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La rivolta contro le macchine si configura unicamente come una posizione reazionaria?

di Francesco Lamendola - 04/03/2009


«L'uomo moderno ha bisogno di ben altro, che di inventare delle macchine», ammoniva, nella prima metà del Novecento, un profeta inascoltato, il francese Drieu La Rochelle, del quale ci siamo di recente occupati in un apposito articolo («Drieu La Rochelle vide lo spettro di una nuova guerra e per questo credette nell'Europa unita», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
Eppure, le macchine hanno scandito tutte le tappe della modernità: dai primi telai meccanici nell'Inghilterra del Settecento, fino ai giganteschi complessi siderurgici e alle centrali atomiche che caratterizzano il paesaggio odierno dell'Europa, della Russia, degli Stati Uniti, della Cina e del Giappone.
Fin dal loro primo apparire, esse hanno suscitato perplessità, timore, odio: intuitivamente, lavoratori e parte delle stesse classi dirigenti si sono resi conto che la loro comparsa avrebbe segnato l'inizio di una tragedia sociale senza precedenti: la perdita del lavoro di migliaia e migliaia d'individui e, viceversa, la rapida concentrazione del capitale nelle mani di pochi altri, accentuando le disuguaglianze economiche e creando enormi tensioni sociali.
I luddisti furono i primi a scendere in capo, in forma violenta e determinata, contro l'introduzione delle macchine infernali («sataniche», le aveva definite il poeta inglese William Blake). Di loro ci siamo occupati nel recensire il libro di Kirkpatrick Sale: «Ribelli al futuro: I luddisti e la loro guerra alla rivoluzione industriale (Arianna Editrice, Casalecchio, Bologna, 1999; titolo originale: «Rebels against the future. The luddites and their war on the industrial revolution», 1996), nel nostro articolo «Luddismo: rivolta dei perdenti  o profezia di  un  altro  futuro  possibile?», pubblicato  sul numero 7 del 1999, anno XX, pp 5-7, dei «Quaderni» dell'Associazione Eco-Filosofica, oltre che reperibile  sul sito di Arianna.

Di un vero e proprio «odio per le macchine» ha parlato l'insigne storico tedesco Jürgen Kuczynski, già docente all'Istituto Economico di Berlino Est e membro dell'Accademia della Germania Orientale; classico esempio di scarsa comprensione delle ragioni - non tanto umane, quanto ideologiche - dei luddisti in rivolta contro la civiltà delle macchine.
Kuczynski, in quanto storico di tendenza marxista, non può non vedere nella macchina unicamente un fattore di espansione delle forze produttive e, in prospettiva,  di emancipazione e di progresso per l'umanità intera. Non lo sfiora il dubbio che  il sistema industriale, indipendentemente dalla sua gestione socio-politica, possa costituire un fattore di alienazione e di pericolo per la dignità umana, oltre che di devastazione ambientale; l'alienazione, per lui - come per Marx - non è causata dalla macchina, ma dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, macchina compresa.
Egli espone questo punto di vista nel suo libro «Nascita della classe operaia» (titolo originale: «Das Entstehen der Arbeiterklasse», 1967; traduzione italiana di Giorgio Bachaus, Milano, Il Saggiatore Editore), il quale, se non altro, ha la giustificazione di essere stato scritto quasi quattro decenni fa, quando ancora l'ottimismo positivistico e la fiducia incondizionata nel progresso meccanico quale fattore di liberazione delle energie umane manteneva ancora le sue posizioni, insieme alle illusioni circa la portata libertaria del marxismo stesso.
