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Prospettive sulla reincarnazione

di Giuseppe Gorlani - 24/02/2009


 

Vanificare la validità della dottrina della metempsicosi o della rinascita  - enunciata inequivocabilmente in numerosi testi appartenenti alla Shruti e alla Smriti - con argomenti metafisici, significa contrapporsi alla norma tradizionale delle due verità, quella relativa e quella assoluta (cfr. Nagarjuna o Shankaracarya). È ovvio che, dal punto di vista di una metafisica realizzativa, relata all’Immanifesto o a Turiya, il Quarto stato (Caturtha), la questione della reincarnazione del jivatman non si pone, ma è altrettanto evidente che, sinché l’ente si identifica col divenire, soggiace al karma ed al samsara e ne deve rispettare le leggi. In India si direbbe che la dottrina capace di ispirare gli asceti, i sadhu o i sannyasin, percorrenti il nivritti marga, non è utilizzabile dal capo famiglia (grihastha) al quale il dharma ingiunge di percorrere il pravritti marga, e di produrre ricchezza e piacere.  Per gli individui che, sebbene avvertano al fondo di sé l’intuizione del Sommo Bene, vivono immersi nel rumorio del mondo, vale il discorso religioso. La funzione originaria della religione è giustappunto sia quella di relegere, e cioè di ordinare e orientare la vita umana secondo i Princìpi sui quali si fonda il kósmos, riconducendo così gradualmente l’ente alla Fonte, sia di religare, ovvero di legare strettamente e consapevolmente la luce riflessa alla Luce primigenia o, in prospettiva negativa, di avvincerla ad un dualismo irrisolvibile. Purtroppo, si sa, le grandi religioni monoteiste hanno spesso tradito le loro nobili funzioni, innanzitutto opponendosi con violenza le une alle altre in nome di un’impossibile pretesa di supremazia, e poi, manifestando al proprio interno una grave incapacità di integrare amorevolmente il ribollire di molteplici interpretazioni delle Scritture e di riconoscere i propri Liberati. Non riconoscere la Liberazione (o, se si vuole, la Salvezza, o l’Unione con Dio), mèta finale della vita umana, palesa l’intenzione di opporsi ad essa, imprigionando l’uomo entro le mura dell’impotenza e dell’alienazione.  Nell’ambito del Cattolicesimo, tanto per non fare che un singolo esempio, ricordiamo Margherita Porete, beghina francese,  arsa sul rogo come eretica nel 1310. Nella sua mirabile opera, Le Miroir des simples ames, la Porete, che in realtà era un’anima illuminata,  scrive : « Voi [e cioè l’anima liberata] vivete di solo grano, non avendo più volontà, / Mentre vivon di paglia e strame, e di foraggio grosso / Quanti hanno mantenuto l’uso dell’umana volontà. / Questi son servi della legge, ma costei è al di sopra della legge, / Ma non contro la legge»; la traduttrice, Giovanna Fozzer, commenta: «espressione sintetica della vera libertà dello spirito».
    Ramana Maharshi, jivanmukta sul quale è impossibile nutrire dubbi, sul tema “reincarnazione” ebbe a dire: «Se i meriti e i demeriti si equivalgono, si rinasce immediatamente sulla terra; se i meriti prevalgono sui demeriti, il corpo sottile va in cielo; se prevalgono i demeriti, va all’inferno. Ma in entrambi i casi rinascerà più tardi sulla terra. Tutto ciò viene detto nelle Scritture, ma se si rimane semplicemente ciò che si è davvero, non c’è né nascita né morte». E in modo se possibile ancor più chiaro: «Alla morte del corpo materiale, la mente rimane inattiva per un certo intervallo, come quando è priva di corpo nel sonno senza sogni. Poi diventa di nuovo attiva in un nuovo corpo, il corpo astrale, sino a riassumere un altro corpo materiale in quella che viene chiamata ‘rinascita’. Ma il jnanin, il realizzato la cui mente ha già cessato di agire, non è influenzato dalla morte. Per lui la catena delle illusioni si è spezzata per sempre».
