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In Iraq, il giorno dopo

di Anthony Shadid - 13/01/2009


La guerra, in un certo senso, è finita. Ma inizia una nuova lotta, mentre i cittadini si pongono l’inevitabile interrogativo: e adesso?




BAGHDAD – Forse è stato l’unico sparo udito in giorni, in un quartiere un tempo regolato dalla cadenza delle sparatorie. Forse sono stati i sorrisi ai checkpoint e le urla dei poliziotti iracheni che dirigevano il traffico sempre pieno di ingorghi. "Che Dio abbia pietà dei tuoi genitori", supplicavano. "Che Dio ti benedica". Forse il carillon che suonava ancora "Santa Claus Is Coming to Town", in un chiosco che traboccava di decorazioni per alberi di Natale e cuscini rossi a forma di cuore.

Per chiunque torni a Baghdad dopo avervi trascorso del tempo durante i giorni più bui, due anni fa, quando la città era paralizzata dall’odio confessionale e invasa da uomini armati che seminavano disperazione, la conclusione sembra inevitabile.

"La guerra è finita", dice Heidar al-Abbudi, un negoziante.

La guerra in Iraq in effetti è finita, per lo meno il conflitto come lo si era inteso durante i primi cinque anni: rivolta, pulizia fra gruppi diversi, battaglie fra bande per il controllo del territorio, e una ricerca anarchica, spesso vana, della sopravvivenza. In altre parole, la guerra civile – anche se guerra civile è sempre stato un termine troppo netto per definirla. L’entropia, almeno per adesso, ha fatto il suo corso. E anche molte delle forze che gli Stati Uniti avevano così pericolosamente scatenato con la loro invasione nel 2003, trasformando l’Iraq in un Paese atomizzato, fratturato, in preda a un parossismo di brutalità. In quell’Iraq, gli americani erano l'arbitro finale, e, di conseguenza, privavano di legittimità qualsiasi cosa si lasciassero dietro.

Questo non significa che in Iraq ci sia la pace. Il numero delle persone che oggi vengono uccise è lo stesso di qualunque giorno del 2003 e del 2004. E non c’è neppure vittoria. Per qualsiasi iracheno la parola, tradotta in arabo, provoca uno sguardo sbigottito. Vittoria per chi? Certamente non per le decine di migliaia di civili – forse molti di più – uccisi negli scontri frenetici di quelle forze un tempo in fase iniziale.

Piuttosto, è il giorno dopo.

Baghdad si sente molto come il sud del Libano dopo la guerra asimmetrica che ci fu nel 2006, fra Israele e Hezbollah, il movimento sciita che aveva combattuto Israele pareggiando. I sopravvissuti emersero dalle macerie delle loro case, dei loro uffici, e dei loro negozi con il sorriso soddisfatto della sopravvivenza – che in guerra è di per sé una vittoria. Poi vedevano la distruzione che i combattimenti avevano creato attorno a loro – e i volti diventavano scuri quando si rendevano conto del compito che li attendeva.

Forse è anche il giorno prima.

"Non sappiamo che cosa succederà dopo", diceva Shidrak George, uno spettatore, il 9 aprile 2003, mentre guardava gli uomini che assaltavano vanamente la statua di Saddam Hussein in piazza Firdaus con delle catene, un martello, e un cascata di sassi, prima di lasciare il posto a un voluminoso M88 – un veicolo blindato da recupero dei Marine - perché la buttasse giù. Il veicolo non si fermò. Non ne aveva bisogno.


Tutto rimaneva ghamidh: misterioso e poco chiaro, diceva.

"Vogliamo sapere quale sarà il risultato".

Una città di muri

Nei 1.250 anni della storia di Baghdad, i suoi abitanti le hanno dato molti nomi. Per Abu Ja’afar Mansur, il suo fondatore, era la Città della Pace: una capitale le cui mura erano così perfettamente circolari che un contemporaneo insinuò che fossero state realizzate con uno stampo.

La Baghdad di Saddam Hussein era una dimostrazione della sua megalomania: una strana distesa disordinata con un senso deturpato di grandeur. Dopo la sua caduta, la città venne messa a nudo, rivelando una creazione moderna di mattoni e fango, vulnerabile come i suoi abitanti. Divenne una città di lanterne in mezzo ai blackout, una città di fantasmi pedinati dalla paura, una città che era mahjura, abbandonata. Presto seguì l’architettura dell’occupazione, che cadde come un sipario: barriere di cemento monotone, disadorne, colorate del grigio scuro di un cielo coperto.

Oggi Baghdad è una città di questi muri.