Ecco il quadro che egli traccia della ribellione operaia contro le macchine (Op. cit., pp. 52-58):

«La moderna classe operaia è il prodotto della macchina. Essa è una associazione di uomini che non si è costituita per ragioni politiche né per qualsiasi altra ragione, né per inclinazione personale, né per adesioni individuali dei suoi membri. Essa è il puro e semplice risultato dello sviluppo delle forze produttive, è una creazione della macchina, più precisamente della macchina utensile. Senza macchine non ci sarebbe classe operaia. Essa si compone di uomini il cui strumento di lavoro è la macchina, uno strumento di lavoro, questo, fin troppo caro per essere di proprietà di un singolo operaio. L'operaio (d'ora in avanti con questo termine ci riferiamo esclusivamente all'operaio moderno, che appartiene alla classe operaia) non possiede quindi nulla. Disponendo esclusivamente della sua forza-lavoro ch'egli mette a disposizione del processo produttivo (la sua proprietà personale non ha nessuna parte nel processo produttivo) l'operaio per vivere dipende dal ritmo di funzionamento della macchina, il quale non viene deciso da lui, bensì dal proprietario della machina stessa, , ma, a differenza dell'impiegato, del tecnico e di ogni altro membro dell'impresa, egli lavora con le sue mani, manovra la macchina, partecipa al processo produttivo svolgendo un'attività manuale.
Mandando in disuso milioni di utensili, rendendoli superflui e dunque privi di valore, la macchina privò della loro proprietà e sradicò tutti coloro che in precedenza li utilizzavano come mezzi di produzione. D'altra parte essa dava a tutti coloro che non erano proprietari di mezzi di produzione  e che quindi non potevano o non volevano dedicarsi all'attività industriale, la possibilità di lavorare in un settore non agricolo.
La macchina ha rivoluzionato le possibilità d'impiego e i rapporti di proprietà, la struttura sociale e la classificazione degli uomini. La rivoluzione tecnica produsse una rivoluzione sociale.  Chiamiamo rivoluzione industriale il processo complessivo di cui la macchina è l'elemento motore, il punto di partenza dinamico, 'inserviente, il guardiano permanente.
Gli uomini compresero benissimo che la macchina era la forza centrale della nuova epoca, ; ma coloro che erano colpiti dal suo intervento e dalla sua azione, i proprietari di utensili ormai superati, videro soltanto la "macchina per sé", come direbbe Hegel, la macchina, che nelle condizioni di un capitalismo in rapida espansione, influiva molto concretamente sulla loro vita, , e non la macchina come fattore di straordinario progresso per l'umanità.  Inoltre vedevano la macchina come oggetto isolato e non nelle mani dei suoi proprietari.
E così nacque l'odio degli operai, di queste "appendici della macchina", per la macchina stessa, e, in tutti i paesi in cui questa veniva introdotta nel processo produttivo, le "appendici" si rivoltavano contro di essa.
Si era accennato al fatto che la macchina è un prodotto del capitalismo e che in pari tempo stimola in modo straordinario lo sviluppo del capitalismo stesso. Con l'esempio della pompa a vapore utilizzata nelle miniere abbiamo anche visto che la società feudale non era assolutamente in grado di utilizzare macchine di questo tipo.
È utile ricordare a proposito dell'odio degli operai per le macchine la sorte toccata a una macchina utensile estremamente primitiva, che sorse come strumento produttivo all'interno della società feudale.
La "Bandmühle", una macchina per tessere nastri e galloni, fu inventata in Germania., L'abate Lancellotti, un italiano, in uno scritto del 1579, apparso a Venezia nel 1636, racconta:
"In Danzica, città della Prussia, un certo Anton Müller avrebbe visto coi propri occhi cinquant'anni or sono un artificio ingegnosissimo col quale si facevano lavorare insieme quattro, sei pezze… Ma poiché il magistrato di quella città capì che tanti poveri uomini vivevano col tessere sarebbero morti di fame per colpa di questa macchina, egli proibì quell'invenzione,  e fece anche segretamente  strangolare, o affogare, il suo inventore."
