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Negando (a parole) il proprio desiderio, la donna rende nevrotico il rapporto con l'uomo

di Francesco Lamendola - 12/03/2009

 


Di fatto, si tratta di uno degli elementi che maggiormente disturbano la possibilità, per la donna e per l'uomo, di instaurare reciprocamente una relazione armoniosa; ed è, al tempo stesso, il classico argomento tabù, ameno nell'era post-femminista: parlarne è considerato sconveniente, peggio, poco cavalleresco, quindi odiosamente maschilista. Perché le donne vogliono la parità dei diritti, ma, al tempo stesso, si aspettano sempre un trattamento di favore, a livello interpersonale, da parte dell'uomo: appunto, come espressione di «cavalleria».
In breve, e per non girarci tanto attorno, si tratta di questo: che mentre la donna si aspetta dall'uomo la massima sincerità quanto ai propri sentimenti e perfino quanto ai propri impulsi (e, se non la trova, è subito pronta a gridare alla slealtà, se non al vero e proprio tradimento), ella, da parte sua, pretende di giocare sempre a carte coperte: sarebbe poco cavalleresco pretendere da lei la stessa sincerità e la stessa franchezza che esige dalla controporte maschile.
Né si tratta solamente di questo - che pure non è cosa di poco conto, dal momento che un simile approccio ai rapporti con l'altro sesso, da parte della donna, presuppone che ella sia sempre in condizione di giocare al nascondimento e di manipolare l'altro, sfruttando il vantaggio di non essersi esposta in eguale misura. Un atteggiamento che ha molto a che fare con la ricerca del dominio, alla faccia del mito secondo il quale sarebbe il maschio inclinato ad esercitare il dominio nei rapporti con l'altro sesso, per atavica e sgradevole predisposizione.
Eppure, non si tratta solamente di questo: il male è molto maggiore, la disarmonia scende molto più in profondità. La donna, infatti, non è costituzionalmente portata a riconoscere - innanzitutto con se stessa - il proprio desiderio nei confronti dell'altro; al contrario, ella desidera credere che è l'uomo colui che la desidera, sempre e comunque; e, così facendo, che la induce «in tentazione». Mentre lei, di per sé, è sempre pura e innocente: non ha desideri segreti; è soltanto la «sporca» fantasia del maschio che le attribuisce pulsioni nascoste o palesi.
Può succedere, pertanto, che una donna sparisca ad un appuntamento, o, addirittura, che interrompa bruscamente un'amicizia maschile, non perché si sia  sentita  desiderata o (il che è lo stesso) minacciata dall'uomo, ma perché ha, lei, un desiderio nei confronti di lui. Questo, però, è impossibile: configge con l'idea che la donna ha di se stessa: specialmente se è moglie, madre, ecc. A lei non appartengono tali bassi desideri, né consci, né inconsci: dunque, arriverà facilmente ad autoconvincersi di non averli mai avuti, anche se tutto il suo comportamento indica il contrario, e anche se tutto il suo essere grida disperatamente il proprio desiderio.
A quel punto, alla donna non resta che far pagare all'uomo il fio del desiderio che ella ha provato, ma che non è assolutamente disposta a riconoscere e ad ammettere; non le resta che punire l'uomo negandosi, scomparendo, fuggendolo, anzi, come farebbe una povera anima perseguitata. Un amico psichiatra mi diceva, l'altro giorno, che egli deve far fronte quotidianamente alle nevrosi provocate da un simile atteggiamento femminile; anzi, mi diceva che questo è, oggi, non uno dei problemi, bensì il problema fondamentale nel rapporto fra uomo e donna; il problema che è all'origine di quasi tutti gli altri problemi.
Perché oggi più di ieri?
Da parte nostra, non ci sentiamo così sicuri che, oggi, esso sia più diffuso che in passato; ma, se lo fosse, crediamo che la cosa potrebbe spigarsi con la vita più varia e dinamica che fanno le donne anella società attuale. Condurre una vita più varia e più dinamica, significa entrare in contatto con un maggior numero di occasioni di incontro sociale e, per conseguenza, affettivo e sessuale; in altre parole, con un maggior numero di «tentazioni».
Ora, come abbiamo visto, la donna ha bisogno di conservare un'altissima proiezione del proprio io: ha un bisogno cogente, irrinunciabile di percepirsi come «pulita»: specialmente, lo ripetiamo, se ella è madre e moglie. Dunque, la sua condizione odierna è quella di chi si trova fra l'incudine e il martello: da un lato, le occasioni di libertà si moltiplicano entro il suo orizzonte esistenziale, stuzzicando desideri e sprigionando energie affettive e sessuali che, altrimenti, sarebbero rimaste forse latenti; dall'altro, ella si trova nella assoluta «necessità» (si fa per dire) di negare il riconoscimento agli istinti e agli impulsi che sente nascere in se stessa, e di addossare la responsabilità delle «tentazioni», in cui viene a trovarsi, sempre e unicamente all'uomo.