   Se è vero che «Il Signore è il solo che trasmigra» - come sottolinea Alberto Cesare Ambesi nel pregevole studio, Dopo la morte non si rinasce -,  allora è altrettanto vero che non è lecito racchiudere entro definizioni anguste il mistero della sua Shakti (l’energia o forza dinamica primordiale). Dato che nessuno all’infuori di Lui gioca a obnubilarsi, manifestandosi come Atman rivestito dai cinque corpi o guaine (kosha), e a liberarsi, dobbiamo trattare con estremo rispetto i suoi balocchi. Ciò è adombrato nei miti relativi a Rudra e alla Creazione-Manifestazione: mentre Rudra suscita in Prajapati il desiderio di congiungersi con la propria figlia, Ushas, l’Aurora, cerca pure, paradossalmente, di impedire l’atto creativo per proteggere l’Increato. Rudra, in quanto Agni, prepara il seme per il Padre, suscitando in lui il desiderio erotico e, in quanto Arciere cosmico o Cacciatore selvaggio, scocca una freccia per impedire il coronamento di tale passione. «La sequenza di azioni contraddittorie - nota Stella Kramrisch ne La Presenza di Shiva - è tutt’altro che insensata e controproducente. Essa partecipa della natura stessa di Rudra che crea al fine di distruggere, per poi di nuovo creare in un inesauribile rinnovamento della vita sulla terra, nel quale la creazione è la risposta sempiterna alla distruzione, ed entrambe hanno il proprio fondamento e la propria antitesi nell’Increato».  Tale ambivalenza permea capillarmente la religiosità indica. “Shiva”, in sanscrito, significa letteralmente “fausto” ed è un epiteto con il quale i devoti si rivolgono a Mahadeva, il Signore degli Dei, affinché egli si mostri in forma serena e protegga gli asceti dalla follia.
   Venendo poi a quanto enunciato da Rene Guénon, ne Gli stati molteplici dell’Essere, non si capisce perché il gioco del Supremo di ritornare attraverso le anime individuali, suoi riflessi, a condizioni umane, animali o vegetali debba essere interpretato come limitazione della Possibilità universale: le forme in cui il Signore-Atman si manifesta non sono mai identiche le une alle altre. L’affermazione: «[...] a fortiori, nell’esistenza universale, il ritorno allo stesso stato è un’impossibilità»  è contraddetta dalla semplice osservazione della Natura, il Liber Mundi: i giorni ritornano, le stagioni ritornano, sempre uguali, sempre diversi. Secondo il musicologo Hans Kaiser, per il quale il ritmo è espressione numerica dello Spirito, un suono passa per un certo ciclo di “incarnazioni” successive prima di penetrare nell’ottava seguente: «Assistiamo qui allo straordinario fenomeno che si potrebbe dire transubstanziazione di una entità sonora attraverso mondi o ambienti che le sono del tutto estranei. Il numero di ricomparse in ciascuna ottava indica il suo “periodo” specifico nel processo di reincarnazione».  Ci sembrano dunque fondate e legittime le critiche portate da Piero Fenili ad alcuni aspetti delle proposizioni guénoniane rifiutanti la dottrina del jivatman trasmigrante in molteplici stati esistenziali, compreso quello umano, al quale egli riede ripetutamente in forme nuove, lungo la doppia spirale, centrifuga e centripeta, della Manifestazione. 
   Nel Kularnava Tantra, Shiva, pregato da Parvati di svelare agli uomini un efficace sapere soteriologico, insegna: «Erranti di nascita in nascita, essi conseguono quel corpo, di varia durata, felicità e sofferenza, che è proprio al loro stato e alla risultanza delle loro opere. E, o Amata, il corpo causale e il corpo sottile non periscono, finché la liberazione non sia raggiunta. [...] Passati attraverso miriadi di nascite in una o in un’altra delle quattro classi e come conseguenza di un grande merito, si è alfine uomo e, per realizzazione della Conoscenza, un Liberato. [...] O Parvati, è solamente per merito e attraverso difficoltà grandi che si perviene, dopo migliaia e migliaia di nascite in questo universo, allo stato umano di esistenza».  In queste poche righe Shiva spiega chiaramente che sono i corpi causale e sottile a passare attraverso «migliaia e migliaia di nascite». Per l’Advaita Vedanta essi rientrano nella sfera di avidya, espressione del potere mirifico di Maya, l’apparenza; malgrado ciò, la dottrina del karma e del samsara, quando non travalichi i propri confini, mantiene il suo grado di possibilità e di validità.
   Alain Daniélou, in una sua importante opera, si sofferma sui «pericoli della metafisica applicata», e dice: «Le nozioni puramente metafisiche non possono essere applicate sul piano pratico della religione»; tale «confusione di piani» dà luogo a delle «assurdità».  Sostanzialmente Ananda Coomaraswamy, nel suo saggio Gradazione, evoluzione e reincarnazione, sostiene la stessa tesi: «tra scienza e religione non esiste conflitto inevitabile ma solo la possibilità di confondere i campi rispettivi»; egli però, stranamente, pretende di applicare la sola chiave Advaita nell’esegesi dei testi tradizionali “animisti” «che sembrano affermare una reincarnazione di essenze individuali».  Il monismo shankariano, condiviso da Coomaraswamy, offre uno strumento realizzativo e non spiega perché invece della corda il viatore percepisca il serpente e in che modo venga travolto dall’errore o dall’incantesimo. Posto che la nostra intelligenza rifiuta di accettare l’esistenza di due assoluti, se ne deve arguire che anche l’“errore” e il “male”, coincidenti con la Manifestazione, sono “voluti” dall’Assoluto? È dalla consapevolezza delle sabbie mobili latenti in questo interrogativo che in India e altrove sono germinate le teodicee separanti la realtà del Creatore da quella della creatura.