A Leyda la stessa macchina fu utilizzata per la prima volta nel 1629.  Le sommosse dei tessitori in un primo tempo costrinsero il magistrato a proibirla; diversi editti del 1623, 1639, ecc. promossi dagli Stati Generali ne avrebbero poi limitato l'impiego. Questa macchina, che ha fatto tanto rumore nel mondo, ha precorso di fatto le filatrice le tessitrici meccaniche e quindi la rivoluzione industriale del XVIII secolo. Essa permetteva a un ragazzo del tutto inesperto della tessitura di muovere l'intero telaio con tutte le sue spole, solo tirando e spingendo un'asta motrice: nella sua forma perfezionata, forniva da quaranta a cinquanta articoli in una volta.
Nel 1676 la Dieta di Sassonia decide di vietare l'importazione della macchina che "però sarà mantenuta a Neu-Ostra per la fabbricazione dei manufatti, ,ora e in futuro, e non sarà più vietata."
Nel 1685 l'imperatore Leopoldo vieta queste macchine in tutta la Germania.
Nel 1719 l'imperatore Carlo VI rinnova il divieto.
Nel 1720 un'ordinanza generale sassone segue il divieto generale, ma permette a tutti coloro che fino ad allora hanno lavorato sulla macchina di continuare a farlo fino alla fine dei loro giorni.
Nel 1765 la Sassonia decide di reintrodurre la macchine.
Nel 1797 si verifica l'ultimo assalto a una macchina per tessere da parte di passamanai  membri di una corporazione.
In questo caso si tratta di una vera macchina utensile, anche se ancora piuttosto primitiva, contro la quale nelle condizioni feudali i più colpiti riuscirono a reagire con discreto successo.
Nelle condizioni capitalistiche la situazione era completamente diversa: la fame di merci offriva immense possibilità produttive, il mercato di merci di tutti i generi cresceva con estrema rapidità e tutti erano tacitamente d'accordo nel dare via libera alla macchina.
Le lotte degli operai contro la macchina furono veementi, sanguinose, selvagge e molto diffuse e rimasero naturalmente senza esito. Le più grandi lotte di questo tipo si svolsero in Inghilterra dove la macchina ebbe la prima larga diffusione.  Walter Scott scriveva a Southey nel 1812: "Viviamo su un campo minato". Più tardi Charlotte Brontë descriverà le condizioni di quel tempo dal punto di vista insicuro del capitalista semiradicale. È un atteggiamento che troviamo spesso nella "gentry", la piccola nobiltà capitalista delle campagne, che detesta l'industria; tale odio si manifesta  quando questi nobili, in veste di giudici conciliatori, spesso non si decidono a procedere contro i distruttori di macchine - chiamati luddisti - con tutta la brutalità richiesta dalla legge.
Chi erano i luddisti? Thomson, che recentemente li ha ristudiati con molta cura, sottolinea a ragione che non si trattava soltanto di gente direttamente minacciata dalle macchine.  La macchina era un simbolo della nuova era e in fondo era odiata da tutte le classi, e da tutti gli strati che non disponevano di capitale industriale. I grandi proprietari terrieri, la "landed gentry", vedevano nella rapida accumulazione di ricchezza nelle mani della borghesia nazionale una minaccia  alle .,oro posizioni di potere - e non a torto, come più tardi fu dimostrato dalla riforma parlamentare del 1832 - a tutto vantaggio della borghesia industriale. Gli intellettuali non tecnici, in particolare i poeti, la odiavano come tutto ciò che "è brutto e diffonde bruttezza". Basti pensare a Blake, che si scaglia "contro le fabbriche sataniche", "against the satanic mills".
Alla Camera dei Lord, Byron pronuncia un discorso infuocato contro la legge che prevede la condanna a morte per i luddisti, i "distruttori di macchine":
"Ma… immaginate uno di questi uomini, come li ho visti io, smagrito dalla fame, ammutolito dalla disperazione, indifferente a una vita nei confronti della quale lor signori attribuiscono meno valore che a una intelaiatura da calzettaio; immaginate quest'uomo strappato ai figli cui non riusciva a procacciare il pane, trascinato davanti a un tribunale che lo giudicherà per aver commesso una nuova infrazione contro una nuova legge: per considerarlo colpevole e per condannarlo, a mio avviso mancano ancora due cose: dodici macellai per comporre la giuria  e un Geffreys [uno dei più sanguinari e spietati giudici della storia d'Inghilterra] come giudice."