Non è che le piaccia dipingersi tutti i maschi come altrettanti sporcaccioni eternamente affamati di sesso; è vero, al contrario, che si trova proiettata verso un tale ordine di idee dal bisogno di difendere a spada tratta la propria (malriposta) autostima, cosa che non può fare in altro modo che attribuendo all'uomo i propri desideri e le proprie pulsioni.
Sia chiaro: non intendiamo rovesciare, puramente e semplicemente, il paradigma femminista oggi dominante; non ci sogniamo affatto di sostenere che la donna è una creatura che si aggira eternamente affamata di sesso, pronta a calpestare i suoi doveri più sacri di angelo del focolare, magari armata di frusta e indossando pelliccia e stivaloni: lasciamo al povero Leopold von Sacher Masoch di trastullarsi con un tale immaginario erotico.
Al contrario, è certo che vi sono anche molti uomini i quali si aggirano attorno in cerca di preda, come la lupa insaziabilmente affamata della selva dantesca; ci sono sempre stati e, con ogni probabilità, continueranno ad esserci sino alla fine.
Tuttavia - e questo è il punto - l'uomo normale, che sia un «cacciatore» abituale oppure, al contrario, che sia interessato non alla quantità, ma alla qualità del rapporto con l'altro sesso, egli non ritiene affatto di doversi vergognare dei propri istinti e dei propri desideri, fino al punto di negarli e di rimuoverli ferocemente; né, meno ancora, di doverli attribuire alle donne dalle quali si sente attratto, in modo da far ricadere su di esse la «colpa» di ciò che potrebbe avvenire, se le difese del pudore e dei principi morali dovessero infine venir travolte.
Questa è la differenza fondamentale, vorremmo dire ontologica, tra uomo e donna: che l'uomo (normale) è capace di guardarsi dentro, di riconoscersi e di convivere con le proprie pulsioni - altra cosa è, poi, vedere se egli tenterà, o meno, di realizzarle nella vita reale; mentre la donna (anche la più normale) non possiede quasi mai una tale capacità. Per quanto ella sia colta, intelligente, sensibile - anzi, oseremmo dire, se ciò non sembrasse un una provocazione deliberata: a maggior ragione quando ella è colta, intelligente, sensibile - la sua reazione abituale, davanti all'insorgere del proprio desiderio, sarà quella di operare una specie di gioco di prestigio, consistente nel rovesciare sull'uomo che le piace le pulsioni dalle quali si sente afferrata.
Per quanto ella possa essere, nella vita di ogni giorno, una creatura dolce, gentile e, soprattutto, leale, nel caso del rapporto con l'uomo e con i propri desideri profondi, la donna non conosce che la menzogna sistematica - dapprima con se stessa, poi con l'altro -, come una sorta di riflesso condizionato; con le disastrose conseguenze che si possono facilmente immaginare, e che, d'altronde, un osservatore anche distratto non mancherà di osservare continuamente, nella vita di tutti i giorni.
Il fatto è che ammettere di provare desiderio per un uomo, magari per prima - magari al di fuori dei legami convenzionalmente riconosciuti dalla società - è, per lei, cosa praticamente impossibile: troppo feroce e implacabile è il senso di colpa che si scatenerebbe in lei e che ne travolgerebbe l'amor proprio e la stessa pace interiore.
Gli esiti di tutto ciò sono, a dir poco, paradossali.
I casi, infatti, sono due: o l'uomo investito dal desiderio femminile ricambia le attenzioni, prende l'iniziativa e rompe la barriera del pudore: in questo caso, la donna sarà sollevata dai propri sensi di colpa, perché potrà dipingersi come la vittima della situazione, ossia come colei che ha ceduto per troppa ingenuità e per troppa affettività.
Oppure l'uomo, o perché non ricambia il desiderio di lei, o perché rispetta la condizione delicata - psicologica e sociale - di una donna che non vuole o non osa compiere un passo esplicito, si astiene dal farsi avanti: in tal caso, la donna finirà per autoconvincersi di aver subito la più intollerabile delle beffe, il più crudele degli inganni; e prenderà ad odiare quello stesso individuo che, prima, amava con tanto trasporto (ma senza ammetterlo con sé stessa).
