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Perché tanta fretta e tanto radicalismo nella riforma liturgica del Concilio Vaticano II?

di Francesco Lamendola - 18/12/2008


 

Si ha l'impressione, studiando i documenti del Concilio Vaticano II e la ricca bibliografia esistente, oggi, sull'argomento, che vi sia qualche cosa di non detto, di sottaciuto, dietro la straordinaria rapidità, la mancanza di opposizione da parte dei "conservatori" e, soprattutto, la radicalità della riforma liturgica da esso operata, che fece piazza pulita - praticamente dall'oggi al domani - di riti e cerimonie consolidati attraverso una tradizione quasi bimillenaria.
Non si tratta, ovviamente, soltanto della soppressione del latino e della sua sostituzione con le lingue nazionali, o della nostalgia per i Vespri domenicali e altre cerimonie che hanno accompagnato la vita di generazioni e generazioni di credenti, improvvisamente gettate nel cestino della storia come fossero carta straccia.
No, non si tratta solo di questo; ma di qualcosa di molto, molto più profondo, che si esprimeva, sì,  attraverso riti e cerimonie, ma che investiva anche questioni religiose sostanziali, di cui l'abbandono dei "vecchi" altari e la comparsa dei nuovi, con l'orante rivolto verso l'assemblea dei fedeli e non verso il tabernacolo del Santissimo, non è stata che il segno esteriore, e tuttavia estremamente eloquente.
Infatti, a parte il danno irreparabile inflitto all'architettura di migliaia e migliaia di chiese e basiliche, molte delle quali antichissime e progettate in funzione prospettica dell'altare maggiore, in fondo al presbiterio, e non certo sul limitare di esso verso la navata, è come se si fosse voluto affermare che il vero protagonista del sacrificio eucaristico, cuore e ragion d'essere della messa, non è il rinnovarsi della presenza di Cristo sotto le specie del pane e del vino, ma - genericamente e un po' demagogicamente - l'assemblea dei fedeli.
In tal modo, la messa finisce di essere una cerimonia sacra nel senso specifico del termine, ossia un momento di rivelazione dell'Assoluto nel contingente e dell'Infinito nel finito, per divenire una cerimonia simile a una qualsiasi cerimonia profana, in cui è l'elemento umano a svolgere la parte principale, e non l'elemento soprannaturale dello Spirito Santo.
Parliamo, ovviamente - come è giusto che sia - dal punto di vista del credente, indipendentemente dalle nostre convinzioni in proposito, perché tale ci sembra il giusto approccio storico alla questione della riforma liturgica (e non solo di quella liturgica) introdotta dal Concilio Vaticano II. Se si vuol capire e valutare che cosa abbia comportato, per i credenti e per la Chiesa tutta, quella riforma, da quali motivazioni sia scaturita, quali ripercussioni abbia avuto - infatti -, non si può prescindere da ciò che un credente pensa delle forme della liturgia in rapporto con la sostanza della propria fede: tenendo sempre presente che la fede è, per il credente, una realtà che trae la propria origine dalla vita soprannaturale dell'anima, ossia dalla Grazia.
Altro sarebbe il discorso se ci ponessimo una questione riguardante il rapporto della religione cristiana con il mondo laico; invece, trattandosi di una questione tutta interna al cristianesimo stesso, anzi, tutta interna alla sfera della fede (la quale ultima si esprime attraverso le forme della religione, ma non si esaurisce certo in esse), ci sembra giusto e criticamente corretto adottare il punto di vista interno alla fede e non un punto di vista esterno ad essa e, magari - come oggi è tanto di moda nella cultura laica - sprezzante nei confronti di essa.
Naturalmente, la questione preliminare che dobbiamo chiarire è se la liturgia è solo e unicamente il rivestimento, per così dire, di una data religione come fatto organizzato; oppure se essa ne sia, più che la veste, la forma esteriore che assumono i suoi convincimenti più profondi, dai quali risulta difficilmente separabile.
Esistono, al riguardo, due scuole di pensiero, e non solo per ciò che riguarda la religione cristiana, né solo per ciò che riguarda le religioni cosiddette "superiori", ma anche per ciò che attiene alle religioni dei così detti popoli "primitivi". L'una, di matrice strutturalista e materialista, non vede nelle forme esteriori del culto che un insieme di simboli convenzionali, i quali possono venire cambiati di volta in volta, a seconda dell'evolvere delle circostanze storiche; l'altra, di tendenza spiritualista ed olistica,  tende a riconoscete nelle forme cerimoniali l'espressione di un contenuto di cui esse medesime entrano a far parte, proprio per il loro carattere sacro, che le distingue da ogni ordine di idee e di comportamenti di origine profana.
Ora, adottando il punto di vista interno alla cultura cristiana, così come ci siamo ripromessi di fare, risulta chiaro fin da subito che esso coincide con la seconda di queste due scuole di pensiero.
Ecco come si esprimeva in proposito il pontefice Pio XII (Pio XII, «Mediator Dei», in AAS, 39, 1947, pp. 521, 59):

