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Non è mai troppo tardi per restituire all'anima la sua verità

di Francesco Lamendola - 08/01/2009


 

Nel chiaro mattino di gennaio la via che conduce al Santuario di Santa Augusta appare limpida sotto i raggi del sole, come doveva esserlo la mistica montagna del Purgatorio agli occhi di Dante e di Virgilio.
Uscendo dal Duomo di Serravalle, che custodisce una splendida pala del Tiziano, subito dietro l'abside inizio la salita per una scalinata monumentale, coronata da una serie di archi; poi proseguo su per una stradina che s'inerpica con stretti tornanti, incassata tra le mura dell'antica cinta fortificata. È impressionante pensare che quelle grandi pietre squadrate sono state poste quassù da mani umane, tagliando dritto attraverso la fitta vegetazione del ripido costone roccioso, secoli e secoli fa.
Giunto ad un primo sacello, il sentiero vi passa sotto, come per una specie di portico; e da qui in avanti procedo lungo una strada ampia, malamente acciottolata, intervallata da gradini e ombreggiata dalle fronde del bosco che però, in questa stagione, sono spoglie e consentono di spingere lo sguardo sempre più lontano, mano a mano che si sale di quota.
Passo davanti ad alcune cappelle seicentesche, erette alle svolte dei tornanti per ringraziare Dio e la Madonna dello scampato pericolo, quando la peste fece anche qui la sua comparsa, ma subito si ritirò, senza infierire sulla popolazione.
A un certo punto sorge un capitello affrescato che ricorda un episodio famoso della vita di Santa Augusta, il miracolo dei pani.
La giovinetta era figlia di un re barbaro, Matrucco o Madrucco, che aveva posto la sua sede su questa montagna - il Marcantone -, dove ancor oggi sorgono le rovine di una Turris Nigra, al di sopra del santuario. Era il tempo degli spasmi finali dell'Impero Romano di Occidente e questa formidabile posizione strategica, dominante la via che dall'Italia conduce in Germania, aveva attirato la cupidigia di dominio del re barbaro. Questi era pagano, ma sua figlia era stata segretamente battezzata ed educata nella religione cristiana. Sarebbe stato egli stesso a farla condannare a morte, quando ne venne a conoscenza; ma, per quella volta, dovette rodersi con i suoi sospetti. Infatti, quando ordinò alla ragazza, che stava scendendo con un canestro di pani da distribuire ai poveri, di aprire il mantello per vedere cosa contenesse, apparvero solo dei bellissimi fiori colorati: i pani erano stati tramutati in fiori per salvare Augusta dall'ira paterna.
Mentre osservo la grossa pietra circolare che indica il luogo preciso in cui sarebbe avvenuto il miracolo, non posso fare a meno di pensare alle infinite discussioni storiografiche che hanno portato a espungere il nome di Augusta dal calendario dei santi, dato che mancano prove sufficienti della sua esistenza. Benché ogni anno, il 22 agosto, si continui a celebrare la sua ricorrenza, alcuni studiosi hanno avanzato il dubbio che Augusta non sia un nome proprio, ma semplicemente un attributo di Maria Vergine; e quel dubbio ha cominciato a lavorare nella mente e nel cuore dei suoi fedeli, per non andarsene mai più.
Mi chiedo se la Scienza, la nuova religione dell'umanità, sia capace di creare delle favole altrettanto gentili di quelle che può creare la religione; se il culto di un santo che forse non è mai esistito può essere considerato solo come un errore meritevole di essere cancellato con un tratto di penna; se innumerevoli generazioni di fedeli che hanno salito questo erto costine rocciose, per deporre le loro preghiere nel santuario ove Augusta sarebbe stata decapitata, hanno sprecato speranze, lacrime e tesori di fede.
Non so trovare una risposta onesta; mi resta il presentimento che le preghiere non siano mai sprecate, mai, mai; che esse, pur se cadono nel posto sbagliato, verranno comunque viste e raccolte da Qualcosa o da Qualcuno; e che ciò vale per ogni pensiero o atto di amore che gli esseri umani possano compiere: che nulla di essi, cioè, vada perduto, anche se, sul momento, sembra essere proprio così.
Non c'è dubbio: si cambia; si evolve (beninteso, quando non si regredisce).
Anch'io, un tempo lontano, entrando nella chiesa di San Gennaro, a Napoli, o nel santuario di San Michele, sul Gargano, provavo fastidio alla sola idea del culto di un santo probabilmente inesistente o della dubbia autenticità di una apparizione angelica; per non parlare del miracolo dell'ebollizione del sangue, che mi appariva come un vero e proprio rigurgito di becera superstizione, e di tutta l'atmosfera "magica" - nel senso deteriore che, allora, attribuivo all'espressione - che avvolgeva quei luoghi.
Ora non sono più tanto sicuro che solo ciò che la Scienza approva come «storico» sia reale; penso, al contrario, che siano reali molte cose di cui la Scienza non sospetta neppure l'esistenza.
Ed eccomi all'ultimo tornante della salita: passo sotto un'antica torre medioevale in perfetto stato di conservazione, che faceva parte del sistema difensivo della cittadella medioevale; e, dopo una lunga scalinata di pietra, giungo al Santuario, fiancheggiato da un'altra torre merlata che funge da campanile e, sull'altro lato, da un grazioso portichetto gotico con un pozzo al centro. Ancora qualche passo e mi affaccio finalmente sullo sperone della montagna che guarda giù, verso la Valle Lapisina, coi suoi laghetti e, di fronte, la mole imponente del Col Visentin, dalla cima tutta bianca di neve.
È un colpo d'occhio stupendo, con il bianco della neve e del ghiaccio che lo rende simile a un paesaggio nordico; con quel libero cielo senza nubi che brilla di un sole smagliante, ma che non riscalda; e con quel contrasto solenne, che rende pensosi, tra la piccolezza delle opere umane - i borghi arrampicati sui fianchi della montagna, le strade, l'autostrada sopraelevata, la galleria scavata nella roccia da cui esce, minuscolo, il trenino diretto in Cadore - e la maestosità olimpica della natura, rispetto alla quale ci si sente degli autentici lillipuziani.

