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C'è una relazione fra il biblico serpente di bronzo e la X divina del «Timeo» di Platone?

di Francesco Lamendola - 29/12/2008


 

Vi è, nella storia dell'esodo del popolo ebreo dall'Egitto alla Terra Promessa, un episodio particolarmente misterioso e ricco di significati allegorici, sul quale da sempre biblisti e storici delle religioni si interrogano, senza - peraltro - trovare un accordo generale.
L'episodio è quello dei serpenti che mordono gli Ebrei nel deserto del Sinai, dopo la loro fuga dall'Egitto, provocando la morte di molti di essi; e del serpente di bronzo che Mosé, per ispirazione divina, fa erigere in cima ad un palo, ottenendo la guarigione per quanti rivolgono lo sguardo verso di esso.
La guarigione, in ogni caso, non avviene per opera dell'idolo, ma di Dio stesso, mediante un incondizionato atto di fede degli uomini; così come da Dio era venuto il flagello dei serpenti, quale castigo per le mormorazioni degli Ebrei, stanchi di girovagare nel deserto e di nutrirsi sempre dello stesso cibo, la manna.
Una particolarità è che l'episodio non viene narrato né nel libro dell'Esodo, né in quello del Levitico, ma solo nel libro dei Numeri, 4, 9, che qui di seguito riportiamo (dalla «Bibbia di Gerusalemme»):

«Poi gli Israeliti partirono dal monte Cor, dirigendosi verso il Mare Rosso per aggirare il paese di Edom. Ma il popolo non sopportò il viaggio. Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: "Perché ci avete fatti uscire dall'Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c'è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero." Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti velenosi i quali mordevano la gente e un gran numero d'Israeliti morì. Allora il popolo venne a Mosè e disse: "Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te; prega il Signore che allontani da noi questi serpenti." Mosè pregò per il popolo: "Il Signore disse a Mosè: "Fatti un serpente e mettilo sopra un'asta; chiunque, dopo essere stato morso, lo guarderà resterà in vita." Mosè allora fece un serpente di rame e lo mise sopra l'asta; quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di rame, restava in vita».

L'episodio è piuttosto noto in ambito cristiano, anche perché numerosi artisti hanno dipinto o inciso delle opere ispirate a quel fatto drammatico e prodigioso; il suo significato - tuttavia - rimane, per molti aspetti, oggetto di diverse interpretazioni.
Le cose non si chiariscono, se pure si confrontano con questo gli altri passi dell'Antico e del Nuovo Testamento che menzionano tale episodio.
Il primo è contenuto nel Secondo Libro dei Re (18, 4), nel quale si riportano gli sforzi del re Ezechia per eliminare ogni forma di culto idolatrico dalla religione ebraica e per restaurare il rigoroso monoteismo di matrice mosaica:

«Egli [cioè Ezechia] eliminò le alture e frantumò le stele, abbatté il palo sacro e fece a pezzi il serpente di bronzo, eretto da Mosè; difatti fino a quel tempo gli Israeliti gli bruciavano incenso e lo chiamavano Necustan. »

Un altro passo dell'Antico Testamento in cui si parla del serpente di bronzo è contenuto nel Libro della Sapienza (5, 14), ove - in modo piuttosto incongruo - i serpenti sono accomunati alle cavallette e alle mosche quali animali velenosi:

«Quando infatti li assalì il terribile furore delle bestie
e perirono per i morsi di tortuosi serpenti,
la tua collera non durò sino alla fine.
Per correzione furono spaventati per breve tempo,
avendo già avuto un pegno di salvezza
a ricordare loro i decreti della tua legge.
Infatti chi si volgeva a guardarlo
era salvato non da quel che vedeva,
ma solo da te, salvatore di tutti.
Anche con ciò convincesti i nostri nemici
che tu sei colui che libera da ogni male.
Gli Egiziani infatti furono uccisi dai morsi
di cavallette e di mosche,
né si trovò un rimedio per la loro vita,
meritando di essere puniti con tali mezzi.
Invece contro i tuoi figli
neppure i denti di serpenti velenosi prevalsero,
poiché intervenne la tua misericordia a guarirli.
Perché ricordassero le tue parole,
feriti dai morsi, erano subito guariti,
per timore che, caduti in un profondo oblio,
fossero esclusi dai tuoi benefici.
Non li guarì né un'erba né un emolliente,
ma la tua parola, o Signore, la quale tutto risana.
Tu infatti hai potere sulla vita e sulla morte;
conduci giù alle porte degli inferi e fai risalire.
L'uomo può uccidere nella sua malvagità,
ma non fa tornare uno spirito già esalato,
né liberare un'anima già accolta negli inferi.»

