiore o minore facilità di preparazione, di conservabilità, di mode di volta in volta imperanti, di una propria affiliazione religiosa o di una adesione a movimenti protezionistici o conservatori, di conciliabilità con i propri ritmi e tempi di lavoro, ecc.
Al momento dell’acquisto o della scelta del consumatore, si sbiadiscono i confini fra beni necessari e beni superflui, persino nell’alimentazione. E’ noto che pochi comprano l’automobile soltanto in funzione della necessità di spostamento per un determinato carico, quanto anche in funzione del comfort, delle innovazioni tecnologiche incorporate, dell’effetto di ostentazione, del colore, dell’abitudine ad un marchio, della reazione personale ai messaggi pubblicitari, della conoscenza personale di un venditore, e così via. Anche nella scelta di un genere di prima necessità quale la pasta, agiscono tutta una serie di parametri che si accavallano nella mente del consumatore ed influenzano la sua decisione: la tenuta vera o presunta alla cottura, la forma, l’esposizione nel supermercato, l’immagine che le associa la pubblicità, le caratteristiche nutrizionali o di purezza biologica, la confezione, e così via. Si dirà che questa è la condizione del mondo occidentale evoluto e ricco che, caratterizzato dallo spreco, innalza tutti i prodotti ad un livello dove la scelta trascende il bisogno fisico elementare. Nel nostro mondo ogni bene, ogni servizio ha una valenza per dir così estetica, che racchiude una serie di messaggi complessi che indirizzano il consumo.
Ma anche nelle società più povere, anche a livelli di reddito molto bassi, il mercato tende ad imporre questi nuovi artificiosi consumi imponendo nuove regole ed anche nella savana africana la giovane donna sarà tentata di fare qualche risparmio per comperare (indirizzare la sua scelta verso) un vestito di foggia europea, l’uomo a preferire una birra di qualità, se non altro nelle grandi occasioni, ed entrambi a comperare per i figli almeno una bambola vestita come una principessina asburgica ed un automa di plastica giapponese.
Come già notò Hegel: “Quello che gli inglesi chiamano comfort è qualcosa di inesauribile ed illimitato. (... ) il bisogno di maggiore comfort non nasce (... ) dentro di te: esso ti è suggerito da coloro che sperano di trarre profitto dalla sua creazione”. Così sono sempre più i beni ed i servizi dei quali fruiamo ma che sono gli altri a scegliere.
Così i programmi televisivi, che rappresentano ormai una quota imponente di utilizzo del tempo libero per le famiglie, sono in realtà pagati dalle società che fanno pubblicità ai loro prodotti ed il fruitore finale (possiamo ancora chiamarlo consumatore?) si limita ad indicare, con gli indici di ascolto, i programmi ai quali affiancare più pubblicità.
In molte città d’Europa i concerti, le feste del paese, i festival di varia natura, i convegni scientifici e letterari, sono pagati, in parte o in tutto, dalla collettività e quindi non gravano o gravano solo indirettamente sulle tasche del consumatore finale. Lo stesso dicasi per i trasporti pubblici delle città europee, ma il discorso si può estendere ai prodotti che vengono associati gratuitamente od a prezzi molto contenuti ad altri beni, gadget e profumi nei settimanali femminili, libri, video, audio (e fra poco anche un panino preconfezionato per la colazione…) associati ai quotidiani, viaggi premio alle Seychelles per chi acquista un motorino o anche una scatola di biscotti, voli gratuiti a chi dimostra fedeltà ad una linea aerea ed altro ancora.
Il trionfo dell’inutile, della forma.
Che comporta una folle corsa in discesa verso il crollo finale.