La parte dei macellai, come si poté vedere poi, l'avrebbero fatta gli stessi imprenditori. Il proprietario della fabbrica Rawfolds dello Yorkshire ferì gravemente due luddisti che poi lasciò morire dissanguati perché non volevano tradire i loro compagni.
Va sottolineato il fatto che tutti gli strati di lavoratori, i calzolai, i minatori, i bottegai, i sarti, i macellai, i falegnami, per i quali non esisteva una minaccia della macchina, prendevano le parti dei tessitori e dei filatori ai quali la meccanizzazione aveva tolto i loro regolari mezzi di sussistenza; erano in effetti piccolo borghesi conservatori e reazionari per i quali qualsiasi novità era un brutto segno e il futuro qualcosa di oscuro e di temibile Al loro fianco si trovava anche, proveniente dagli stessi strati piccolo-borghesi, un ristretto nucleo di rivoluzionari; per quest'ultimi la distruzione delle macchine appariva un buon punto di partenza per un attacco contro l'intero sistema. Spesso si trattava di uomini che guardavano a un futuro lontano, sperando di poter collegarle i tumulti contro le macchine con una sollevazione politica contro le case signorili dei ricchi…»

Ci piacerebbe sapere in base a quali elementi, Jürgen Kuczinski è giunto al convincimento che gli i lavoratori i quali si ribellavano all'installazione delle macchine «vedevano la macchina come oggetto isolato e non nelle mani dei suoi proprietari». Se così fosse stato, bisognerebbe proprio pensare che i luddisti erano dei reazionari a causa di una forma di idiozia congenita. Essi «vedevano la macchina come oggetto isolato e non nelle mani dei suoi proprietari»: si è mai sentita una assurdità più grande di questa?
Non solo.
Nella solidarietà interclassista contro l'introduzione massiccia delle macchine, che vedeva artigiani e piccoli commercianti schierarsi al fianco dei tessitori e dei filatori minacciati di disoccupazione dai telai meccanici, Kuczinsky - da buon marxista - altro non vede che dei «piccolo borghesi conservatori e reazionari, per i quali qualsiasi novità era un brutto segno e il futuro qualcosa di oscuro e di temibile». Lo storico tedesco, cioè, si rifiuta, in questo caso come nel precedente, di riconoscere ai luddisti e ai loro sostenitori anche quel minimo di intelligenza politica per cui essi avrebbero rischiato consapevolmente la vita non per conquistare condizioni decenti di esistenza, ma unicamente per stupidità e paura superstiziosa del progresso.
Certo, se si pensa che la tecnoscienza - di cui la macchina è stata, storicamente, la prima manifestazione, seguita poi dall'elettronica, dalla fisica nucleare  e dalla bioingegneria - sia un bene in se stessa, senza riserve e senza incertezze, allora non si può che gratificare i luddisti e quanti simpatizzavano per la loro causa, degli epiteti di «conservatori» e, addirittura, di «reazionari»: il che, nel gergo della religione marxista, equivale a una scomunica solenne e alla messa al bando della società civile.
A noi, invece, piace pensare - saremo forse degli inguaribili sentimentali - che i luddisti non vedessero nella macchina solamente un oggetto diabolico, ma lo strumento di un nuovo modello sociale, che sempre più avrebbe espropriato le ragioni dell'uomo a favore di quelle non solo del guadagno (di pochi), ma anche di un preteso «progresso» ipostatizzato, incurante di tutto il resto e proteso unicamente alla propria affermazione illimitata.
All'immagine di un progresso tecnoscientifico che avrebbe instaurato un regno dell'uomo senza l'uomo (oltre che senza Di), i luddisti reagirono con gli strumenti, culturali e spirituali, di cui disponevano, in forme che a noi certamente appaiono illogiche e «reazionarie», ma che contenevano pur sempre un nucleo di sacrosanta verità: se il progresso della tecnoscienza deve andare avanti per la sua strada senza porsi né limiti né scopi, tempo verrà in cui la società umana finirà per trovarsi asservita e, quel che è più grave, spogliata delle proprie ragioni esistenziali, ossia della profonda aspirazione a realizza una vita pienamente umana.