Si noti che il libro dell'Esodo, nel quale sono narrate le dieci piaghe che si abbatterono sull'Egitto per punire l'ostinazione del Faraone, che non voleva lasciar partire gli Ebrei, non si dice mai che le mosche e le cavallette mordessero a morte gli Egiziani; ma solo che dilagarono innumerevoli e, nel caso delle cavallette, che distrussero i raccolti.
Poi, nel Nuovo Testamento, vi sono due passi che si richiamano all'episodio del serpente di bronzo, entrambi nel Vangelo di Giovanni..
Nel primo di essi (14, 12-15) Gesù, nel corso del colloquio notturno avuto con Nicodemo, che era andato a trovarlo di nascosto, afferma:

«Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Eppure nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell'uomo che è disceso al celo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.»

Qui, dunque, Gesù istituisce una similitudine fra il serpente di bronzo, innalzato da Mosé mediante un "albero sacro", e se stesso, che sarebbe stato innalzato mediante un altro albero sacro, molto diverso - però - da quello che i suoi contemporanei potevano immaginare per un Messia: la croce.
Nel secondo passo del Vangelo di Giovanni in cui vi è un richiamo, assai più oscuro e controverso, al serpente di bronzo (19, 37), non è Gesù a parlare, ma un testimonio oculare della crocifissione di Cristo, il quale garantisce la propria veridicità. Esso suona così:

«E un altro passo della Scrittura dice ancora: "Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto".»

Qui sembra che sia l'apostolo Giovanni a parlare in prima persona; e il richiamo del versetto che egli cita è al Libro di Zaccaria (12, 10) che suona così:

«Riverserò sopra la casa di David e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito.»

A dire il vero, nel Nuovo Testamento vi sarebbe un altro riferimento all'episodio del serpente di bronzo e, più precisamente, al parallelo neotestamentario fra esso e la realtà di Cristo crocifisso, che diviene strumento di salvezza per tutti coloro i quali credono nel mistero della sua morte e della sua  resurrezione.
Tale riferimento è contenuto nel Libro dell'Apocalisse (1,7), che, tradizionalmente, viene attribuito anch'esso all'apostolo Giovanni o, comunque, allo stesso Giovanni che è autore del quarto Vangelo e delle tre lettere omonime. Il passo in questione recita così:

«Ecco, viene sulle nubi e ognuno lo vedrà;
anche quelli che lo trafissero
e tutte le nazioni della terra si batteranno per lui il petto».

Questo passo, in realtà, è molto più complesso di quel che potrebbe apparire ad una lettura frettolosa, perché risulta a sua volta formato da una sorta di "collage" di numerosi passi biblici, sia vetero che neotestamentari.
In primo luogo, l'immagine del salvatore che avanza sulle nubi, diretto verso la Gloria di Dio, è desunta dal Libro di Daniele (7, 13-14):

«Guardando ancora nelle visioni notturne,
ecco apparire, sulle nubi del cielo,
uno, simile ad un figlio di uomo;
giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui,
che gli diede potere, gloria e regno;
tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano;
il suo potere è un potere eterno,
che non tramonta mai, e il suo regno è tale
che non sarà mai distrutto.»

Due cose sono qui notevoli e degne di essere evidenziate: la prima è la denominazione di «figlio di uomo» per questa suprema figura messianica, ossia la stessa che Gesù Cristo aveva adottato per indicare se stesso. La seconda cosa è il concetto della missione universalistica di tale Messia, che supera gli angusti confini del nazionalismo ebraico e acquista veramente respiro mondiale; e anche di questo concetto bene si ricorderà Gesù Cristo nel corso della propria predicazione.
Poi, oltre al già citato passo di Zaccaria, il brano del Libro di Daniele offre delle corrispondenze sia con il vangelo di Giovanni (19, 37), anch'esso su riferito, e poi con il grande discorso escatologico di Cristo, che preannunzia la sua passione, contenuto nel Vangelo di Matteo (24, 30-31), che recita testualmente:

«Allora comparirà nel cielo il segno del Figlio dell'uomo e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno il Figlio dell'uomo venire sopra le nubi del cielo con grande potenza e gloria. Egli manderà i suoi angeli con una grande tromba e raduneranno tutti i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all'altro dei cieli.»