«Non hanno una sacra nozione della sacra liturgia coloro i quali la ritengono come una parte soltanto esterna e sensibile del culto divino o come un cerimoniale decorativo; né sbagliano meno coloro, i quali la considerano come una mera somma di leggi e di precetti, con i quali la gerarchia ecclesiastica ordina il compimento dei riti»

Quanto al Concilio Vaticano II, esso ritiene la liturgia come il cuore e il vertice della vita della comunità cristiana (Costituzione «Sacrosanctum Concilium», articolo 7):

«Giustamente perciò la liturgia è considerata come l'esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo.  In essa, la santificazione dell'uomo è significata per mezzo di segni sensibili e realizzata in modo proprio  a ciascuno di essi; in essa il culto pubblico integrale è esercitato  dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra.
Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun'altra azione della Chiesa ne uguaglia l'efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado».

Dunque, come si vede, la liturgia è considerata dai credenti come tutt'altra cosa da un mero insieme di riti e cerimonie, più o meno esteriori; essa, al contrario, è «azione sacra per eccellenza, e nessun'altra azione della Chiesa ne uguaglia l'efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado».
Ma quali sono le sue finalità?
Sempre secondo la Costituzione «Sacrosanctum Concilium», all'articolo 10, i padri conciliari così si esprimono:

«… la liturgia è il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia. Il lavoro apostolico, infatti, è ordinato a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il battesimo, si riuniscano i assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al sacrificio e alla mensa del Signore
A sua volta, la liturgia spinge i fedeli, nutriti dei "sacramenti pasquali", a vivere in "perfetta unione"; prega affinché "esprimano nella vita quanto hanno ricevuto mediante la fede; la rinnovazione poi dell'alleanza di Dio con gli uomini nell'eucaristia introduce i fedeli nella pressante carità di Cristo e li infiamma con essa. Dalla liturgia, dunque, e particolarmente dall'eucaristia, deriva in noi, come da sorgente, la grazia, e si ottiene con la massima efficacia quella santificazione degli uomini nel Cristo e quella glorificazione di Dio, alla quale tendono, come a loro fine, tutte le altre attività della Chiesa».
E Antonio Mistrorigo, vescovo di Treviso, nel suo libro «Liturgia. Linee di fondamento teologico pastorale» (Vicenza, Favero Editore, 1970, p. 18), così definisce l'atto di culto nella prospettiva del documento conciliare sulla riforma della liturgia:

«In quanto poi proviene dalla virtù della religione, esercitata in atteggiamento di adorazione, di ringraziamento, di preghiera e di espiazione, raggiunge una finalità di salvezza e di santificazione. La liturgia realizza così quanto viene espresso in alcune orazioni sopra le offerte: "I tuoi misteri, o Signore, che noi offriamo ad onore della tua maestà (finalità latreutica), giovino alla nostra salvezza (finalità soteriologica).
Prestando a Dio il culto, riconosciamo dunque e proclamiamo il suo supremo dominio e la nostra umile sottomissione; ci incontriamo con Lui e troviamo in questo modo la sporgente della nostra santificazione.»