La goffaggine e l'anacronismo della lotta dei luddisti altro non sono che il riflesso di un disagio che è rimasto, tutto intero, anche il nostro disagio di cittadini del terzo millennio: quello di trovarci sistematicamente scavalcati da un progredire della tecnoscienza che rende obsoleti, dall'oggi al  domani, valori e certezze millenari; fino a mettere in crisi la stessa idea di uomo che la cultura umana ha elaborata nel corso della sua storia. La tecnoscienza, cioè, con la spettacolare avanzata delle sue frontiere e con il disinvolto misconoscimento del problema dei fini, è giunta a mettere in dubbio l'idea che l'uomo si è costruita di se stesso nel corso dei millenni, spingendolo a percepire le proprie necessità spirituali come un inutile fardello che ritarda la marcia trionfale del progresso, e la sua stessa struttura ontologica come una creta bisognosa di essere completamente rimodellata.
Chi è l'uomo, nell'era della macchina e nell'era della tecnoscienza? È ancora l'uomo di Buddha, di Socrate, di Cristo, di Leonardo, o è divenuto qualcosa di radicalmente diverso? Quali sono i suoi reali bisogni, le sue vere aspirazioni, la sua autentica essenza? L'uomo ragionevole di Aristotele e l'uomo compassionevole del Vangelo possono ancora trovare spazio, possono ancora realizzare i loro fini in un mondo dominato dalla tecnoscienza?
Questi interrogativi sono stati sollevati, fra gli altri, dal filosofo Franco Volpi, docente presso l'Università di Padova, che, nel suo libro «Il nichilismo», cerca di darvi delle risposte (Roma, Laterza, 205, pp. 152-156):

«Il processo planetario della razionalizzazione scientifico-tecnica ha portato alla soluzione di intere serie di problemi. Eppure, a fronte dei loro successi, la scienza e la tecnica sono incapaci di produrre esperienze di senso simboliche in cui inscrivere il nostro essere nel mondo e nella storia. Anzi, le trasformazioni che esse hanno prodotto accelerano il disincanto e la crisi dei fondamenti, cioè l'erosione e la dissoluzione dei quadri di riferimento tradizionali,.  Si è così aperta una frattura sempre più profonda fra l'"homo faber" e l'"homo sapiens",, tra ciò che l'uomo sa e può fare e la sua capacità di valutare ciò che è ragionevole fare Scienza e tecnica ci insegnano un'infinità di cose, ma non ci dicono quali è bene fare e quali invece lasciar stare.  Pertanto, in una situazione in cui la nostra potenza di agire, in forza della scienza e della tecnica, cresce sia nella macrodimensione che nella microdimensione, , cioè di fronte a una situazione che richiederebbe in linea di principio un orientamento maggiormente vincolante di quello passato, noi oggi non disponiamo nemmeno più di punti di riferimento sui quali poteva orientarsi l'umanità d'un tempo. (…)
Anche chi non si rassegna a questa condizione riconosce che è ormai difficile  la costituzione di senso capace di catalizzare una identità comune e di trovare disponibilità all'ascolto. La dottrina del sospetto e il disincanto del mondo,  la fine insomma della ragione ingenua e sentimentale, hanno radicalmente eroso la possibilità di credere in quadri fondativi di tipo teologico, metafisico e perfino antropologico.
