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Ma in pratica che cos’è un’altra economia?

di Mauro Bonaiuti* - 28/02/2006

Fonte: carta.org

 

Già da qualche tempo, in particolare dopo la discussione estiva che ha coinvolto Liberazione, Carta e il manifesto, mi si sollecita a prendere posizione sulle valenze politiche della decrescita. Anche negli incontri pubblici, la domanda sul «che fare?», ossia quali dovrebbero essere i contenuti di un «programma» per la decrescita partecipata, sobria e conviviale, è tra quelle che ricorrono con più insistenza.

Inutile dire che questo bisogno di una «ricetta» per la decrescita «chiavi in mano» tradisce quanto siano profondamente imbevuti di cultura strumentale e utilitarista anche coloro che più avvertono la necessità di porre radicalmente in discussione il modello dominante. Per questo, sempre più spesso, mi capita di dire, in una battuta, che il primo passo verso la decrescita, debba essere un passo indietro. Indietro non nel senso di un nostalgico rivolgersi al passato [come ci viene strumentalmente rinfacciato] quanto piuttosto nel senso di uno stop alle nostre cattive abitudini, di una sosta e di una presa di distanza che ci consenta di rimettere in discussione le basi profonde, immaginarie, su cui si basa il nostro vivere in società.

Come ha giustamente argomentato Marco Deriu, il cammino verso la decrescita non può essere intrapreso senza prima accedere ad un percorso di disintossicazione, di purificazione del nostro immaginario dalle tossine diffuse a profusione dalla società dei consumi e della crescita. D’altro canto occorre divenire consapevoli che, per quanto le associazioni e i movimenti si affannino a proporre valori alternativi - la pace al posto della guerra, la cooperazione al posto della competizione, ecc. - questi valori non potranno mai affermarsi su vasta scala sino a quando non verranno rimesse in discussione le strutture economiche e sociali che producono questi stessi valori. Non mi sottraggo quindi alla domanda e, per quanto possibile, indicherò alcuni percorsi di trasformazione che, sul piano economico sociale, possono condurre verso una società della decrescita.

Un’economica decentrata

A livello economico decrescita significa innanzitutto una riduzione delle dimensioni [scala] dei grandi apparati produttivi [imprese transnazionali] e, più in generale, delle grandi organizzazioni [tecnocrazie, sistemi di trasporto, di cura, di svago, ecc.]. Il cammino verso un sistema economico e sociale sostenibile non potrà avviarsi seriamente sino a quando non si diverrà consapevoli che la gran parte delle risorse [e del lavoro] sono oggi impiegate non per produrre benessere, ma per alimentare le tecnostrutture stesse. Più è alto il grado di complessità, maggiore è l’entropia, maggiori sono le risorse che tali megamacchine esigono semplicemente per la loro autoconservazione. Poiché le dimensioni delle imprese sono inscindibilmente connesse alle dimensioni dei mercati, ridurre la scala dei sistemi produttivi significa spostare il baricentro dell’economia dai mercati globali ai mercati regionali e locali.

Il processo di riduzione della scala degli apparati produttivi e di valorizzazione della dimensione locale consentirebbe, al tempo stesso, di avviare il sistema lungo un cammino di sostenibilità ecologica. Anzi, in un certo senso potremmo dire che solo un’economia decentrata può disporre delle informazioni e degli strumenti necessari a realizzare forme di produzione ecologicamente sostenibili [chiusura locale dei cicli bioeconomici, ecc.]. D’altro canto un’economia decentrata è anche la sola che possa consentire di immaginare forme di controllo democratico della tecnologia, in altre parole possa disporre di un buon grado di autonomia e partecipazione. Non si tratta naturalmente di definire i dettagli, quanto piuttosto di delineare in modo partecipato la cornice all’interno della quale devono situarsi le modalità concrete di produzione della ricchezza, in modo da realizzare forme di produzione che abbiano interiorizzato la logica della sostenibilità, sia in senso ecologico che sociale. Mi pare evidente che è un obiettivo, questo, che non può essere perseguito, come sostiene Emiliano Brancaccio, attraverso «l’espansione dell’economia pianificata» che favorirebbe un’ulteriore estensione della tecnocrazia.

L’idea qui suggerita è invece quella di avvicinare la scala a cui si articola il processo economico a quella in cui si esprime la partecipazione politica. A scanso di equivoci è bene precisare, infine, che la valorizzazione della dimensione locale qui auspicata è immaginata nel contesto di sistemi di sociali e culturali aperti, e pertanto non va in alcun modo confusa con il localismo difensivo.

