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Alain De Benoist: Un breviario esistenziale tragico e struggente.

di Stenio Solinas - 21/02/2006

Fonte: lineaquotidiano.it


Un breviario esistenziale tragico e struggente. Chi sposa il suo tempo rimarrà presto vedovo.

Alain De Benoist
“ULTIMO ANNO. DIARIO DI FINE SECOLO”

Dalle “guerre umanitarie” alla dottrina dei “diritti dell’uomo”, dalla crisi dello Stato sociale a quella dello Stato nazionale, dall’immigrazione alla globalizzazione, dalla crisi del Sacro all’esplodere dei conflitti religiosi.

Fra le molte
persone più
intelligenti di
me che conosco,
Alain de
Benoist è
quella che
occupa il posto più alto. Me ne
sono reso conto già trent’anni fa, da
tanto lo conosco, e questa consapevolezza
si è poi rafforzata nel tempo,
anno dopo anno, libro dopo
libro, convegno dopo convegno.
Intellegere vuol dire comprendere,
porsi delle domande e cercare di
darsi delle risposte, studiare, capire,
vagliare, se il caso rifiutare, non
accontentarsi mai. Il lettore di
“Ultimo anno. Diario di fine secolo”
(edizioni Sette Colori, 357
pagine, 18 euri) ha ora la possibilità
di vedere l’officina di una macchina
pensante, il perché di una riflessione,
come si organizza una ricerca,
il lavoro di analisi e quello di
sintesi, la disciplina sottesa a ogni
ricerca intellettuale, ed è uno spettacolo
affascinante. Dalle “guerre
umanitarie” alla dottrina dei “diritti
dell’uomo”, dalla crisi dello Stato
sociale a quella dello Stato nazionale,
dalla immigrazione alla globalizzazione,
dalla crisi del sacro
all’esplodere dei conflitti religiosi, i
temi chiave del XXI secolo ci sono
tutti e sono altrettanti stimoli a cercare
di navigarlo per evitare di
affogarci.
C’è tuttavia un elemento del libro,
dato dalla sua natura di diario giornaliero,
che permette anche di
cogliere dietro il filosofo, dietro lo
storico delle idee, quel nucleo intimo,
e quindi più segreto, che
riguarda il carattere, il modo d’essere,
i gusti e i disgusti, le fragilità
e i punti di forza, ed è questo aspetto
che lo rende unico e ne fa un
breviario esistenziale tragico e
struggente. I due aggettivi non sono
scelti a caso: Roger Nimier: “Bisognerebbe
vivere con tragica disinvoltura,
non prendere nulla sul
serio, ma tutto sul tragico”. Sarei
tentato di aggiungere che bisognerebbe
scrivere ogni riga come se
fosse il proprio testamento. Chi
sposa il suo tempo rimarrà presto
vedovo.
Tutto il libro, del resto, si iscrive
nel segno della solitudine, della
alterità, della differenza, avendo
ben presente davanti agli occhi i
guasti del tempo, il logorio del quotidiano,
la fine, spesso, delle illusioni.
È una condizione particolare
che si sperimenta fin da bambini,
come de Benoist coglie in un’osservazione
all’apparenza svagata:
“Ho incontrato per strada un
ragazzino di otto o dieci anni, che
camminava a testa bassa, leggendo
un libro. Spettacolo inconsueto,
soprattutto oggi. Era quello che
davo io tutti i giorni alla sua stessa
età, e anche molto tempo dopo.
Passando gli ho fatto l’occhiolino”.
Chiunque si sia abbandonato
alla lettura sin da piccolo sa che il
piacere che ne deriva nasce dal disagio
da cui si proviene: con intensità
e sensazioni diverse, i compagni di
classe, la scuola, la famiglia, in una
parola la vita, non è quello che vorremmo,
manca sempre qualcosa, siamo
sempre in attesa di qualcosa. En
attendant, leggiamo, e leggendo
ogni volta reinventiamo il mondo.
Questa dell’attesa, e quindi dell’inizio,
è una sorta di fatica di Sisifo,
perché ogni inizio contiene la sua
condanna e noi infatti ne cogliamo il
gusto quando ci rendiamo conto che
è finito.
“Per me l’origine è sempre bella. Mi
piacciono soltanto gli inizi. Solo le
frasi esordiscono con una maiuscola:
ogni inizio dipende dall’iniziale.
Che si tratti della storia dei popoli o
di una relazione tra individui, secondo
me è solo l’inizio che conta.
(Anche le storie d’amore, spesso,
non sono altro che un tentativo
disperato di ritrovare il sapore indimenticabile
del primo momento).
Per contrasto, ogni inizio mi fa pensare
alla fine. D’estate, quando il
sole è allo zenit, penso alla notte
invernale. In tutto ciò che è, vedo
profilarsi ciò che non sarà più”.
Il problema dell’inizio è il dramma
della giovinezza. Siamo consegnati a
un corpo che invecchia, condannati
ad essere visti dall’esterno, prigionieri
di un qualcosa che non rappresenta
ciò che noi sentiamo e che
però ci identifica agli occhi degli
altri: «“La cosa terribile, quando si