Pertanto, anche da questi raffronti risulta che Gesù Cristo fece esplicitamente riferimento al Libro di Daniele e che volle presentare se stesso come quel Figlio dell'uomo di cui le Scritture avevano preannunciato la venuta; venuta che, ad un tempo, avrebbe segnato il momento del giudizio di salvezza per tutti quanti avrebbero creduto in lui.

Ed ecco un paio di interpretazioni dell'episodio del serpente di bronzo da parte di altrettanti biblisti contemporanei.
Secondo Giovanni Rinaldi , nella «Enciclopedia Cattolica» (Roma, 1953, vol. XI, col. 394-95):

«Non risulta di che specie di serpenti si tratti; forse il termine "infuocato" o "ardente", in ebraico "sāraph", allude a un'infiammazione o febbre che il morso provocava. Essendosi il popolo pentito, Dio per intercessione di Mosè indicò il rimedio in un serpente di bronzo, che si doveva erigere su un palo: chi morsicato lo avesse guardato, sarebbe guarito; e così avvenne ("Numeri", 21, 4-9). Il simbolismo non sembra difficile da cogliere: esso è scelto in armonia con l'ambiente. Appeso al palo, il serpente era come reso innocuo:; la vista e l'immagine ricordava la pena meritata; l'atto di fiducia, che lo sguardo era destinato a provocare e significare, meritava da Dio la guarigione("Sapienza, 16, 6-8).  L'oggetto si conservò: ma nella tradizione popolare israelitica gli andò unito un culto: lo si ritrova sotto il nome di Nohestan ("Nĕhuštān") tra gli oggetti idolatrici che Ezechia fece distruggere ("II Re", 18, 4). Non è chiaro il significato del serpente di bronzo trovato a Gezer (antico-israelitico, circa 1.000 a. C.) e di altre figurazioni di serpenti, forse "ex-voto".
Il serpente di bronzo è interpretato in "Giovanni", 3, 14 sg. Come simbolo di Gesù, elevato sulla croce, donde dà la vita a chi crede in lui. »

E Armando Rolla, in «Enciclopedia della Bibbia» (Torino, Elle Di Ci, 1971, vol. 6, p. 413):

«Mosè costruì il serpente di bronzo, lo espose come il Signore aveva ordinato e la calamità cesso. Questo effetto non fu dovuto a una credenza superstiziosa, ma al fatto che il serpente di bronzo era simbolo di salvezza in viortù di Colui che tutti salva. Per questo motivo Gesù Cristo , nel predire la sua passione, ne spiegò il carattere spirituale, paragonandola con la salvezza fisica che il serpente di bronzo procurava. Il simbolo mosaico ricevette più tardi culto idolatrico nel Tempio di Gerusalemme dove si conservava. Ezechia, durante il periodo della sua riforma religiosa, dette ordine di farlo a pezzi poiché gli Ebrei gli bruciavano l'incenso. Era venerato sotto il nome di "Nĕhuštān" (Νεεσθάν; Vangelo "Nohestan"), in riferimento sia al materiale di cui era composta l'immagine (bronzo, "nĕhōšet), sia alla sua forma (serpente, "nāhāš"). Il culto del serpente è confermato non solo in Mesopotamia  (accadico "šarrapu", cfr. "śārāf"), ma anche in città palestinesi come Bet Šémeš, Beit Mirsim, Beisan e Gézer, però in questa non con valore ofiolatrico, ma come amuleto profilattico, secondo l'interpretazione più accettata dagli specialisti.»

Il più importante degli apologisti greci e il primo rappresentante del platonismo cristiano, Giustino Martire (100-165 d. C.), nato a Samaria, aveva però delle idee molto originali in proposito, per non dire decisamente audaci.
Egli, infatti, avanza un audace parallelismo fra la tradizione biblica del serpente di bronzo e la potenza divina che, nel «Timeo» platonico, si esprime nell'universo sotto forma di X.
Forse anche per le sue origini palestinesi, Giustino indica una influenza diretta del creazionismo biblico sulla cosmologia di Platone e, più in particolare, un probabile influsso di Mosè (cui tradizionalmente era attribuita la composizione dell'intero Pentateuco) su un difficile e controverso passo del «Timeo» dedicato alla Potenza, seconda ipostasi divina.
Il brano di Giustino, contenuto nella sua «Prima Apologia», 59-60, è il seguente (da: Giustino, «Apologie», a cura di Giuseppe Girgenti, Milano, Rusconi Editore, 1995, pp. 151-155):