Disponiamo quindi di elementi più che sufficienti per renderci conto  che la tecno-scienza sfonda ormai di continuo le barriere ed il quadro culturale entro cui la visione del mondo umanistica vorrebbe contenerla. Nella situazione di evidente spaesamento verificatasi ci si chiede: l'umanesimo fornisce ancora una antropologia sufficiente per rispondere sul piano cultuale e simbolico alle sollecitazioni della tecno-scienza? L'idea di umanità a essa sottesa è ancora valida e condivisa? E quali "valori" vi sono inclusi? (…)
Ancora una vita: non occorre essere heideggeriani per ammettere con il maestro teutonico che è assai difficile, se non impossibile, ridare oggi un senso alla parola "umanismo". Non tanto, come egli asserisce nella "Lettera sull'umanismo" perché quest'ultimo rappresenterebbe un'esperienza dell'uomo non originaria, nata dalla tradizione della "philantropía" ellenistica  entro l'orizzonte epocale della "romanitas". Bensì perché l'umanismo - e a maggior ragione l'antropologia della "Lichtung" prospettata da Heidegger, in cui l'uomo è dichiarato semplicemente un problema senza soluzione umana - non garantisce nulla.
Nella generale impossibilità di ricette condivisibili, è forse possibile rifugiarsi in un'indicazione fragile, ma praticabile:  quella di un atteggiamento senza illusioni che si prefigga di conservare l'uomo senza farne il centro dell'universo, la pratica - diciamo così - di un "umanesimo" non antropocentrico che si apra alla crescita  tecnico-scientifica senza nostalgie per l'Immemorabile perduto, ma che non si sottoponga nemmeno docilmente all'imperativo della tecnica all'infuori di ogni regola. Un atteggiamento  che pratichi un linguaggio di verità, senza catastrofismi né infondati  ottimismi, e si metta alla ricerca di risorse simboliche  per risignificare l'abitare dell'uomo sulla terra, radicandolo nella natura e nella storia. Insomma,  un umanesimo che di fronte al carattere asimbolico della tecnica, si sforza di attivare il senso di responsabilità  di cui l'umanità è in linea di principio capace.»

Condividiamo l'indicazione di un «umanesimo non antropocentrico», così come lo sforzo di tenersi ugualmente lontani sia dal catastrofismo ad oltranza che dall'irresponsabile fiducia nella «bontà» intrinseca dello sviluppo tecno-scientifico.
Ma abbiamo margini di tempo sufficienti per elaborare, come propone Volpi, nuove «risorse simboliche  per risignificare l'abitare dell'uomo sulla terra, radicandolo nella natura e nella storia», ora che la tecnoscienza persegue l'obiettivo di un abitare dell'uomo anche fuori della Terra e di un abitare della sua mente anche fuori del suo corpo fisico?
Davanti a una distruzione così massiccia e così rapida dei tradizionali punti di riferimento, non sarebbe più saggio recuperare quell'immenso bagaglio culturale e spirituale che, forse, abbiamo avuto troppa fretta di dichiarare «morto» e di gettar via, insieme all'acqua sporca?
Ci vogliono millenni per costruire una salda e radicata immagine dell'uomo e del suo posto nel mondo, non anni; né può porvi mano, con qualche speranza di successo, chi abbia smarrito la fiducia nell'umanità dell'uomo (qualunque cosa si voglia intendere con il termine «umanità», e limitandoci alla sua accezione pratica e immediata).
Dovremmo riflettere su questo.
Non ci resta molto tempo a disposizione; né possiamo sperare di «fermare» la marcia della tecnoscienza verso un «regnum hominis» senza l'uomo (e, magari, contro l'uomo) a colpi di buone intenzioni: come, appunto, l'esempio dei luddisti ci insegna. Oltretutto, siamo presi nella trappola della nostra idea di «libertà»: perché diviene cosa impossibile porre freni e norme al progredire della tecnoscienza, una volta che si sia fatta della libertà di ricerca un valore assoluto e, quindi, non negoziabile.
Forse, dovremmo ripartire proprio da qui: e riconoscere che abbiamo imboccato la strada sbagliata molto tempo prima che le macchine facessero la loro comparsa, allorché abbiamo cominciato a evocare un concetto di «libertà» assoluta e incondizionata che, della vera libertà, è soltanto una grottesca e deformante caricatura.