La liturgia, dunque, culmina nella messa; la messa è il mistero centrale dell'alleanza fra Dio e gli uomini; impossibile, pertanto, separare la liturgia dall'azione santificante della Grazia medesima; impossibile, in altri termini, distinguere in essa ciò che è soltanto umano e cioè che proviene dall'azione soprannaturale di Dio.
Chiariti questi concetti, torna - più pressante che mai - la domanda che ci eravamo posta  inizialmente: come mai tanta fretta, da parte dei padri conciliari, di "sbrigare" una riforma della liturgia che a molti è parsa eccessivamente radicale; come mai tanta determinazione, tanta lineare intransigenza; come mai tanta scarsità di dibattito?
E, interrogativo ancora più inquietante: come mai la riforma liturgica è la sola riforma conciliare che possa dirsi pienamente condotta a termine, fino alle sue estreme conseguenze, a costo di sconvolgere abitudini radicate e sentimenti non meno radicati della massa dei fedeli; mentre tutte le altre riforme del Vaticano II - dall'organizzazione e disciplina della Chiesa, al dialogo con le altre religioni e con la cultura laica, all'apostolato dei laici,  alla formazione sacerdotale, al rinnovamento della vita religiosa, sono rimaste - a giudizio di molti osservatori, se non tutti - a uno stadio di non completa definizione né, tanto meno, realizzazione?
Senza voler disconoscere gli elementi di novità, a volte anzi notevoli, presenti in documenti come la Costituzione dogmatica «Lumen gentium», come la Costituzione pastorale «Gaudium et Spes» o  come le Dichiarazioni conciliari «Nostra aetate» e «Dignitatis humanae», resta il fatto che l'unica riforma che ha finito per trovare concordi e decisi ad applicarla totalmente e rapidamente i padri conciliari è stata proprio la Costituzione «Sacrosanctum Conciulim».

Ci è sembrati che, su questo argomento, pagine interessanti siano state scritte dal vaticanista Carlo Falconi (nato nel 1915 e morto nel 1998), ordinato sacerdote nel 1938 e uscito dalla Chiesa nel 1949, autore di libri come «Leone X», «Storia dei papi e del papato», «Il Pentagono vaticano», «Il silenzio di Pio XII. Papa Pacelli e il nazifascismo», «Gli spretati, o del diritto all'apostasia» e «Ritrattazioni».
Non vogliamo discutere qui l'obiettività e la serenità di giudizio di Falconi in generale (e sulle quali esistono opinioni discordi), ma limitarci solamente alle pagine che egli ha dedicato alla questione che abbiamo deciso di trattare
Scriveva, dunque, Carlo Falconi nel suo voluminoso libro «Ritrattazioni» (Milano, Rusconi Editore, pp. 194-201):