Sul piano della sostenibilità sociale [equità], dal momento che i fenomeni di polarizzazione della ricchezza hanno, nelle società capitalistiche, natura autoaccrescitiva, qualsiasi azione politica tesa a compensare queste spirali autoaccrescitive muove nella giusta direzione. Gli strumenti da adottare in questo senso possono ovviamente assumere forme diverse, dall’istituzione di nuove forme di redistribuzione dei redditi a livello globale [tipo Tobin tax], sino all’introduzione di soglie di reddito minimo e massimo, da definirsi mediante processi decisionali partecipati a livello locale.

Quanto alla questione della pace, decrescita significa [ri]organizzazione del processo economico secondo modalità non predatorie, in particolare di quelle risorse possedute da altri popoli/nazioni, come premessa indispensabile per non fare della guerra il solo modo possibile per la risoluzione dei conflitti. Siamo convinti che, per quanto la cultura moderna si sia profondamente allontanata, in particolare nel secolo scorso, da ogni senso del limite, questo sia profondamente iscritto nella biologia e nella psicologia umana. Esso rimane presente inoltre in altre culture, oltre a resistere e riemergere in varie nicchie della stessa tradizione occidentale.

Allo stesso modo, negli interstizi della società ricche, come nei vasti territori [pensiamo soprattutto alle campagne e alle periferie urbane] dei paesi meno avanzati, permangono forme di economia informale che non rispondono alla logica razionale e massimizzante propria dell’economia capitalistica. La creatività e la logica altra che caratterizza queste economie informali ne fa degli interessanti laboratori di decrescita conviviale.

Come è noto queste forme economiche rafforzano anziché distruggere il legame sociale. Esse muovono nella direzione della sostenibilità sociale in quanto comportano il progressivo trasferimento delle relazioni di scambio dalla sfera del mercato globale a quella della reciprocità. Questo universo comprende un’estrema varietà di forme, che vanno dalle relazioni neoclaniche, caratteristiche delle famiglie allargate africane [che dunque non prevedono alcuno scambio monetario], allo scambio di beni «relazionali» caratteristico delle imprese del cosiddetto terzo settore [le quali vendono i propri servizi su un mercato, seppur di tipo particolare], passando per molteplici forme «ibride» come ad esempio quelle caratteristiche dei sistemi di scambio locale [dove un mercato esiste, ma è vincolato da principi etici assai restrittivi e da scambi di prossimità]. In ogni caso, ciascuna di queste forme di scambio, sottraendo quote crescenti di domanda dai mercati tradizionali, rappresenta una sorgente di decrescita in senso stretto, oltre che laboratorio di un’altra economia e di un’altra società.

Una «strategia delle reti»

Tuttavia, affinché questo mondo possa avere la forza di sostenersi e di «gemmare» altre esperienze consimili, anziché essere assorbito dalla logica mercificante del mercato capitalistico [come è accaduto al movimento cooperativo], risulta fondamentale adottare una «strategia delle reti», che consenta di mantenere le risorse prodotte secondo criteri «solidali» all’interno della rete stessa. Questo permetterebbe a queste realtà «altre» di non essere costrette ad inseguire le imprese capitalistiche lungo la spirale della crescita competitiva, salvaguardandone la diversità. è questa caratteristica, le cui potenzialità non sono ancora state sufficientemente capite e studiate, a distinguere le reti di economia solidale [Res] dal comune «terzo settore» facendone un promettente laboratorio di decrescita.

Tutto ciò non è troppo lontano dal contesto economico e sociale che, per tradizione, caratterizza il nostro territorio. Da sempre l’economia italiana è caratterizzata da un tessuto di piccole e spesso piccolissime imprese capaci di forte innovazione, di notevole capacità di differenziare qualitativamente i propri prodotti e servizi, da un contesto insomma ricco di qualità e diversità.

Realtà produttive e sociali che, ormai da diversi anni, gemono sotto il rullo compressore dell’uniformazione planetaria, quando non sono già state decapitate dalla pialla della competizione globale. Ebbene, io ho il sospetto, per essere espliciti, che non solo gli immigrati, gli studenti, i precari, gli operai rimasti, gli impiegati o i dipendenti pubblici, ma nemmeno il tessuto delle piccole e medie imprese che caratterizza l’economia del nostro paese [e di buona parte d’Europa] abbia nulla da guadagnare da questa globalizzazione. Se dunque, come suggeriscono Ricci e Brancaccio, di conflitti di classe si deve ancora parlare, ebbene queste «classi» non comprendono certamente più gli stessi soggetti previsti dall’ideologia marxista ortodossa. Il problema è dunque, ancora una volta, innanzitutto, legato all’immaginario. Occorre decolonizzare le menti, rendere manifeste nuove vicinanze di interessi, ricreando, anche per questa via, quella solidarietà tra i soggetti economici che sola può consentire, in modo non traumatico, di iniziare lo sganciamento, in altre parole di osare la decrescita…

 

*docente di economia all’Università di Modena