   Nota giustamente Giorgio Giacometti in un suo scritto comparativo tra Plotino e Shankara: «Se la verità è quella della non-dualità, l’ignoranza di questa si accompagna all’illusione connessa al mondo sensibile e molteplice, da cui “ormai” sembra impossibile prescindere, anche solo per parlare della sua non esistenza. Tuttavia anche attribuire la causa dell’illusione all’ignoranza, come è ovvio, non risolve, ma si limita a spostare il problema. Qual’è la causa dell’ignoranza? [...] La “causa” del mondo, in quanto illusione, dunque, sembra collocarsi logicamente in un necessario “punto cieco” della dottrina. Perciò l’Advaita Vedanta preferisce tacerne» . Il “punto cieco” dell’Advaita-vada era già stato individuato ed analizzato profondamente da Madhvacarya, codificatore dello Dvaita Vedanta: «La dottrina della Differenza illusoria implica [come ho mostrato] l’impossibilità dell’Ignoranza ed è quindi infondata».
   Evidentemente tutte le dottrine hanno un limite: le parole. A nessun sistema concettuale, per quanto elevato, è dato esaurire l’Essere; soltanto la Conoscenza diretta, sovramentale, annullando ed accettando in un medesimo tempo l’apparenza o la realtà della separazione tra il Signore e il suo gioco, penetra il mistero e lo illumina irreversibilmente. Molte scuole teologiche indiane - alle quali si accompagna un diffuso sentimento popolare - ritengono poi che a tale Gnosi illuminativa si acceda soltanto per intercessione della Grazia del Guru o di Dio. Secondo Arnaud Desjardins, l’espressione Guru Kripa kevala contiene diversi livelli interpretativi: soltanto la Grazia del Guru concede la Conoscenza; io non aspiro che alla Grazia del Guru e a null’altro; «In verità tutto questo universo è Brahman»; «Tutto questo universo non è altro che la Grazia del Guru».
   Riguardo all’esistenza o alla non esistenza di Maya - che Shankara riteneva né esistente né non esistente - ci sembra assai saggio l’atteggiamento indicato da Karapatri nella seguente affermazione: «Venerando Maya, o la sua manifestazione, si venera la realtà che vi è dietro, l’inconoscibile Immensità sulla quale essa si fonda». E Abhinavagupta, in un balzo di intelligenza numinosa, scrisse: «Lasciate che la concezione della Differenza sia anche una cosa generata da quella Luce. Stando a ciò che abbiamo detto, essa può essere basata soltanto sulla nondualità. [...] Il nonduale di cui parliamo non è del tipo che vieta l’ingresso alla dualità. [...] La vera nondualità esiste quando si hanno simultaneamente espressioni come “Questo è dualità, questo è nondualità, questo è insieme dualità e nondualità”. Diversamente da voi, non abbiamo nulla da rifiutare e nulla da accettare».  Chi ha avuto un “assaggio” sia pur minimo del Sé, l’Io sono assoluto, non si identifica più in qualsivoglia giudizio - sebbene continui a comportarsi come un uomo “normale” -, e non pretende di misurare l’oceano con il bicchiere della ratio. Yoka Daishi, maestro Zen cinese, a conclusione del proprio Canto dell’Illuminazione, esprime il medesimo concetto: «La Suprema Illuminazione va al di là dei ristretti limiti dell’intelletto; / Smetti di misurare il cielo con una canna».
   Lo stesso Shankara, maya-vadin per eccellenza, venerava Mayadevi scrivendo in suo onore inni che tutt’ora vengono cantati in India; egli ripropose inoltre il pancayatana puja, ossia il culto alle cinque principali divinità hindu: Surya, Durga, Vishnu, Ganesha e Shiva.  Tale atteggiamento è emblematico dello spirito dei figli della Terra dei Bharata, i quali sono perfettamente consci della limitatezza e strumentalità di qualsiasi dottrina e quindi non temono il paradosso delle “due verità”, e neppure di amalgamare bhakti e vijnana, devozione ed intelligenza pura. In proposito ci sembra utile citare un’osservazione di Arthur Avalon, ricca di implicazioni significative: «Shankaracarya era “l’incarnazione della devozione” (bhaktavatara), oltre che un grande filosofo. Ma questo fatto è talvolta ignorato da coloro che non desiderano rammentare che colui di cui esaltano il genio speculativo fu anche il protagonista del cosiddetto “Hinduismo idolatra”».  In modo simile, Shri Ramana, puro jnanin, non si peritava di innalzare quotidiani inni ad Arunacala, un colle di arenaria rossa di cui era ardente devoto. 