«L'unica riforma conciliare che sia andata fino in fondo è senz'altro quella liturgica. Essendo stata anche la prima a essere affrontata dal Concilio e a venir promulgata (4 dicembre 1963, al termine della seconda sessione), si può ben dire che catalizzò, in un certo senso, su di sé più di ogni altra energie, propositi ed entusiasmo dell'assemblea, che si fece un punto di onore di realizzarli al massimo. Già durante il Concilio - e fu l'unico caso del genere - lo speciale "Consilium" deputato alla sua realizzazione varò il primo documento parziale della sua applicazione (la "Instructio prima", del 26 settembre 1964). E da allora ne seguirono parecchi altri: la "Instructio altera", del 4 maggio 1967, preceduta dall'istruzione sulla musica liturgica (5 marzo dello stesso anno), la "Iunstructio tertia" del 5 novembre 1970, preceduta a sua volta da quella sul culto del mistero eucaristico (25 marzo 1967), dal "motu proprio": "Paschalis mysterii" del 14 febbraio 1969 sul nuovo calendario liturgico, famoso soprattutto per aver deciso l'eliminazione di quarantaquattro santi e il declassamento di altri cinquantanove, ecc.
Il dibattito conciliare era stato estremamente vivace e avvincente: un'autentica manna per i cronisti, nonostante che esso coincidesse con il periodo più nero per loro, perché più avaro di informazioni ufficiali sui lavori assembleari. Del resto non mancarono neppure i nodi e i momenti drammatici in cui riformisti radicali e conservatori altrettanto intransigenti fecero le prime prove delle più gravi battaglie che nelle settimane successive avrebbero messo a repentaglio addirittura la prosecuzione del Vaticano II. Culminante fra tutte la discussione sulla limitazione del latino e sull'introduzione delle lingue native particolarmente nella celebrazione dei riti fondamentali (sacramenti). Né la pace tornò a Concilio concluso, anzi ogni nuovo documento d'applicazione della riforma scatenò nuovi e più forti contrasti. Nonostante ciò, la riforma liturgica proseguì senza tentennamenti, con ritmo sempre incalzante, anzi accelerato, dilatandosi fino a mettere completamente in luce il suo carattere globale e capillare insieme. E non c'è dubbio che, più che a un aggiornamento, con le sue laconiche disposizioni il Concilio aveva mirato a un'autentica rivoluzione che non doveva esimere alcun settore, da quello dei sacramenti e dei sacramentali a quello dell'ufficio divino, da quello dell'anno liturgico a quelli della musica e dell'arte sacra, fissando sia i criteri generali della riforma sia gli organi responsabili, i territori interessati, ecc.
Se nessun'altra riforma conciliare si rivelò in seguito altrettanto massiccia e organica, radicale e puntigliosa, nessun'altra - ed è uno dei suoi primati più originali - ha visto così decisamente impegnate le gerarchie centrali nel sostenerla e nel difenderla. Tutte le altre riforme potevano arenarsi, essere sospese, o venire addirittura accantonate. Niente di simile invece si verificò per la riforma liturgica, che pure era quella destinata a realizzare maggiori disorientamenti e sconcerti nella comunità ecclesiale, dato che incideva sui riti più tradizionali, sui costumi più inveterati, sulle tradizioni più sentimentalmente seguite dalle masse, anche se ormai sempre più "secolarizzate". È vero che in genere risultò che preoccupandosi o addirittura temendo le reazioni popolari, si era dato corpo alle ombre - anche le contestazioni più dure furono del tutto effimere- ma, appunto, questa fu la proverbiale saggezza del poi.
Fatto curioso, la prima constatazione di fronte alla quale si trovò la Chiesa non fu già quella di sinistra, ma di destra; senonché, sia perché minoritaria sia perché piuttosto altoborghese e aristocratica e soprattutto perché appoggiata all'intellighentsia estetista, essa non solo non spaventò ma non preoccupò nessuno, neppure quando cercò e trovò patetici consensi in ambienti della cultura laica notoriamente incredula se non anticlericale. Persino la curia dimostrò di considerare un disturbo le opposizioni di certi suoi grossi calibri ai quali l'abbandono del latino sembrava nientemeno che la caduta degli ultimi spalti della Chiesa. Tanto meglio, certo, anche per essa, se le cose rimanevano com'erano, specie per il latino; ma perché poi impuntarsi su questioni di nessuno o di scarso peso politico quando potevano essere molto utili nel baratto di concessioni su altri terreni, di importanza ben più sostanziale? Infatti nessun dicastero e ufficio curiale si schierò mai ufficialmente contro la riforma liturgica né nel suo complesso né in qualche suo obiettivo. Quanto poi a Paolo VI, è certamente significativo che egli non abbia mai manifestato, in materia di riformismo liturgico, quelle perplessità e quelle ansietà che lo contraddistinsero e lo contraddistinguono in ogni altra; e che, al contrario, si sia mostrato sempre favorevole e deciso nei suoi riguardi.
Ora, tutto ciò non può non stupire, tanto più che la riforma liturgica è stata sempre condotta avanti con uno zelo che non trova certo giustificazione nella crisi dei segni e dei simboli che caratterizza l'epoca moderna, profondamente razionalistica e tecnologica. Un'operazione di restauro come quella della riforma liturgica, sia pure realizzata attraverso lo sfoltimento di molti elementi ormai incomprensibili, non poteva minimamente interessare il mondo moderno, specialmente quello incredulo: se mai renderlo ostile. Certo si trattava di una questione del tutto interna alla Chiesa, ma se questa cercava veramente le simpatie del mondo, doveva scegliere tra l'eliminazione totale dei propri simboli o la loro conservazione come puri elementi di colore, e non tentarne una rianimazione e una rielaborazione fuori epoca.