«[59, 1] Dovete sapere, inoltre, che Platone ha desunto dai nostri maestri , intendo dire dalle parole dei profeti, la dottrina per cui Dio ha creato il cosmo, plasmando una materia informe, e, a tal riguardo, sentite letteralmente le parole di Mosè, il primo profeta, di cui abbiamo parlato, più antico di tutti gli scrittori greci, attraverso cui lo Spirito Profetico ha rivelato in che modo e con quali elementi , in principio, Dio ha  creato il cosmo, dicendo:
[2] "In principio Dio creò il cielo e la terra. [3] La terra era invisibile ed informe, e le tenebre  erano sull'abisso; e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque. [4] E Dio disse: Sia la luce. E così fu."
[5] Di conseguenza, l'intero universo è stato generato dal Logos di Dio a partire dagli elementi indicati per la prima volta da Mosè, e da qui, pertanto, Platone, tutti quelli che professano dottrine di questo genere, e noi stessi,  abbiamo imparato: potete convincervene.
[6] E sappiamo altresì che ciò che viene denominato  Erebo dai poeti si trova in primo luogo in Mosé.
[60,1] E quel che Platone afferma nel "Timeo"  a proposito del figlio di Dio, relativamente alla filosofia della natura, quando dice: "Lo ha impresso nell'Universo a forma di X, è stato desunto, in modo analogo, da Mosè.
[2] Infatti, nei libri di Mosè è scritto che in quel tempo, quando gli Israeliti uscirono dall'Egitto ed erano nel deserto, furono attaccati da animali velenosi, vipere, aspidi e serpenti di ogni specie, che seminavano la morte tra la popolazione; [3] quindi Mosè, per ispirazione ed azione di Dio, prese del bronzo, lo fuse in forma di croce, lo fissò in cima al santo tabernacolo, e disse al popolo: "Se guardate questo segno e credete, in esso sarete salvati".
[4] In seguito a questo fatto, scrisse che i serpenti morirono, e consegnò alla tradizione che il popolo sfuggì alla morte in questo modo.
[5] Platone, poiché era venuto a conoscenza di questo, ma non lo aveva compreso sino in fondo, dato che non aveva pensato al segno della croce, ma ad una X, ha affermato che la Potenza, che viene subito dopo il Primo Dio, è impressa a forma di X nell'universo.
[6] E la dottrina di un Terzo  principio è tratta dalla conoscenza  del testo di Mosè, che abbiamo citato prima, in cui si dice che lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque.
[7] Infatti, assegna il secondo posto al Logos che procede da Dio, e dice che è disposto a forma di X nell'universo, mentre assegna il terzo posto allo Spirito  che, come si dice, aleggiava sulle acquee, in particolare in questa frase: "Le terze realtà intorno al terzo".
[8] E ora ascoltate: come lo Spirito Profetico, tramite Mosè, abbia annunciato la conflagrazione  finale nel fuoco.
[9] Ha detto questo: "Si abbatterà un fuoco inestinguibile e divorerà fino al fondo dell'abisso".
[10] Pertanto, non siamo noi che professiamo le stesse dottrine di altri, ma tutti gli altri che predicano imitando le nostre.
[11] Da noi, inoltre, questi insegnamenti possono essere ascoltati ed assimilati persino da coloro che non conoscono neanche i caratteri dell'alfabeto, dagli ignoranti e dai barbari di linguaggio, che però sono sapienti e credenti di mente, anche se infermi o privi della vista: questo fa capire che non è una sapienza umana, ma una dottrina ispirata dalla potenza di Dio.»

Per la verità, né il Libro dei Numeri né quello della Sapienza parlano della morte dei serpenti, ma solo del fatto che gli Ebrei che guardavano il serpente guarivano dagli effetti del veleno; particolare che farebbe pensare a una conoscenza imperfetta dell'episodio del serpente di bronzo, oppure a una derivazione da altre fonti che parlavano dell'episodio, andate in seguito perdute.
Giustino, comunque, tiene qui presente l'interpretazione medioplatonica  del «Timeo», in base alla quale si stabiliva l'esistenza di tre Principi Primi: l'Uno, ossia il primo Dio; il Paradigma, identificato con il Logos; e infine il Demiurgo, cioè il Terzo principio.
Ma ecco il passo in questione del  «Timeo» (36, B-C; da: Platone, «Tutte le opere», Roma, Newton & Compton Editori, 1997, vol. 4, p 563, traduzione italiana di Enrico Pegone:

«Dopo che [l'artefice divino] ebbe diviso in due, secondo la lunghezza,  tale composizione [dell'universo], ed ebbe adattato una parte all'altra nel loro punto mediano in forma di X, le piegò in circolo nello stesso punto, congiungendo tra di loro le estremità di ciascuna nel punto di incontro opposto alla loro intersezione, e vi impresse  un movimento di rotazione uniforme nel medesimo spazio, e uno dei due circoli lo fece esterno, mentre l'altro interno. Destinò il movimento del circolo esterno al movimento della natura del medesimo,  e quello del circolo interno al movimento della natura dell'altro…»

Che cosa dobbiamo pensare dell'ipotesi avanzata da Giustino, ossia di una diretta influenza del Libro dei Numeri sull'enigmatico passo del «Timeo» platonico - un dialogo che anche il vasto pubblico dei non specialisti conosce almeno di nome, per via del mito di Atlantide in esso (e nel «Crizia») esposto; ma che, in effetti, è uno dei più oscuri e difficili di tutto il "corpus" delle opere platoniche, se non il più oscuro e difficile in assoluto?
Diremo francamente che l'ipotesi di un diretto influsso mosaico sul pensiero di Platone non ci persuade; e ciò per diversi ordini di motivi.
Senza voler escludere che Platone possa aver avuto conoscenza delle Scritture della religione mosaica - cosa che, anzi, ci sembra quanto meno verosimile, dati i contatti che certamente ebbe sia con l'Egitto, sia con il Vicino Oriente - appare evidente che l'intera argomentazione di Giustino è viziata da una scoperta manovra ideologica: quella di dimostrare non solo la plausibilità della religione cristiana agli occhi di un interlocutore pagano, ma addirittura la derivazione di alcune idee fondamentali della filosofia pagana dall'ebraismo. E l'orgoglio di appartenenza di Giustino alla cultura mosaica, sia pure come samaritano (ma, si sa, gli adepti delle province di confine sono sempre più zelanti di quelli del centro, perché devono superare un complesso di inferiorità) deve entrare pure in qualcosa - e, secondo noi, più che in qualcosa - nell'implicito corollario di una superiorità dell'ebraismo rispetto al platonismo.
Del resto, si tenga presente per chi scriveva Giustino la sua «Prima Apologia»: non per un pubblico generico di lettori pagani, ma proprio per l'imperatore di Roma, Antonino il Pio, circa l'anno 150 dopo Cristo. Suoi scopi erano sia dimostrare l'inconsistenza delle accuse rivolte al cristianesimo dai pagani, sia proporre - niente di meno - una alleanza tra cristianesimo e potere imperiale romano. Questo secondo punto, senza dubbio audacissimo per l'epoca, dimostra - se non altro - che il Nostro apologeta era uno che sapeva pensare in grande e che possedeva, senza dubbio, un una lungimiranza in ambito storico-religioso e politico-culturale, quale pochi altri potevano allora vantare.
Basti dire che, poco più di un secolo e mezzo dopo, quella alleanza tra Impero Romano e religione cristiana verrà effettivamente realizzata: ma non già sulla spinta degli apologisti cristiani, bensì per la solitaria decisione di un imperatore - Costantino il Grande -  non ancora cristiano (verrà battezzato solo in punto di morte, nel 337) al quale ben si addice il concetto di Machiavelli che, in politica, il fine giustifica i mezzi. Tanto è vero che, nelle sue mani e fin da subito, ossia fin dal Concilio di Nicea, la religione cristiana altro non fu che un "instrumentum regni" (come lo era stato, del resto, il culto  di Giove durante ila tetrarchia di Diocleziano); con l'inevitabile conseguenza del cesaropapismo che, poi, avrebbe caratterizzato tutta la millenaria storia dell'Impero Bizantino (ma non quella, destinata a esaurirsi nel 476, dell'Impero Romano di Occidente).
Insomma, si ha la netta impressione che Giustino, vuoi per orgoglio di appartenenza all'ebraismo, vuoi per la sua proposta all'imperatore romano di stringere una alleanza strategica con i cristiani, abbia forzato al massimo tutti quei testi che gli consentivano di sostenere la sua tesi di una derivazione del creazionismo platonico dalla concezione mosaica.
Ciò, in linea generale.
In particolare, poi - ed evitando di addentrarci nelle specifiche questioni filosofiche e cosmogoniche trattate da Platone in quel passo del «Timeo», che risulterebbero ostiche, oltre che sostanzialmente inutili, al lettore non specialista - dobbiamo evidenziare come sia necessario un bello sforzo d'immaginazione per sostenere che la X di Platone è una stessa e identica cosa con il serpente di bronzo di Mosé e con la croce sulla quale venne giustiziato Gesù Cristo.
Eppure è proprio questo ciò che Giustino sostiene, con la massima disinvoltura:

«In seguito a questo fatto, scrisse che i serpenti morirono, e consegnò alla tradizione che il popolo sfuggì alla morte in questo modo.
Platone, poiché era venuto a conoscenza di questo, ma non lo aveva compreso sino in fondo, dato che non aveva pensato al segno della croce, ma ad una X, ha affermato che la Potenza, che viene subito dopo il Primo Dio, è impressa a forma di X nell'universo.»

A meno che la «croce» di cui parla qui Giustino non sia quella di Cristo, ma semplicemente quella innalzata da Mosè nel deserto: nel qual caso bisognerebbe pensare che il serpente di bronzo formasse, con il palo di sostegno, una sorta di croce.
D'altra parte, i Romani conoscevano anche un altro tipo di croce, la cosiddetta «croce di Sant'Andrea», che era formata non già da un palo orizzontale, più corto, per le braccia del suppliziato, e da uno verticale, più lungo, per sorreggerne il tronco e i piedi; bensì da due pali incrociati, di eguale lunghezza, atti a sostenere sia le braccia, sia le gambe (divaricate) del condannato. Evidentemente, solo questa seconda croce può essere equiparata a una X; ma non sembra che essa sia stata adoperata per il supplizio di Gesù Cristo.
Quindi, tutto il ragionamento di Giustino si regge su questi labili collegamenti: siccome Gesù ha paragonato se stesso sospeso alla croce, al segno di salvezza alzato da Mosè nel deserto (il serpente di bronzo); così quel segno di salvezza, essendo una croce, sarebbe anche la forma fondamentale dell'universo, secondo l'azione esercitata dal Demiurgo divino - il Terzo principio di Platone -, in base a una complessa simbologia di ordine matematico, sul modello dell'armonia numerica che sta alla base delle dottrine pitagoriche.
Ci sembra che tutto ciò somigli molto ad un arrampicarsi sugli specchi per dimostrare una tesi indubbiamente ingegnosa, ma che ha l'evidente difetto di apparire precostituita per ragioni extra-filosofiche ed extra-religiose.
Qui, però, ci fermiamo.
Volendo, non sarebbe difficile passare dal motivo della croce o della X a quello della spirale doppia (cioè con movimento destrorso e sinistrorso), che ricorre in tante culture umane - dagli antichi Celti dell'Europa occidentale ai  Maori della Nuova Zelanda - presso le quali rappresentava l'origine dell'universo così come essa ci appare, oggi (sarà soltanto una coincicenza?), alla luce delle più recenti teorie cosmologiche.
E che dire della svastica, antichissimo simbolo solare e cosmico, diffuso presso innumerevoli culture, da quella greca a quella preariana di Mohenjo Daro, nella valle dell'Indo, a quella buddhista a quella giainista, a quella tibetana, alla cinese, ad alcune sette gnostiche e perfino ad alcune civiltà mesoamericane?
Rischieremmo di perderci in questo "mare magnum" e, pertanto, preferiamo fermarci ed evitare accostamenti ed ipotesi di possibili influenze reciproche tanto generici quanto indimostrabili.
Del resto, non è forse noto che la cosiddetta croce vista da Costantino, alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio ("in hoc signo vinces"), non era affatto una croce cristiana ma, quasi certamente, un simbolo solare, dato che l'imperatore, all'epoca, non si era per nulla convertito al cristianesimo, ma professava il culto del Sol Invictus, come gran parte delle sue truppe?
Questo esempio dovrebbe ricordarci che è bene essere estremamente cauti allorché si delineano scenari di possibili influenze da parte di un determinato simbolo religioso su di un'altra cultura e su di un'altra religione:.
Come, appunto, la strampalata teoria di Giustino, circa l'influsso di Mosè su Platone, dovrebbe ampiamente evidenziare.