   Negli Inni alla Devi-Prakriti-Maya, tradizionalmente attribuiti al grande Acarya codificatore dell’Advaita Vedanta, ravvisiamo, al di là delle somiglianze, un’importante differenza tra la gnosi manichea e quella shankariana: la prima, pur insegnando che le anime individuali sono consustanziali a Dio («attraverso noi, Dio salverà se stesso. Dio sarà insieme salvatore e salvato, il Salvator Salvatus o salvandus» ), attribuisce alla Materia-Male-corpo le peggiori qualificazioni ed uno stato principiale non diseguale da quello del Bene; la seconda, non contrapponendo drasticamente il Sommo Bene alla Materia-Ignoranza - a cui non riconosce una realtà intrinseca separata da Quello (Tat) -, le assegna una doppia valenza: imprigionante e salvifica («Tu sei la terra, Vidhatri, creatrice del mondo» e «Liberatrice del mondo dalle nascite e le morti» ; oppure, attingendo ad una diversa fonte: «Illimitate e imperiture, le acque cosmiche sono nello stesso tempo la fonte immacolata di tutte le cose e la loro tomba temibile»).
   Nelle note anonime (probabilmente di Julius Evola) che accompagnano il testo tantrico poc’anzi citato, leggiamo: «A proposito delle varie “nascite”, non ci si deve riferire alla veduta popolare e exoterica “reincarnazionista”: si tratta di passaggi in varî stati di esistenza, di cui quello umano o terrestre non è che uno particolare. Nei versi del testo il parlare di “miriadi di nascite” ha un senso soprattutto simbolico».  A noi pare che da questo commento non si evinca alcuna ragione in grado di negare la possibilità della dottrina della metempsicosi: sicuramente lo stato umano è uno tra i tanti stati dell’Essere, ma ciò non significa che ad esso non si possa riaccedere; e inoltre, sostenere che l’espressione «miriadi di nascite» abbia un valore puramente simbolico è un’ovvietà ininfluente, dato che, nello stesso momento in cui si inizia a parlare o a scrivere o a insegnare, non si può che utilizzare, volenti o nolenti e con sfumature plurime di pregnanza, lo strumento del simbolo.  Non a caso, presso la Tradizione tricotomica del Sanatana-dharma - la più vicina alla radice primordiale, poiché onnicomprensiva di tutti i possibili approcci al Divino: teologie della Differenza, dell’Identità e della Differenza nell’Identità - la forma più alta ed esauriente di insegnamento è il silenzio (mauna): il Liberato, il Muni, irradia la propria realizzazione spontaneamente e silenziosamente, come una fiamma il suo calore.
   Prima della venuta del Cristianesimo, la fede nella metempsicosi era ampiamente diffusa anche in Occidente. Nella Grecia antica, l’idealtypus dello iatromante (medico, indovino, purificatore e taumaturgo), legato ad Apollo Iperboreo, si componeva di alcuni tratti distintivi, tra i quali l’anamnesi delle vite precedenti. Epimenide e Pitagora si ricordavano delle loro vite anteriori umane, ed Empedocle, che sembra avesse realizzato in vita la translatio ad deos, affermava di essere stato un giovanotto, una ragazza, e altresì un arbusto, un uccello e un pesce del mare.