Ma se la riforma liturgica non era certo tale da accattivare le simpatie degli estranei, neppure poteva presumere di entusiasmare e di convincere le grandi masse del mondo cattolico. Ho già detto che la popolarità non poteva essere il suo destino. Perché le classi popolari sono sospettose e diffidenti per ogni mutamento in tutto ciò che concerne costumi e tradizioni. Esse non amano che siano alterati i riti che hanno accompagnato i momenti più solenni e decisivi dell'esistenza dei propri padri e antenati - la loro nascita, la loro morte, le loro unioni matrimoniali, ecc. - o tutto ciò che riguarda la consacrazione religiosa di avvenimenti pubblici, lo svolgersi delle solennità nel calendario tradizionale, ecc.
Cosa anche più grave, toccare la liturgia è mettere un po' tutto in questione in una religione. La liturgia infatti è quell'involucro sacrale dove confluiscono e si incontrano nel rito la fede con i suoi dogmi e la morale con i suoi precetti; anzi la liturgia è una cornice cronologico-geografica nella quale convivono o vengono a contatto tra loro la vita profana e quella religiosa. Azzardare una riforma della liturgia significa rischiare di dissolvere un'atmosfera che ha in qualche modo impregnato il tempo e lo spazio, gesti e pensieri di uomini legati dalla stesa fede e dagli stessi ideali nazionali o di stirpe, stati psicologici, schemi mentali, rapporti che si svolgono ormai con l'automatismo della tradizione, ecc. Di qui la grande cautela con cui non si può non agire tentandone un aggiornamento. Ogni liturgia si costituisce, sia pure in forme differenti ma su trame sostanzialmente identiche, lungo un arco di secoli: non è mai improvvisata nel giro di pochi anni, e anche se un aggiornamento obbedisce naturalmente a un diverso ritmo cronologico, esso esige progettazione e più ancora sperimentazione adeguate alla sua ampiezza.
L'unica eccezione può verificarsi quando, in seguito a uno scisma, la comunità religiosa che ne è all'origine ha urgenza di darsi nuove forme e nuovi riti per meglio distinguersi dalla comunità che ha abbandonato. Ma la storia insegna che gli scismi più duraturi sono stati anche quelli che hanno dimostrato un maggior senso di prudenza e di responsabilità in quest'opera di differenziazione e di contrapposizione. Tipico l'atteggiamento di Lutero. La sua riforma liturgica doveva ispirarsi alla nuova concezione del mistero della salvezza da lui annunciata e quindi mostrare nel culto non l'opra degli uomini ma il dono di Dio stesso. In pratica metterle al centro la parola divina. Sia che si conservasse la celebrazione della cena sia che la si abolisse, il mutamento era essenziale e proprio per questo si sarebbe potuto pensare che egli avrebbe proceduto con estrema rapidità. Invece si limitò al minimo possibile di innovazioni sulla base della stessa messa, che conservò. Anzi, coerentemente a questa sua decisione, disapprovò il riformismo precipitoso e radicale messo in atto da Carlostadio nell'inverno del 1521-1522, quand'egli si trovava alla Wartburg. E prima di pubblicare la "messa tedesca" (1526), curò la "Formula missae" per la chiesa di Wittenberg, e cioè un adattamento esclusivamente locale e temporaneo. Mettendo poi mano alla "messa tedesca" non solo non volle che essa fosse considerata obbligatoria per altre chiese, ma stabilì che coesistesse con la "Formula missae" precedente per verificare ulteriormente le due riforme, questa in lingua latina, l'altra in lingua volgare. Tanto che, quando morì, benché le liturgie luterane fossero numerosissime, la riforma nel suo complesso era ancora molto lontana dall'essere compiuta.
La Chiesa conciliare e quella post-conciliare, invece, nonostante che avessero di fronte a sé un campo d'azione estremamente più complicato e più vasto, hanno freneticamente bruciato i tempi realizzando si può dire quasi al completo i loro progetti in neppure un decennio. Un'impresa quasi incredibile. Un profano difficilmente riesce a farsi un'idea anche solo approssimativa di quel che essa abbia comportato. Anche nel caso, quanto mai raro, che egli conosca l'elenco dei documenti romani del "Consilium" e della Congregazione per il culto - documenti che per il numero e la complessità non hanno riscontro con quelli realizzati per l'applicazione di tutti gli altri testi conciliari -, egli non pensa poi affatto a immaginare il loro numero moltiplicato con quello di tutti i documenti complementari prodotti a loro volta dalle cento e più conferenze episcopali nazionali allo scopo di applicarne le direttive alle rispettive Chiese.  Senonché La programmazione delle singole riforme di riti, cerimonie, calendari ecc., non è che una prima fase. La seconda fase della riforma liturgica è stata l'aggiornamento di tutti i libri liturgici tradizionali, da quello dell'ufficio divino al messale, al rituale, ecc. E, anche qui, quello che gli organi romani hanno fato in latino, le varie conferenze hanno dovuto rifare nelle rispettive lingue. Anzi, ben presto la traduzione dei libri liturgici ha fato sentire il bisogno di speciali traduzioni della Bibbia a uso liturgico, e così via. Un complesso di impegni che in genere tutti gli organismi interessati si sono fatti il dovere di realizzare nel tempo più breve possibile con la conseguenza, ovviamente, di dar spesso luogo a risultati "sciamannati", come li ha definiti padre Ferrua (un esperto di prim'ordine, consultore di varie congregazioni romane). Ma a questo punto si era portata a termine soltanto la premessa della riforma e cioè la riforma sulla carta e nei suoi strumenti. E venne finalmente il tempo, spesso caotico, della sua applicazione graduale in ogni cellula del mondo cattolico attraverso la sostituzione del latino con le lingue native, gli adattamenti architettonici delle chiese, l'adozione di nuove musiche, ecc.»

