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Politica estera italiana e crisi della destra

di Franco Cardini - 01/03/2006

Fonte: Comedonchisciotte

 

 
Duro febbraio, questo del 2006 che ci separa di poche settimane dalle elezioni del 9 aprile. Duro, fra molte altre cose, anche perché segnato dagli ormai enormi problemi relativi al rapporto fra Italia e mondo islamico.
Per tutto il lungo dopoguerra, fino a qualche anno fa, Italia e Spagna sono stati i due canali diplomatici attraverso i quali passava gran parte dei rapporti fra Occidente e mondo arabo-islamico. C’era, al riguardo, una lunga tradizione di amicizia, di buon vicinato, anche di coscienza di radici culturali comuni: e, dal momento che sostanzialmente buoni erano anche i rapporti con Israele, anche quelli tra lo stato ebraico e il Vaticano, non sempre rosei, trovavano nelle diplomazie italiana e spagnola un tramite saggio ed equilibrato.

Si trattava di qualcosa di prezioso, fra l’altro, per l’auspicabile e necessaria funzione di raccordo tra bacino mediterraneo ed Europa.
 
Bisogna purtroppo osservare che questa preziosa riserva di risorse non solo strettamente diplomatiche, bensì anche propriamente politiche, si è andata esaurendo ed è stata addirittura sperperata dal governo di centrodestra presieduto da Silvio Berlusconi, il quale l’ha sistematicamente – e con molta poca prudenza – sostituita con un indirizzo unilateralmente atlantista e filoamericano: con ciò prestando forse anche un servizio obiettivamente cattivo al potente alleato d’Oltreoceano, al quale era più utile un amico fedele ma un po’ più indipendente che conducesse una politica flessibile che non un troppo disciplinato dipendente.
 
Lo stesso Gianfranco Fini, che ha gestito la Farnesina in modo equilibrato ed elegante, per quanto attiene il Vicino oriente non ha né voluto né saputo recuperare il terreno perduto dall’Italia in termini di cordialità e di credibilità rispetto agli arabi e all’Islam.
La collaborazione militare con gli statunitensi in Iraq, discutibilmente travestita sotto il piano formale da contributo di peacekeeping, l’arrendevolezza eccessiva nei confronti dell’interlocutore statunitense in casi come quello dell’assassinio di Calipari o del negato “visto” d’ingresso in Italia a rappresentanti dell’opposizione legale irakena e infine l’appiattimento costante sulla linea americano-israeliana per quel che concerne la questione palestinese non hanno giovato alla nostra immagine presso i governi e le popolazioni arabe. E di riflesso in tutto l’Islam.
Un’occasione perduta: agire con maggior equilibrio non avrebbe certo guastato i nostri rapporti né con gli Usa né con Israele e avrebbe lasciato al nostro arco diplomatico una freccia in più, una delle più efficaci.
 
Le cose sono poi letteralmente precipitate prima con la pubblicazione delle caricature del Profeta, poi con la ridicola ma anche gravissima vicenda dell’ex ministro Calderoli, infine con gli strascichi delle dichiarazioni dell’esponente trotzkista Ferrando.
Cominciamo da queste ultime, per segnalare un apparente paradosso. Chi in questi gironi navighi on line si sarà senza dubbio imbattuto in una quantità impressionante di messaggi di solidarietà a Ferrando, escluso dalle liste elettorali di Rifondazione Comunista per aver affermate tesi confutabili magari, ma tutt’altro che stravaganti: che cioè la nostra missione militare di Nassiriya è in stretto collegamento con gli interessi dell’Eni in quell’area; e che in Iraq è in atto una guerra civile che s’innesta con un complesso conflitto d’indipendenza, per cui è impensabile ridurre alla categoria del “terrorista” tutti gli irakeni che contrastano in armi la presenza di militari stranieri nella loro patria e anche i nostri soldati sono parte delle truppe d’occupazione. Il popolo della sinistra sembra, se non compatto, abbastanza ampiamente schierato sulle posizioni di Ferrando; colpisce tuttavia che esse siano condivise anche da molti cattolici e soprattutto da parecchi componenti dello schieramento “di base” della destra sociale e popolare, non liberal-liberista, che fino ad oggi sembra aver appoggiato Berlusconi soltanto obtorto collo e che forse non è ormai non più troppo disposta a seguire i suoi stessi leaders storici nel continuar a farlo.
E’ ovvio che, da destra, si tenda alla dignità nazionale e anche all’interesse nazionale: ed è appunto su tali tasti che insistono, a proposito della nostra presenza in Iraq, gli esponenti di An. Ma una parte dei loro elettori o sostenitori o simpatizzanti, specie giovani, proprio date tali premesse la pensa, sull’Iraq, in modo diverso. E’ dignità nazionale il “patriottismo in conto terzi”, che ci ha condotto a impegnare i nostri soldati in una guerra voluta e gestita dagli americani, sia pur sotto la sottile coltre della copertura formale dell’Onu?

C’è dignità nel partecipare a una serie di azioni militari imposte da un alleato più potente e poco rispettoso, che in pratica nel corso del 2003-2004 ha detto chiaro e tondo, per bocca dei suoi esponenti di governo, che chi non si fosse impegnato in termini militari al suo fianco non avrebbe avuto parte nella distribuzione degli appalti per la “ricostruzione”?
Per che cosa sono davvero caduti i nostri soldati di Nassiriya, per la patria o per le concessioni petrolifere dell’Eni, gli elicotteri dell’Agusta, le armi della Beretta, le forniture della Benetton e tutte le altre componenti della fetta italiano del business irakeno?
E d’altronde, anche quei caduti – ai quali debbono andare tutto il nostro rispetto e la nostra gratitudine: sono soldati nostri, là inviati per volontà del nostro legittimo governo – non sono “poveri soldatini” di leva, sacrificati in servizio obbligato: erano professionisti seri, là in quanto volontari adeguatamente retribuiti, che sapevano benissimo quel che stavano rischiano e presumibilmente anche perché.
Il nostro onore nazionale sarebbe stato nel non partecipare a un’impresa militare dai contorni tanto equivoci: e qualunque tipo di retorica sulla bandiera e l’onore delle armi è offensiva, al riguardo, anzitutto per chi in tali valori sinceramente e dignitosamente crede.
 
Queste sono voci di destra, non di sinistra. Così come quelle di chi confessa di sentirsi ormai più vicino, dalle sponde di una destra radicale, alle posizioni della sinistra sui grandi temi dello stato sociale, del ruolo della dimensione pubblica nelle imprese, sulla politica previdenziale, sui temi della casa e del sostegno alle categorie più fragili della società, sulla politica fiscale e via dicendo. La sparizione della destra sociale, in An ormai ridotta a un ruolo marginale e di facciata nonostante la presenza di qualche buon leader, apre la strada a un interrogativo inquietante.
Chi si sente di destra, ma non è né liberale né liberista e mantiene un vivo senso dello stato e dell’indipendenza nazionale, dovrà continuare “stando a sinistra” la battaglia per la salvaguardia delle sue idee, quanto meno finché non si sia dissolto nel nostro paese l’equivoco-Berlusconi? 


Fonte:
www.peacereporter.net
Link:
http://www.peacereporter.net/dettaglio_articolo.php?idc=0&idart=4753
21.02.06