   Il chiedersi se esista o non esista un’anima trasmigrante costituisce il punto focale della questione. Se si adotta esclusivamente il punto di vista supremo (paramarthika) null’altro esiste all’infuori del Sé e l’io empirico vale quanto il sollevarsi di un’onda sul mare, ma se ci si pone sul piano relativo (vyavaharika) il jiva, riverbero di Ishvara, è detentore di un grado di realtà. Il Purusha o il Manu, l’Uomo cosmico, emanazione diretta di Brahma, è l’anima universale, la grande fenice, alla quale attingono i varî jivatman, le anime individuali, le piccole fenici o, più precisamente, i fenicotteri rosati migranti dalle tenebre alla Luce.  Del resto, se privassimo l’uomo di ogni “io” lo svuoteremmo di pregio, e inoltre lo metteremmo in palese contrasto con l’esperienza ordinaria, fondata sulla presenza centrale di una persona responsabile che pensa, sceglie, agisce e trasmigra attraverso i vari corpi del bambino, dell’adolescente, dell’uomo maturo e del vecchio, o attraverso i tre stati esistenziali: veglia, sonno con sogni e sonno profondo. Sostenere: «io sono un insieme di aggregati transitori e quindi non esisto, ma ciononostante aspiro alla Liberazione e scelgo di rinunciare al nirvana per amore di tutti gli esseri» (tale è la più comune interpretazione del Bodhisattva) equivale a porsi in uno stato di totale illogicità: qualsiasi cosa si dica o faccia c’è sempre un soggetto, e qualsiasi mèta ci si ponga occorre averla già in sé.  Unicamente chi abbia realizzato la propria natura-identità originaria, non sceglie e non rifiuta. L’antinomia di cui sopra è tipica di un certo Buddhismo decettorio e nichilistico che, interpretando la dottrina dell’anatman come negatrice e dell’io empirico e del Sé, si pone in contrasto con tutto, persino con alcuni suoi capisaldi dottrinali: la natura umana del Buddha, l’autoliberazione, la verifica diretta dell’insegnamento. Se il sentirsi uomo-persona o il sapersi Sé-certezza sono espressioni di totale ignoranza equivalenti a nulla, da dove provengono gli sforzi capaci di condurre all’emancipazione dal dolore?  Significativamente, alcune scuole buddhiste hanno sentito la necessità di riassumere e ridare valore, almeno strumentalmente, all’“io” dotato di volontà e discriminazione, e al concetto di Shunyata, di solito inteso in chiave privativa, hanno attribuito la qualificazione di plenum-Assoluto, affermato necessariamente anche dal più accanito negatore di qualsivoglia Realtà-sostrato.  Von Glasenapp ci informa che: «Secondo la teoria del pudgalavadin, rigettata dagli ortodossi, come pure nella dottrina della “coscienza deposito” dei vijnanavadin, assistiamo a due diversi tentativi per reintrodurre, in un modo o nell’altro, l’anima detronizzata nella dogmatica del sistema e dare una soluzione alla questione del perché mai l’individualità rimanga costante in una personalità mentre il suo corpo, le sue idee ecc., sono soggetti ad incessanti mutazioni». E sulla questione dei vari modi di intendere l’anima individuale, scrive: «Mentre per i vedantin e per la più gran parte delle sètte vishnuite e shivaite le anime individuali sono, in una forma o nell’altra, della medesima essenza dello spirito totale, la mimamsa, il samkhya (classico), lo yoga, il nyaya-vaisheshika, i madhva e i pashupata le reputano delle entità a se stanti. [...] Mentre il corpo grossolano (sthula-sharira) viene ad esistere mediante la nascita e a scomparire con la morte, quello sottile accompagna l’anima ab aeternitate attraverso tutte le esistenze; e viene scrollato di dosso soltanto col raggiungimento della salvazione. [...] Per quanto riguarda il processo delle reincarnazioni, questo corpo sottile riveste un’importanza speciale in quanto trasferisce nella vita successiva, sotto forma di engrafie dell’intelletto, il karma prodottosi nell’esistenza anteriore».   
   Secondo i negatori della dottrina reincarnazionista, non vi è un’anima individuale centrale capace di testimoniare i cambiamenti susseguentisi nella parabola esistenziale umana; Paolo Menegot, autore di uno studio intitolato Reincarnazione - Un mito senza fondamento, afferma: «La coscienza, in verità, non è mai la stessa da un giorno all’altro, come potrebbe sopravvivere e passare da una vita all’altra? [...] gli esseri relativi sono nulla» . In modo del tutto diverso si esprime Krishna Dvaipayana, detto Vyasa, divino Autore del Mahabharata comprendente l’episodio della Bhagavad-gita: «L’anima incarnata nel corpo esperimenta l’infanzia, la giovinezza e la vecchiaia; poi riprende un altro corpo. L’uomo che ciò conosce non trae [alcuno] smarrimento» (II, 13). «Il fatto che il nostro “io” - commenta Edouard Bertholet - rimanga immutato durante questi tre periodi per i quali passa ogni uomo, ci indica ugualmente che è così attraverso tutte le nostre esistenze successive» . E infatti la Bhagavad-gita aggiunge: «Come un uomo deponendo i vecchi abiti ne prende dei nuovi, così l’anima incarnata (dehi), deponendo i corpi logori, entra in altri nuovi» (II, 22).  Agli studiosi i quali ritengono che il ritorno del jiva allo stato umano sia, per dirla con Guénon «un’impossibilità pura e semplice [...] cioè un puro nulla», si oppongono le seguenti parole di Krishna: «colui che ha fallito nello yoga rinasce / nella casa di persone virtuose e prospere, / oppure nasce proprio in una famiglia / di sapienti yogin».  La chiarezza palmare di tali versi ci sembra difficilmente contestabile: «La Gita afferma che colui che fa il bene rinascerà in una buona famiglia di uomini santi e spirituali, e dopo aver raggiunto la perfezione attraverso varie rinascite, raggiungerà il suo scopo finale (moksha)».  