L'ipotesi avanzata da Carlo Falconi per spiegare la stranezza della fretta con cui venne approvata una riforma così radicale della liturgia, è che questa sia stata parte di una strategia dei vertici della Chiesa cattolica, a cominciare dal pontefice (prima Giovanni XXIII, poi Paolo VI) per concedere qualcosa ai settori progressisti del Concilio e frenare e insabbiare, in un secondo momento, le riforme riguardanti la struttura interna della Chiesa stessa, dal primato pontificio alla posizione gerarchica dei vescovi.
Conclude, infatti, Falconi  (Op. cit., pp. 209-10):

«… non ha alcun fondamento la convinzione che la riforma liturgica abbia compromesso il ruolo della casta sacerdotale e, in definitiva, della gerarchia cattolica. Per rendersene conto non c'è che da leggere la costituzione conciliare sulla liturgia e tutte le istruzioni dirette ad applicarla. Questi documenti non solo confermano ma amplificano il ruolo tradizionale sostenuto dal sacerdozio nell'attività liturgica (per esempio, attraverso il recupero dell'uso delle concelebrazioni, che mostrano all'altare, in luogo di un solo ministro e dei suoi assistenti, interi manipoli della casta levitica). La riforma ha semplicemente concesso il diritto di comparsa a un certo numero di fedeli nei "ludi liturgici"!, che d'alta parte sono stati maggiormente attivizzati da una ben concertata partecipazione popolare accentuandone il grado e le manifestazioni comunitarie. In altre parole, la cortina d'incenso è rimasta, ma spostata dal vertice verso la base, che è stata convinta, entrando nel gioco, ad avvolgersene e a paludarsene. Per una prova "ad abundantiam", del resto, depone la difesa del "sacerdozio ministeriale" fatta trionfare dalla Santa Sede nel sinodo dei vescovi del 1971. (…)
Mi sembra invece indubbio che la realizzazione del "plenum" della riforma liturgica, resa possibile dal consenso dei curialisti, non è stata altro che la contropartita scaltramente anticipata da costoro di tutti gli "alt" che si ripromettevano di porre in seguito alle più sgradite e sostanziali riforme programmate dai loro avversari. Lo dimostrano sia le vicende del Concilio sia la storia della elaborazione e della formazione degli altri suoi documenti. Come pure lo sfruttamento della costituzione liturgica ("Sacrosanctum concilium") sbandierata dalle supreme gerarchie cattoliche come la prova più inoppugnabile della loro volontà di aggiornamento».