Erano anni che non ritornavo quassù.
Eppure questa strada mi ricorda tante cose: persone, situazioni di un tempo; anni ormai quasi dimenticati. 
Eppure, mi sembra che non sia mai troppo tardi per restituire all'anima la verità di cui è, al tempo stesso, la custode e la silenziosa testimone; nessuno meglio di noi può sapere quando l'anima mente perfino a se stessa; nessuno più di noi può riscoprire la bellezza di rimetterla in armonia con se stessa, liberandola dalle menzogne e dalle falsità che, simili a festoni di edera parassita, si sono avviticchiati al suo tronco e rischiano di soffocarlo.
Dicevamo, nel precedente articolo: «Sei bella, ma il tuo sguardo è spento: quando un estraneo sa vedere, anziché guardare», che alcune persone, a forza di indossare una maschera non solo con gli altri, ma perfino con se stesse, finiscono per spegnere la propria luce interiore a si adattano a una grigia esistenza, fatta di tranquilla disperazione. A tale estremo esse giungono gradualmente, a forza di piccole e grandi viltà verso se stesse; al punto che, quando si rendono conto di avere imboccato un vicolo cieco, non hanno più la forza di riprendersi la propria vita e preferiscono lasciarsi andare, magari teorizzando balorde filosofie del distacco, dell'atarassia e della saggezza, che altro non sono se non il patetico tentativo di razionalizzare e trasfigurare poeticamente il proprio completo fallimento esistenziale.
Ed è un pericolo che incombe su ognuno di noi, e rispetto al quale nessuno può dirsi immunizzato con certezza: tutti noi possiamo cadervi, allorché cominciamo, poco a poco, a trascurare l'amore per la vita: che è fatto di stupore quotidiano, di apertura, di disponibilità a mettersi in gioco, per quanto i rischi dell'esistenza ci possano spaventare e per quanto possiamo temere di restare delusi, sia dagli altri che da noi stessi.
Abbiamo già trattato questa tema in parecchi diversi precedenti lavori, specialmente in «Scegliere la propria evoluzione è scegliere l'essere invece del non-essere»: «Per poter scegliere se stessi, bisogna prima sapersi riconoscere»; «La delusione esistenziale è la «malattia mortale che produce amarezza, cinismo e disperazione» e «Oltrepassare la delusione per non sciupare l'armonia del mondo»; nonché nella critica dedicata a una bellissima opera del regista svedese Bergman, realizzata nel 1957: «"Il posto delle fragole": omaggio a Ingmar Bergman» (tutti consultabili sul sito di Arianna Editrice).
Non esiste una soglia cronologica oltre la quale non vale più la pena di restituire all'anima la propria verità; anche se è certo che, per una persona anziana, un tale movimento riesce generalmente assai più difficile che per una relativamente giovane. L'anziano tende ad aggrapparsi: ogni novità lo allarma e lo mette a disagio; ha bisogno di appoggiarsi alla proprie certezze - fossero pure costruite interamente sulla menzogna - perché sente il terreno sfuggirgli sotto i piedi, come se procedesse lungo un tappeto scorrevole da cui vede le care vecchie cose, poco a poco, sfilare e rimanere indietro, spingendolo verso una regione estranea e incomprensibile.
Eppure, anche una persona decisamente anziana, abituata a crogiolarsi nelle proprie illusorie certezze, ha la possibilità di gettare in se stessa uno sguardo di profonda verità e di aspirare a riconquistare l'autenticità della propria anima, come fa il professor Isak Borg nel film di Bergman «Il posto delle fragole».

