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Il fascino del buon tiranno

di Sergio Romano - 08/03/2009

La tesi del nuovo saggio di Luciano Canfora


Il ragionamento è questo: possono esistere dittatori positivi che hanno brutalmente guidato i loro Paesi verso straordinari progressi civili

Il lettore si è probabilmente accorto che Luciano Canfora, come certi personaggi delle commedie di Luigi Pirandello, è la somma di due personalità alquanto diverse. Esiste il Canfora n. 1, studioso dell'antichità classica, storico di Cesare e di Tucidide, autore di una fortunata Storia della letteratura greca,
protagonista di un memorabile duello filologico sull'autenticità del papiro di Artemidoro. Ed esiste il Canfora n. 2, comunista impenitente, estimatore critico di Stalin, autore di saggi e pamphlet sull'attualità politica e su alcuni snodi cruciali della storia del Novecento.
Fra questi due volti di una stessa persona esiste tuttavia un rapporto. Canfora è convinto che l'antichità greca e romana contenga tutti gli archetipi della politica europea e fornisca agli osservatori dell'attualità gli strumenti necessari a comprendere ciò che accade oggi. Nel suo ultimo libro ( La natura del potere, appena edito da Laterza) questo corto circuito fra passato e presente concerne soprattutto il tiranno, vale a dire l'uomo politico che ha maggiormente rappresentato, nella storia del pensiero liberale, democratico e repubblicano, la personificazione del male. Canfora parla dei tiranni greci, naturalmente, ma il suo pensiero attraversa rapidamente i secoli per includere nel suo radar i «tiranni» dell'età moderna e contemporanea, da Napoleone a Hitler, da Mussolini a Stalin. Tutti egualmente pericolosi e detestabili? Questo è il punto del libro di Canfora in cui la materia diventa scottante e il suo giudizio più controverso. Proverò a riassumere la sua tesi con le mie parole e qualche inevitabile deformazione personale.
Attenzione, sembra dire Canfora. Prima di condannare la tirannia, chiediamoci piuttosto se la democrazia abbia il diritto di rappresentare se stessa come un sistema libero e virtuoso. Ogni Stato è fondato sulla forza ed è, come disse Gramsci dopo la morte di Lenin, «dittatura». Nelle democrazie esiste un palcoscenico per gli sciocchi, dove vanno in scena le pantomime della libertà e i riflettori sono tanto più accecanti quanto maggiore è l'ombra di cui i «poteri forti» hanno bisogno per tirare i fili delle loro marionette. Gli elettori partecipano a un gioco in cui il pendolo oscilla fra due varianti di una stessa finzione e in cui lo scopo inconfessato di tanta suggestiva mobilitazione civile è quello di «cambiare per non cambiare». È tipico, osserva Canfora, il caso degli Stati Uniti dove il candidato alla presidenza sceglie un vicepresidente di tendenze politiche diverse dalle sue, buono per acchiappare i voti che potrebbero sfuggirgli. Lo stesso potrebbe dirsi naturalmente delle coalizioni che vengono allestite, dopo la liturgia delle libere elezioni, nella maggior parte delle democrazie parlamentari europee.
Il vero potere è altrove ed è nelle mani di piccole minoranze motivate da particolari interessi. Come osserva Ugo Spirito, allievo di Giovanni Gentile, in un libro intitolato Critica della democrazia, «esistono tanti tipi di regimi democratici quanti sono i tipi di minoranze capaci di guidare le maggioranze»: democrazie plutocratiche, democrazie militari, democrazie sindacalistiche eccetera. Canfora è d'accordo e aggiunge alla lista un tipo, inventato in anni recenti nel laboratorio italiano. È la democrazia in cui il potere si propone di trasformare il cittadino in consumatore, di creare «il suddito consumatore-arrampicatore frustrato, invano proteso a desiderare e a mimare modelli di vita inarrivabili che finiscono col costituire la totalità delle sue aspirazioni». Se ho ben compreso il pensiero di Canfora, l'Italia presenterebbe quindi la caratteristica di avere abolito la distinzione fra potere visibile e potere occulto. Silvio Berlusconi sarebbe contemporaneamente presidente del Consiglio dei ministri e del «consiglio d'amministrazione» dove si decidono, dietro le quinte, i destini del Paese.
Di fronte a queste pseudo democrazie i tiranni possono presentare qualche vantaggio. Non sono, come ricorda Canfora, personaggi isolati e mostruosi proiettati al vertice dello Stato soltanto da una irrefrenabile energia individuale. Sono l'espressione di una élite che li circonda, li sostiene, ma può anche usarli e gettarli per collocare al loro posto un nuovo «ammini-stratore delegato». Il tirannicidio, scrive Canfora, è inutile, forse controproducente. Se il tiranno è rappresentativo di interessi importanti, la sua eliminazione fisica può addirittura provocare il rafforzamento del sistema. Possono esistere quindi — è questa, mi sembra, la tesi centrale del libro di Canfora — tiranni positivi che hanno brutalmente guidato i loro Paesi verso straordinari progressi civili. L'esempio preferito dall'autore è Stalin sino alla fine della Seconda guerra mondiale. I guai cominciarono dopo, quando Stalin divenne «anacronistico» e i suoi successori non seppero adattare il sistema a nuove esigenze e circostanze.
Come sempre, gli argomenti di Canfora sono seducenti. Anch'io vedo i vizi e le finzioni della democrazia parlamentare. Anch'io credo che un sistema autoritario (è il caso della Cina) possa essere in alcuni momenti più benefico, efficace e giusto di una democrazia caotica. Ma non credo, a differenza di Canfora, nell'onnipotenza dei «poteri forti», soprattutto quando rappresentano i capitali finanziari. Questi poteri sono una combinazione di interessi contraddittori e molto spesso incapaci di guardare al di là del loro naso.
Auguro molti lettori a questo libro e in particolare una seconda edizione, a cui Canfora dovrà aggiungere un capitolo sulla bancarotta morale e civile del capitalismo finanziario americano. Potrebbe giungere alla conclusione che esiste fra le democrazie e le tirannie una sostanziale differenza. Le democrazie riescono qualche volta a correggere i loro errori, le tirannie quasi mai.