   Anche Patrick Ravignant, imbevuto di influssi buddhisti, shankariani e aurobindiani, abbraccia la tesi dell’inesistenza dell’anima individuale; in un suo serio studio sulla reincarnazione scrive: «Nell’ottica induista il Jivatman non deve in alcun modo essere confuso con la nozione di anima individuale nel senso in cui l’intendiamo generalmente in Occidente. Per l’Oriente l’io non è che una trama di apparenze mutevoli e fuggenti, senza una propria consistenza».  La seconda asserzione è un’evidente generalizzazione: l’abbondanza di concezioni sulla maggiore, minore o illusoria consitenza della dimensione fenomenica e del suo rapporto con la Realtà ultima costituisce una caratteristica peculiare dell’Oriente. Alla prima proposizione fronteggiamo l’autorevole testimonianza della Shruti: «[L’anima individuale,] dotata di qualità determinate, compiendo azioni che producono una ricompensa, fruisce dell’azione compiuta. Passibile di ogni forma, soggetta ai tre guna, avendo a disposizione tre strade [come dio, come uomo, come animale,] essa, signora delle facoltà sensorie, vaga [nel ciclo delle esitenze] secondo le sue proprie azioni»;  «L’anima individuale si determina secondo particolari condizioni, nelle forme che sono conseguenza del suo <precedente> agire, secondo il proprio grado».    
   Qualora, attenendosi ad alcune correnti delle teologie vaishnava, si ammetta che l’“io” trasmigrante sia  una pedina nel gioco-lila del Signore, si deve considerare che qualsiasi critica gli si rivolga - ravvisando in essa il male, l’ignoranza o la sofferenza - diventa, fuori dai suoi giusti confini, persino blasfema: contestare la provvidenzialità del Logos onnicomprensivo ed onniveggente non è segno di sana intelligenza. In sintesi, l’attività divina o Shakti-Maya non può essere spiegata, né il suo enigma risolto, qualunque proprietà le si conferisca  (apparente, inesistente, reale, oscura, dolorosa, gioiosa, mirifica, ecc.): «Si narra che una volta un gruppo di santi uomini si era riunito intorno al venerabile Vyasa nel cuore di una foresta. Parlando essi gli dissero: “Tu che conosci l’ordine eterno degli dèi rivelaci la natura segreta della maya di Vishnu”. Vyasa rispose: “Chi può comprendere la maya del Dio supremo se non il Dio in persona?». 
   Pure l’insegnamento secondo cui l’uomo è privo di ogni “io”, e persino del Sé, ha un suo aspetto decisamente deleterio e pertanto non andrebbe indiscriminatamente divulgato. Oggi, come effetto, tra l’altro, della sua diffusione, si sono sviluppate forme perniciose di scientifismo riducenti la persona ad un mero meccanismo biologico; questa, privata d’ogni valore sovrasensibile, diventa necessariamente carne da macello e oggetto di crudeli sperimentazioni. Ne diamo un esempio eclatante: i mass media sono riusciti a convincere milioni di persone che gli organi vitali utilizzati nei trapianti vengono prelevati ad uomini morti. A tale risultato si è pervenuti impiegando l’escamotage della “morte cerebrale”: il cervello sembra non funzionare ma il cuore batte, e il sangue e l’aria circolano. I cosidetti “donatori” sono pertanto persone del tutto vive, sebbene in gravi condizioni di salute; ai fini dei trapianti la realtà non potrebbe essere diversa, giacché gli organi diventano immediatamente inservibili dopo la morte.  Ad un tale stato di barbarie non si sarebbe giunti se il nichilismo ed il materialismo impliciti in un certo Buddhismo deviato ed in altre correnti filosofiche moderne non fossero dilagati in Occidente, obnubilando le menti.  Per contro, la sapienza sia d’Oriente che d’Occidente ha insegnato in ogni tempo la costituzione ternaria dell’uomo, composto da corpo, anima e spirito. Al momento della morte - dice la Tradizione - l’anima si ritira gradualmente attraverso i vari corpi (fisico, pranico, mentale inferiore e superiore, causale) per andare incontro al proprio destino; in funzione di ciò le religioni hanno perfezionato svariati sistemi di accompagnamento del moribondo e del morto. Morte e nascita sono momenti fondamentali nella vita di un uomo, ed egli li vive ogni giorno, ogni notte e, meglio ancora, ad ogni salire e scendere del respiro (Aham-Sah, “Io sono Lui”, o So-Aham, “Lui è me”),  preparandosi all’incontro con la Luce