invecchia, è che si rimane giovani”
(Oscar Wilde). È vero, i nostri desideri
non invecchiano con noi. Per
gli altri, noi non siamo più gli stessi,
ma i nostri desideri e i loro oggetti
restano uguali. La misura del tempo
che passa è tutta in questo scarto».
E ancora: “Come è difficile non avere
mai l’età che si ha”.
L’idea di un’attesa e quindi di un inizio,
inizio,
la consapevolezza di una diversità,
il disagio nei confronti dell’esistente
e il fastidio per quello che è la
normalità comunemente accettata,
disegnano i contorni di una solitudine
attiva ma non per questo meno
reale: «L’unanimità è sempre inquietante.
Nella parola “sole”, a quanto
pare, c’è la stessa radice di “solitario”.
Non mi dispiace». E quindi:
“Come faccio ad essere contro gli
stranieri? Non c’è nessuno più straniero
di me nel mondo in cui vivo”.
Sentirsi soli non significa essere
individualisti. “Coloro che hanno
uno stile di vita personalissimo, molto
diverso da quello della massa,
sono considerati “individualisti”. È
curioso. Essere contrari all’individualismo
non significa fare come tutti
gli altri. Tutto il contrario. Significa
essere pronti a sacrificarsi per un
altro. Non confondiamo anticonformismo
e individualismo, i solitari e i
narcisi”. Allo stesso modo, essere
estremisti non va confuso con l’essere
rivoluzionari: «Un rivoluzionario
non si distingue né per il suo estremismo,
né per l ‘aspirazione ad un
“cambiamento totale” - espressione,
quest’ultima, il cui significato rimane
da stabilire. È piuttosto una questione
di stati d’animo. La prima
condizione di un rivoluzionario è di
sentirsi “estraneo”, radicalmente
estraneo, a tutto ciò che lo circonda,
senza però esservi, “per nulla al
mondo” indifferente».
Se “il problema dell’inizio” è la tragedia
della giovinezza, “il problema
dell’altro” è la tragedia della solitudine.
Risolvibile al livello delle relazioni
sociali e amicali, contrassegnate
dalla relatività, dalla molteplicità,
dalla simmetria, dalle consuetudini,
da un codice comportamentale,
è nel campo totalitario dei sentimenti
che non c’è soluzione. Ogni
storia sentimentale è nel segno di
una reciproca cessione di sovranità,
ma fatta da due eserciti stranieri che
anelano a riprendersela. «Si parla di
“donne fatali”. Ma tutte le donne
sono fatali! È per questo che l’amore
di un uomo per una donna è così
spesso tragico, mentre l’amore di
una donna per un uomo declina più
frequentemente nel drammatico.
Tra la tragedia e il dramma c’è
una differenza di sesso». E ancora:
“Ciò che è degno di nota, nella
felicità, è che fra le donne si tratta
di qualcosa di eminentemente concreto,
mentre per gli uomini, nel
migliore dei casi, qualcosa di assolutamente
astratto”. Il fatto è che
“gli uomini possiedono il corpo
delle donne, le donne possiedono la
mente degli uomini. Di che ci si
lamenta?”. E quindi, “non c’è nulla
di spregiativo nel constatare
come la seduzione esercitata da
una donna sia essenzialmente legata
al suo corpo. Nella donna, è il
corpo che esprime l’anima”.
La fisicità, il possesso, il desiderio
di nuove emozioni condannano a
una ricerca di cui sfugge sempre
l’oggetto finale: “Se l’uomo è fatto
per avere molte donne, non sarà
perché in fondo non è fatto per nessuna?”.
È una ricerca contro il
tempo, per almeno due ordini di
motivi. Il primo è che se è pur vero
che “l’amore è l’unica cosa che
ammazzi il tempo”, ciò non toglie
che alla fine “il tempo ammazza
l’amore”. Il secondo attiene all’ordine
delle cose, al nascere, al crescere,
all’invecchiare, al morire:
«Abel Bonnard: “la primavera è
soltanto la stagione del desiderio.
La stagione dell’amore è l’autunno”.
Bonnard ci prende in giro. Per
l’amore c’è un’età in cui si diventa
invisibili o ridicoli». Sia come sia,
l’invisibilità e/o il ridicolo arrivano
al termine di un viaggio in cui ci si
illuse di poter giocare in due quello
che, comunque, era un solitario.
«In un saggio trovo queste parole
terribili di Marguerite Yourcenar:
“L’amore è un castigo. Veniamo
puniti per non aver saputo restare
soli”».
“Ultimo anno” è anche, baudelairianamente,
questo “cuore messo a
nudo”, e non sorprende che il suo
autore, dopo aver osservato che
“scrivere in prima persona mi è
sempre riuscito difficilissimo”, e
aver precisato che comunque il lettore
non vi troverà “né la mia vita
privata, né quella moltitudine di
eventi di cui si nutrono i diari degli
scrittori”, debba però ammettere,
quasi suo malgrado: “Ho messo
molto di me stesso in questo libro.
Non si ripeterà”. Peccato, vien
voglia di dirgli.