Ma perché, dunque, una persona che ha già percorso una buona parte del proprio cammino esistenziale, dovrebbe mettere a repentaglio i propri equilibri interiori - e, a volte, non solo quelli - quando ormai non c'è più tempo per rimediare agli errori del passato, per medicare i torti fatti a se stessa, per vivere delle nuove possibilità?
La risposta è semplice: perché è meglio vedere la luce alla fine della propria vita, che non vederla mai; è meglio essere se stessi almeno un anno, un mese, un giorno, piuttosto che chiudere gli occhi per sempre, indossando l'odiosa maschera dell'autoinganno; è meglio, infine, riscoprire l'infinita ricchezza del mondo e la problematicità, ma anche la bellezza, del rapporto con gli altri, piuttosto che scendere nella tomba chiusi e corazzati nelle proprie inutili difese, che sono servite soltanto a spegnere e impedire la  verità intima della propria vita.
Diversamente, al rimpianto di non aver vissuto la propria vita in spirito di fedeltà alla propria verità interiore, si aggiungerebbe quello di non aver voluto concluderla con un gesto di coraggio e di speranza, tale da riscattare anni e anni di passività e rassegnazione.
Il destino dell'anima, la vocazione cui è chiamata sin dall'inizio, è quello di divenire sempre di più se stessa, spogliandosi di maschere e stratagemmi basati sul conformismo, sulla paura, sul quieto vivere; esattamente come il destino dell'uccello, la vocazione cui è chiamato sin dall'inizio, è quella di volare. L'anima che, per viltà e conformismo, rinuncia a divenire se stessa, è paragonabile a un uccello che, per paura di spiccare il volo, se ne rimane tutta la vita acquattato nel nido, a struggersi di nostalgia e di cattiva coscienza nel vedere i liberi voli dei suoi consimili.
L'anima non è solamente un dato, è anche una possibilità e, quindi, un divenire. È una conquista continua, quotidiana; e c'è sempre il pericolo di scivolare indietro, come uno scalatore inesperto che non sa individuare la via migliore per ascendere alla vetta.
L'ideale sarebbe che ciascuno, voltandosi indietro a contemplare la propria vita., potesse sentirsi in armonia con la propria essenza e, quindi, libero dai rimpianti; perché i rimpianti non nascono solo dalle occasioni sprecate, ma anche dalla infedeltà nei confronti della verità che custodiamo nel nostro intimo.
Tutti, più o meno, sappiamo di avere sprecato una serie di preziose possibilità per avvicinarci alla nostra essenza e per essere fedeli alla verità di cui la nostra anima è depositaria. L'importante è averne consapevolezza e riconquistare la stima di noi stessi, mostrando che non la paura, ma l'ignoranza ci aveva sviato dietro false immagini del nostro io.
Chi riesce a fare ciò, può ritrovare la pace e l'armonia non solo con se stesso, ma anche con il mondo e riscoprire il legame che lo unisce, per mille e mille fili, al mondo intero.
Avrà ancora dei rimpianti, forse; ma non più alcun rimorso: ed è questa la cosa più importante.