Fatta la tara a quel tanto di acredine che s'intuisce dietro alcune espressioni e anche, a nostro parere, all'ipotesi di una sorta di complotto deliberato, in cui la riforma liturgica non sarebbe stata altro che una moneta di scambio pagata in anticipo per ostacolare una più decisa riforma in altri e più decisivi settori della materia conciliare, crediamo che questa "lettura" presenti alcuni elementi, se non d verità, certo di verosimiglianza.
Bisogna peraltro tener conto, nell'accostarsi a una tale materia, del contesto storico-culturale vario e confuso, per non dire contraddittorio, in cui si muoveva la Chiesa cattolica all'inizio degli anni Sessanta del XX secolo, così come - del resto - accadeva nella società civile.
Esistevano spinte contrastanti e, in parte, mosse da un estremismo che accomunava in una stessa tentazione massimalista tanto gli ambienti ultraconservatori quanto quelli ultraprogressisti: coloro i quali vedevano nella Chiesa cattolica una cittadella assediata, che avrebbe dovuto badare a rafforzare le proprie difese, alzando ponti levatoi verso il mondo secolarizzato, non erano meno dogmatici e intransigenti di quanti, in nome della teologia della liberazione o della speranza, predicavano la Chiesa dei poveri fino all'estremo limite e, se necessario, anche con le armi in pugno (vedi il caso di Camilo Torres in Colombia).
Gli anni Sessanta non sono stati soltanto gli anni del boom economico, ma anche quelli della radicale trasformazione dell'Italia in paese industriale avanzato, con la definitiva distruzione della società patriarcale di origine contadina e con l'avvento di uno sfrenato consumismo e, al  tempo stesso, con il manifestarsi dei primi segnali di malessere giovanile, e non solo giovanile, che sarebbero sfociati nel '68 operaio e studentesco.
Nasceva e si diffondeva la figura del prete operaio; sparivano, un po' alla volta, gli abiti talari (tranne che nelle parrocchie di campagna rette da parroci anziani), sostituite dall'impeccabile clergyman o, addirittura, dall'abito civile, che mimetizzava completamente la figura del prete nel mondo profano; il celibato ecclesiastico obbligatorio veniva contestato da più parti, ma trovava una resistenza irremovibile da parte della gerarchia, con la conseguente uscita dallo stato sacerdotale di un numero cospicuo di membri del clero; nei seminari diocesani soffiava a un vento convulso di novità, preludio alla crisi delle vocazioni, che si sarebbe manifestata qualche anno dopo.
In questo viluppo di spinte e controspinte, di timide aperture e di pronte ritirate, di eccessi di prudenza e di improvvise ondate di massimalismo, bisogna collocare anche la riforma della liturgia approvata e sottoscritta dai padri conciliari e portata a pieno compimento nel giro degli anni immediatamente successivi.
Oggi sembra di notare, da alcuni chiari segnali, una volontà di recupero di aspetti della tradizione liturgica che erano stati sacrificati dal Concilio Vaticano II; valgano per tutte le aperture a un parziale ritorno della messa in latino da parte del pontefice Benedetto XVI. Ciò suona implicitamente come una ammissione che quella riforma fu, per alcuni aspetti, realmente avventata e precipitosa.
Se poi quella fretta fu dovuta, oltre alla situazione sopra accennata di generale sommovimento culturale che caratterizzò gli anni Sessanta, anche a una sorta di manovra della gerarchia ecclesiastica per aver l'aria di aprirsi al massimo al vento delle novità, mentre si preparava a stringere i freni sugli asseti gerarchici interni della Chiesa stessa, questo è obiettivamente difficile deciderlo, anche se l'ipotesi appare non priva di fondamento.