nel momento estremo del trapasso; in un mondo normale - e cioè ordinato secondo la Norma - sarebbe superfluo precisare che in tale circostanza egli necessita di essere particolarmente rispettato e lasciato in pace. Provate ad immaginare quale “buona morte” si esperirebbe se, mentre ritiriamo la coscienza dagli organi vitali, potenze dell’anima, preparandoci ad uscire dal corpo fisico il più possibile alleggeriti da samskara e vasana, mani crudeli ci aprissero il petto per estrarvi il cuore pulsante, centro della coscienza. Considerato quanto sopra, non è un’esagerazione dire che l’espianto di organi vitali è a tutti gli effetti una tortura ed una uccisione legalizzata, spalancante le porte degli Inferi.  La Bhagavad-gita, libro tra i più atemporali e sublimi, ritrae con precisione gli ipocriti dediti all’adharma: «Questi uomini di natura demoniaca dicono che non esiste nel mondo né verità, né ordine, né Provvidenza, che il mondo è un composto di fenomeni e che è solo un gioco del caso. Avendo questa opinione, questi sventurati ‘io’, privi di comprensione e pieni di violenza vengono quaggiù come nemici del mondo» (XVI, 8, 9).   
   Tornando al tema centrale di questo scritto, ricordiamo che il già citato Ramana Maharshi, riferendosi ad animali diceva: «Non sappiamo quali anime possano occupare questi corpi, né per l’esaurimento di quale parte del loro karma essi cerchino la nostra compagnia».  Una volta riconosciuta una realtà sia pur relativa all’anima individuale, la possibilità che questa rinasca in successivi corpi umani o animali è ammessa. Quando a Shri Ramana venne chiesto: «La concezione indù della reincarnazione è corretta?», egli rispose: «È impossibile dare una risposta precisa ad una domanda del genere».  Alain Daniélou, profondo conoscitore dell’India, osserva: «Il fatto che le vite anteriori presentino l’aspetto della continuità di un io trasmigrante attraverso corpi senza alcun rapporto gli uni con gli altri, o si configurino come una successione di io ancestrali, che si perpetuano in una stessa carne attraverso corpi legati l’uno all’altro tramite l’ereditarietà, non cambia di molto la questione. [...] Da un certo punto di vista la possibilità di elementi di memoria trasmessi ereditariamente con un gran numero di altri caratteri sembra più verosimile di quella di un io disincarnato che ritrova sempre se stesso».  Apprezziamo la forma dubitativa adottata da Daniélou: non è saggio proporre un’ipotesi, o la propria opinione, come se fosse una verità indiscutibile.
   È significativo che Ambesi nella sua dotta esposizione volta a dimostrare l’impossibilità della rinascita, si ispiri, per quanto riguarda l’Oriente, a dottrine buddhiste e solo di sfuggita ad un passo della Brihadaranyaka-upanishad ed alla celebre riflessione shankariana: «Il Signore è il solo che trasmigra», tratta da un commento del grande Acarya al Brahma-sutra. Ciò riflette, a nostro avviso, la tendenza occidentale a identificare l’Oriente col solo Buddhismo o, tutt’al più, con l’Advaita Vedanta. In realtà, nella Tradizione Hindu, più propriamente definibile come, la Religione eterna (Vedikamatha), tali insegnamenti non ne rappresentano che  aspetti parziali, sia pur sublimi.  E invece, chi abbia avuto per dharma l’opportunità di immergersi in profondità nel kósmos orientale sa che la realtà dell’India è più variegata e complessa di quanto la nostra forma mentis di occidentali moderni ci consenta di immaginare; in essa la molteplicità di prospettive e di approcci al Divino non viene percepita come un pericolo di perdita di forma, e fonte di conflitti, bensì come segno della natura inesauribile del Supremo.   
   L’animus bonus indico rifugge dal vuoto e dalla mancanza di senso; secondo tale sensibilità l’“estinzione” nirvanica non può significare altro che il ritorno del jiva o dell’atman al Paramatman, o il ritorno del Supremo a Sé stesso, e la Manifestazione viene percepita e sentita come irradiazione ciclica del Soggetto ultimo. Agli occhi dell’uomo semplice o nobile, vicino alla terra e al cielo, tutto ritorna: i giorni, le stagioni, gli esseri, e tutto è segno della viva presenza di Paramashiva: trascendente, immanente, “lontanovicino”, nonduale, uno, bipolare, trino e molteplice insieme.