Il quartiere di Dora sembra un carcere di massima sicurezza, completo di torre di guardia arrugginita. Sadiya ha un solo ingresso, dove a volte il traffico in attesa si snoda per quasi un chilometro. Sadr City è chiusa, poi divisa in tre parti più piccole. Amiriya è circondata. Come Hurriya e Shuala, Bayaa e Amal. Nessuno può vedere all’interno. Nessuno può guardare fuori.

In due anni, solo le parti esterne dei muri sono cambiate.

Adesso dichiarano la spavalderia delle unità dell’esercito iracheno: "La Brigata Leone resta un leone", dicono alcune scritte sui muri. Che avvertono: "Rispetta e sarai rispettato". Proclamano: "Lunga vita al nuovo Iraq." Fanno da tela a murali che rinunciano al passato arabo più contemporaneo dell’Iraq a favore della sua più antica gloria sumera e babilonese. Hanno la pubblicità delle agenzie di viaggi, dei cambiavalute, e delle agenzie immobiliari che ora proteggono. Mostrano i motivi floreali che, non molto tempo fa, erano più comuni sui manifesti dei martiri.

Soprattutto, i muri nascondono.

"Uno Stato distrutto" è stato il termine utilizzato dal presidente del Parlamento iracheno per definire ciò che gli americani hanno lasciato dietro questi muri. Mahmud al-Mashhadani lo ha detto con rabbia dopo essersi dimesso, a dicembre. Ma l'espressione risuona, sia nell’Iraq nel suo insieme, un paesaggio stanco in cui dominano sfumature di marrone, il colore della povertà, sia a Baghdad, una città dove tutto di questi tempi sembra storto o strappato, piegato o rotto, intrappolato in filo spinato che ha perso la sua lucentezza. Ogni spartitraffico ha i suoi mucchi di terra e di macerie, spesso entrambi. Ogni bordo di marciapiede ha la sua immondizia fradicia.

La fine di questa guerra sembra più tregua che trattato, più pausa che riconciliazione. Non c’è alcuna ripresa o rinascita, nessuna celebrazione. Si manifesta per lo più nella semplice levata di un assedio.

A una rotonda stradale un tempo nota come Piazza Ali Baba, l’acqua ogni tanto scorre da una fontana di bronzo che raffigura Kahramana [in italiano: Margiana NdT] , la giovane schiava che superò in astuzia i 40 ladroni delle "Mille e una notte". Ragazzi giocano a bigliardo sui tavoli che si trovano lungo tutto il pigro fiume – il Tigri. Lungo via Abu Nawas, i camion portano pesce destinato ai piatti di masguf, una specialità irachena.

In Piazza Firdaus, dove la statua di [Saddam] Hussein una volta aveva lasciato il posto ai carri armati americani che portavano scritto sulle canne "Beastly Boy" e "Bloodlust", e i soldati Usa avevano “sparato” dagli altoparlanti dei loro Humvee "Ring of Fire" di Johnny Cash, due studenti, Hussein al-Abbas e Amjad Abdel Hamza, si scattano foto a vicenda vicino alle altalene e alle panchine del parco.

"Per ricordo", dice Abbas.

Dietro di loro, la scritta su un manifesto: "La legge costruisce la nazione".

Fragile è il termine sul quale i funzionari americani si basano per definire questo Iraq, e in effetti, fragile lo è. In questo momento, il Paese si sente come se potesse riprendersi, economicamente se non fisicamente, benedetto da riserve petrolifere che sono potenzialmente le maggiori al mondo. Mentre va sgretolandosi, si sente come se potesse rimanere altrettanto un Paese impotente, flessibile, che sta cedendo sotto il suo stesso peso, dipendente da Stati Uniti che sembrano determinati a dettarne il futuro.

La gamma di possibilità compresa fra questi poli dipende dalla questione del potere. La lotta per questo potere -  una strada sono una serie di elezioni quest’anno; un altro mezzo, più familiare, sono i soldi, i fucili, e la repressione – pervade quasi ogni aspetto della vita oggi in Iraq.

Fragile, ripetono gli americani. Pericoloso, dicono molti iracheni, che si preparano ad altra violenza.

"Prima della tempesta, c’è sempre la quiete", dice Amal Salman, che vive con la famiglia a Karrada, in una strada fiancheggiata da venditori di cappelli con la scritta "Budweiser", "Wisconsin", e "Baylor Crew." Un chiosco offre manifesti di telenovele turche che hanno avuto un gran successo a Baghdad e in altri luoghi del mondo arabo. Foto di Hossam al-Rassam, un famoso cantante iracheno, ce ne sono poche.