Un altro fattore che può rendere ragione, almeno in parte, della fretta e del radicalismo della riforma liturgica fu - crediamo - il ruolo primario assunto dai teologi all'interno del cattolicesimo e particolarmente nel Concilio Vaticano II. Se si studia imparzialmente la storia della Chiesa cattolica, è facile rendersi conto come mai, fino al pontificato di Giovanni XXIII, i teologi avevano goduto di un così alto prestigio, al punto da diventare fattori decisivi degli orientamenti conciliari e, quindi, della Chiesa nel suo complesso.
Essi, pertanto, nel corso degli anni Sessanta, si trovarono ad esercitare un potere enorme, forse eccessivo; ne abbiamo già accennato in un recente articolo (cfr. «Una pagina al giorno: Prepararsi alla partenza, di Adriana Zarri», sul sito di Arianna Editrice). Ora, molti di essi erano - e sono - su posizioni piuttosto radicali e non avevano alcuna simpatia per molti aspetti della tradizione, di cui la liturgia è una parte cospicua. Si può capire, quindi, che si facessero quasi un punto d'onore di assaltare frontalmente quella che essi consideravano, a torto o a ragione, la cittadella della conservazione.
Persone abituate a vivere fra i libri o nel chiuso delle università, spesso i teologi perdono il contatto con la massa dei fedeli e con il loro comune sentire; e, nella ricerca di ciò che è essenziale alla fede, finiscono talvolta per dimenticare che fede e religione non sono la stessa cosa, e che ciò che può bastare alla fede, non sempre basta alla religione, la quale ha pure bisogno dei suoi riti e delle sue cerimonie.
Non solo.
Nella loro ansia riformista, si direbbe che i teologi cristiani abbiano un po' un complesso di inferiorità verso i filosofi o gli storici "profani", per non dire degli scienziati e, in genere, della cultura laica; per cui sono tentati di spingere il loro progressismo sempre più avanti, quasi per farsi perdonare (dalla cultura laica, appunto) l'origine "medioevale" e non molto scientifica della loro disciplina.
Ed eco che teologi come Rudolf Bultmann si accingono a demolire, a colpi di piccone, tutto ciò che, nel cristianesimo, essi giudicano di origine mitica e non storica (cfr. il nostro articolo: «Rudolf Bultmann, la religione e l'immagine mitica del mondo», sempre sul sito di Arianna Editrice); ecco anche teologi cattolici, come Hans Küg, centellinare con avarizia l'autenticità dei miracoli narrati nel Vangelo e mettere un punto di domanda perfino sul momento-chiave del cristianesimo, ossia la credenza nella vita eterna.
Bisogna dire che Hans Küng piace molto  - o, almeno, piaceva molto - negli ambienti culturali laici orientati a sinistra; ma, a leggere spassionatamente le sue opere, ci si rende conto quasi subito che egli, più che un teologo cattolico, è stato una sorta di libero pensatore (nel senso laicista del termine); impegnato, sì, a conciliare il cristianesimo con il mondo moderno, ma sulla base dell'adeguamento del primo al secondo.
Ebbene, l'opera dei teologi come apprezzatissimi consiglieri al Concilio Vaticano II si è esercitata in buona misura proprio nella pretesa "demitizzazione" del cristianesimo; e, così come ha esercitato un peso determinante nella soppressione del culto di numerosi santi, la cui storicità non è risultata provata, la si può facilmente intravedere anche dietro il radicalismo e l'urgenza con cui è stata condotta e portata a termine la riforma della liturgia, ispirata sovente a criteri di tipo "democratico" e antropocentrico.
Negli ultimi anni si è notata una diminuzione della loro influenza negli orientamenti della Chiesa cattolica, o almeno delle loro frange più radicali (papa Ratzinger è, peraltro, uno studioso di formazione essenzialmente teologica, ma di orientamento "conservatore": per quanto si dovrebbe smettere di adoperare, parlando della Chiesa cattolica, questi termini della politica, che possono risultare assai fuorvianti).
E crediamo che ciò sia un bene, proprio dal punto di vista interno alla Chiesa; mentre la pensano all'opposto quegli osservatori esterni ad essa i quali non hanno mai ragionato in termini di positivo o negativo per la Chiesa, ma per la cultura laica, e quindi hanno sostenuto i teologi "progressisti" a fini puramente strumentali.
Del resto, non ci è stato tramandato dai Vangeli che Gesù, una volta, rese lode a Dio perché ha nascosto il mistero della fede ai saggi e ai sapienti, mentre lo ha rivelato ai piccoli e ai semplici di spirito? È un episodio che dovrebbe far riflettere non solo i teologi, ma anche quanti tendono a vedere in essi, sempre e comunque, la parte illuminata della cultura cristiana, anzi la sola, in fondo, con cui il cosiddetto "mondo moderno" potrebbe proficuamente dialogare.

Qui, però, riteniamo giusto fermarci.
Infatti, non soltanto sono lecite diverse interpretazioni del fatto; ma, in linea di principio, ci sembra che l'analisi storica di quelle decisioni, della loro origine e delle loro conseguenze, riguardi soprattutto coloro che in quel mondo si muovono, perché vi appartengono e perché agiscono all'interno di quell'orizzonte culturale.
Sono essi i più idonei ad esprimere valutazioni su una realtà che conoscono meglio di quanti, invece, ne hanno una conoscenza prevalentemente esterna e indiretta.
Non perché i panni sporchi si debbano lavare solamente in casa: ché, altrimenti, tanto varrebbe mandare a casa la maggior parte degli storici di professione, per non parlare, poi, di quelli occasionali.
Ma perché solo chi vive, sente e pensa all'interno di una determinata cultura può esprimere giudizi pienamente fondati (anche se, è ovvio, fallibili) su di essa, conoscendone dall'interno tutte le sfumature di pensiero e anche quelle affettive: cosa di cui gli storici di professione, appunto, tendono a non tenere sufficientemente conto - tutti presi dalla illusione che la storia sia equiparabile a una scienza -; mentre invece è, a nostro avviso, un requisito addirittura fondamentale.