   Non riusciamo a leggere nella citazione manichea, portata da Ambesi, un ulteriore e definitivo discredito delle dottrine reincarnazioniste: «[...] all’Uomo mortale, figlio della materia e della Luce, è dato d’incontrare dopo la morte il proprio Salvatore e tre angeli che gli recano rispettivamente il premio della vittoria (sulla materia), una veste di Luce, un serto, un diadema e una corona, egualmente risplendenti». E se invece di vincere sulla materia, egli ne rimanesse sottomesso, quale sarebbe la sua retribuzione? A quale destino glorioso o inglorioso può andare incontro l’uomo mortale se l’“io-anima” che lo essenzia «non è che una sucessione di emozioni e pensieri» inesistente? Ci risulta, inoltre, che il Manicheismo riconoscesse la legge del karma e, conseguentemente, la dottrina della metempsicosi e della reincarnazione: gli auditores dovevano rinascere electi per attingere alla salvazione. Il Puech nota: «L’elemento da salvare è la nostra anima; l’elemento salvifico è lo spirito o l’intelligenza (nous), la parte superiore del nostro io».   
   Concordiamo con Ambesi laddove stigmatizza «i nostrani, ineffabili reincarnazionisti», i quali, distorcendo insegnamenti autenticamente tradizionali, affermano la reincaranazione come strumento di autogratificazione spicciola e di speculazione economica: non è infrequente incontrare persone che, senza vergogna, dichiarano di essere stati Maometto, o Leonardo da Vinci, o Giulio Cesare, e i centri “spirituali” new age abbondano di libri e di corsi a pagamento finalizzati all’insegnamento di tecniche atte (almeno nelle intenzioni) a suscitare l’anamnesi, e cioè la reminescenza delle vite anteriori. Le dottrine tradizionali sono però tutt’altra cosa. Si legga in proposito l’introduzione del filosofo contemporaneo T.M.P. Mahadevan al Brahma-sutra-bhashya di Shri Shankaracarya: «After physical death, the soul may go along either the path of the gods (devayana) or the path of the fathers (pitriyana), carrying along with it the subtle parts of the elements and the sense-organs, etc., that had formed the ingredients of its constitution.  [...] There is also a third place mentioned in the Shastra: the souls that are not fit to pursue either of two paths referred to attain the status of tiny, continually revolving creatures which are born and which die (B.S. III. i. 17). The souls that are bound for the other two paths also except in the case of those which have realized Saguna (Qualified) Brahman, have to return to the world of mortals, as soon as their merit is exhausted. [...] The texts describe the process by which all this happens. They give details regarding the re-entry of the soul into mother’s womb and its re-embodiment. [...] The migration of the soul goes on until it gets released through the realization of the non-dual Brahman».
   Quanto testé riportato riassume un vastissimo campo di informazioni; le citazioni che si potrebbero estrapolare dalle Scritture Hindu a favore della dottrina tradizionale della rinascita sarebbero innumerevoli. Non riteniamo tuttavia opportuno appesantire ulteriormente questo modesto lavoro, la cui finalità non è tanto quella di difendere la verità della reincarnazione o della metempsicosi, o di negarla, quanto di invitare ad una maggiore prudenza nel porre limiti all’imperscrutabile energia manifestativa scaturente dall’Intelligenza suprema. Yoka Daishi sostiene: «Il “No” non è per forza “No”, né il “Si” è “Si”».  E Agnes Arber: «Gli autori persiani avevano manifestatamente la facoltà di pensare su qualsiasi materia in più di una maniera nello stesso tempo [...] La mente occidentale media è incline, al contrario, ad operare a norma del rigido schema: “o ... o ...”, sì che vediamo, per fare un esempio, o i colori dell’arcobaleno, o la luce bianca. I Persiani, dal canto loro, pensavano in termini di : “sia ... sia ...”».
   Qui giunti ci avviamo rapidamente alla conclusione con un’ultima riflessione: sebbene sia giusto e auspicabile rifarsi all’autorità dei saggi realizzati, in primis, e poi degli Avatar, delle Scritture, degli Dei, dei geni e dei dotti, non bisogna dimenticare che è al fondo di se stessi, nel non-luogo dell’Eterno Presente, che occorre attingere l’ultima Parola.  Nel Mandala, il cui Centro è dappertutto e la cui circonferenza non è in alcun luogo, siamo contemporaneamente morti e vivi, unici e molteplici, liberi e avvinti alla ruota del samsara: nel cuore dell’uomo che si sia risvegliato alla perfezione onnicomprensiva del Sat-cit-ananda (Esistenza, Coscienza e Beatitudine assolute), tutte le contraddizioni si sciolgono come nebbia al Sole.