Quando aveva 13 anni, la Salman aveva registrato giorno per giorno la caduta di [Saddam] Hussein nel suo diario. "Nessuno si rende conto che sono andati via, tutti, per sempre", scriveva nel 2003. Durante il capitolo più buio di Baghdad aveva conservato l’ottimismo. "Oggi il sole tramonterà, ma sorge sempre di nuovo. Tutto risorge", diceva allora. "Non so come esprimerlo, ma lo capisco".

Adesso, a 18 anni, è preoccupata.

"Il momento più pericoloso è sempre quando è tranquillo", dice.

La cultura della scarpa

Stando in piazza Firdaus, il 9 aprile 2003, con il veicolo da recupero dei Marine che stava facendo la sua parte, era difficile immaginare che gli Stati Uniti capissero veramente il Paese che avevano ereditato quel giorno. L’Iraq era un posto brutalizzato dalla guerra e dalla tirannia, imbevuto di ambivalenza riguardo al futuro, plasmato da un desiderio struggente del passato. Non si è mai conformato ai preconcetti americani. Né all'idea che avevano gli Stati Uniti di che cosa dovrebbe essere un Paese.

Questione di mesi, e presto vennero scatenate le forze che avrebbero dato forma all’Iraq: una rinascita sciita, la perdita dei diritti politici dei sunniti, l’importazione di una forma estremista di Islam, l’indurirsi delle identità etniche e confessionali, e l'inizio di una cultura anarchica di uomini coi fucili. Un amico iracheno una volta definì il loro retaggio la cultura della scarpa, che qui conoscono come la kundura.

"Quando qualcuno è contro di te, quando qualcuno ha delle divergenze con me, gli caccerò in  bocca una kundura, gli ficcherò in gola una kundura, lo colpirò con una kundura, e così via", diceva allora. "Viviamo in una cultura della kundura".

Oggi, molte di queste forze sembrano aver fatto a intermittenza il loro corso.

"In Iraq c’è una disintegrazione dell'intero establishment confessionale", dice Wamidh Nadhmi, un professore di scienze politiche, seduto nel quartiere di A’adhamiya, durante un pranzo tranquillo che consiste in una zuppa invernale fatta di rape e polpette di carne macinata. "Adesso tutti stanno cercando di lavarsi le mani del sangue di cui erano macchiate".

Il suo quartiere, un tempo pericoloso, ora è tranquillo. Non c’è il fragore intermittente delle sparatorie né il rumore sordo e monotono degli elicotteri. Il suo cancello non è chiuso a chiave. Neppure l’ingresso principale.

Il figlio, Jamal, annuisce  d’accordo, ma poi dà un avvertimento, e ammonisce il padre: "I tizzoni sono ancora ardenti".

Mercurio potrebbe definire al meglio la politica irachena di questi tempi, che salta, rotola, e si coagula, spinta e tirata da forze che sembrano sempre clandestine e furtive.

L’alleanza sciita dominante, un tempo benedetta dal Grande Ayatollah Ali Sistani, si è disintegrata. La figura di uno dei suoi leader, Abdul Aziz al-Hakim, colpito dal cancro e devastato dalle cure, sembra una metafora delle sue sorti. Il blocco che affermava di parlare a nome dei sunniti reticenti si è spaccato, incapace di mettersi d’accordo su un candidato per sostituire il presidente del Parlamento, che propende anche lui per la kundura. Si trova a fronteggiare la concorrenza del movimento dei Figli dell’Iraq, che è composto da molti che hanno abbandonato la rivolta per un posto a tavola. Il Primo Ministro sta chiamando a raccolta i sunniti contro i kurdi. Alcuni dei suoi alleati sono quegli stessi ex insorti.

Arabi sciiti, arabi sunniti, e kurdi sono sempre state descrizioni semplicistiche dell’Iraq. Adesso non hanno quasi senso di fronte alla costellazione combustibile di alleanze che stanno manovrando per rispondere alle domande che oggi sono al cuore della politica irachena: Quanto sarà forte il governo centrale di Baghdad, e quale coalizione di interessi si assicurerà il potere?

"E’ vero, le fiamme sono sparite", dice Abbudi, il commerciante, nell’affollata Karrada, seduto nel suo negozio di abiti da uomo ben fornito. "Ma la guerra continua fra i politici. Fino a adesso, c’è una grossa lotta in corso fra di loro".

In questo, il 2009 assomiglia molto a quel giorno di aprile del 2003. Allora, come adesso, la fine di una guerra era il preambolo di un’altra lotta, assai più intensa. Molto era ambiguo e indistinto. Le conseguenze non sono state volute.

Come oggi, tutto era ghamidh.

Washington Post

(Traduzione di Ornella Sangiovanni)