Quest'ultima situazione, talmente frequente da potersi dire addirittura banale, è la chiave necessaria per interpretare certi repentini e quasi schizofrenici mutamenti di atteggiamento di una donna nei confronti di un uomo: dall'attrazione più forte, all'eterna e implacabile inimicizia. Magari - e non è affatto un caso infrequente - senza che l'uomo in questione ne sappia minimamente il perché, dato che la prima fase - quella dell'attrazione di lei nei suoi confronti - non si era mai espressa con segnali espliciti, anzi, sovente si era occultata dietro una apparente indifferenza.
Arriviamo così alla tragicomica conclusione che quello che una donna non potrà mai perdonare ad un uomo, verso il quale si è sentita attratta, è il fatto che egli ne abbia rispettato la «purezza»: difficilmente arriverà ad odiare altrettanto un uomo che, al contrario, abbia approfittato della situazione per levarsi, con lei, qualche capriccio.
In quest'ultimo caso, infatti, ella potrà sempre rielaborare in maniera fantastica quanto avvenuto, convincendosi di essere stata abilmente circuita, sedotta ed usata: dopo di che, se è accaduto l'irreparabile (si fa per dire), la colpa, evidentemente, non sarà mai di lei, povera creatura innocente e fiduciosa, ma del maschio subdolo e fellone. Così potrà continuare a negare di aver provato a sua volta il desiderio, e ritroverà la propria pace ed il proprio equilibrio interiore: ciò a cui più di ogni altra cosa ella tiene.
Al contrario, se l'uomo - magari desiderandola anch'egli - l'avrà «rispettata», interpretando in buona fede, ma ingenuamente, la ritrosia di lei, come espressione di una volontà di non oltrepassare certi limiti, allora ella sarà costretta a convivere con la realtà frustrante del proprio desiderio insoddisfatto: di quel desiderio che urlava per venire alla luce, ma del quale ella non avrebbe mai riconosciuto neppure l'esistenza, e men che meno lo avrebbe chiamato con il suo vero nome o  lo avrebbe dichiarato apertamente all'uomo.
Ecco perché, in questo caso, la donna diviene capace di un odio inesauribile ed implacabile nei confronti dell'uomo il quale abbia suscitato, magari senza volerlo, il suo desiderio: perché egli ha avuto l'audacia intollerabile di metterla di fronte a se stessa, alla verità della sua natura, che ella non può o non vuole accettare.

È difficile parlare di queste cose, non solo perché si viola il tabù della «cavalleria» verso il gentil sesso, ma anche per altri due ordini di ragioni.
Il primo è che si passa per maschilisti inveterati e grossolani, ma sostanzialmente frustrati, nel senso che si vorrebbe attribuire anche alle donne un desiderio che sarebbe, invece, sempre e unicamente  maschile: come certi vitelloni di provincia i quali, spiando il sedere delle donne dal tavolino del bar all'angolo, si vantano di aver fatto colpo sulle proprietarie di tutto quel ben di Dio, mentre quelle nemmeno si sono accorte di loro e dei loro famelici sguardi.
Insomma, si rischia di passare per dei patetici sporcaccioni: una prospettiva tale da sgomentare lo stesso Ercole, che pure non tremava davanti all'Idra di Lerna o al terribile Cerbero, il cane triforme posto davanti alle porte dell'Ade.
Il secondo è che ci si fa la nomea di misogini impenitenti, mentre crediamo sia vero il contrario; infatti, provare ammirazione per le donne, per un uomo, significa dare ad esse quel che loro spetta e negare ad esse quel che non appartiene loro; in altre parole: saperle vedere così come sono realmente, nelle loro qualità, come nei loro limiti.
Sia il maschio brutale e animalesco, sia il maschio sognatore e idealista, non riescono a vedere la donna come in realtà è: il primo ne vede solo gli aspetti più «bassi»; il secondo, solo quelli più «nobili». Entrambi fanno violenza alla natura della donna ed entrambi recheranno a lei, e forse anche a se stessi, infelicità e frustrazione.
Esiste, dunque, una via d'uscita dal vicolo cieco, in cui sembra che il reciproco desiderio finisca per condurre l'uomo e la donna, quando non si accompagni alla capacità di leggersi dentro e di riconoscere con lealtà e con franchezza i propri impulsi?
Forse no.
Forse, tutto quel che l'uomo può fare è aiutare la donna - astenendosi sia dal disprezzarla, sia dall'adularla - a ritrovare la giusta misura di se stessa; e tutto quel che può fare la donna è di cominciare ad accettare la propria vera natura.
Che non è quella di un angelo, ma di una creatura mortale, che prova esattamente le stesse emozioni e gli stessi desideri dell'uomo - sia pure con sfumature diverse - e che non dovrebbe vergognarsi di averli, ma solo del fatto di negarli, quando ciò coinvolge il rispetto dovuto ad un altro essere umano e mette a repentaglio l'armonia e la bellezza del suo rapporto con lui.