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La funzione della mente nel Buddhismo antico

di Giangiorgio Pasqualotto - 15/03/2009


Il problema della mente nel Buddhismo presenta difficoltà
relative non solo alla definizione della mente e alle funzioni
complesse delle sue articolazioni strutturali, ma anche
alle possibilità di una sua individuazione univoca e lineare
lungo il fittissimo intrico delle interpretazioni prodotte dalle
diverse Scuole buddhiste.
Per poter disporre di un primo orientamento nella ricerca
dei significati fondamentali che il problema della mente
ha prodotto nella millenaria riflessione buddhista, appare
necessario soffermarsi innanzitutto su quelli rintracciabili
all’interno del Canone.
In generale, si può dire che, sulla scia del pensiero
Vedānta, il Buddhismo delle origini determina la mente
come antahkarana, ossia come “organo” interno, dotato
delle funzioni che consentono il darsi delle sensazioni, dei
pensieri, dei ricordi e della capacità di distinguere. Con
questa valenza generale non viene intesa come autocoscienza,
ma, come uno speciale organo di senso, come “base
sensoriale”(āyatana) che ha per oggetto le idee e che controlla
le altre cinque “basi” sensoriali, cioè l’attività dei cinque
sensi.
Tuttavia il concetto di “mente” viene determinato in
modi più specifici, secondo denominazioni particolari che
rinviano a funzioni particolari.
1. Col termine mano (scr.: manas) viene indicata la capacità
di pensare, nel senso di:
1.1 cogliere e raccogliere le impressioni provenienti dal
mondo esterno;
1.2 dubitare delle certezze acquisite;
1.3 prendere delle decisioni.
2. Col termine viññāna si indicano due realtà:
2.1 i processi interni della coscienza;
2.2 lo spazio interiore nel quale tali processi si producono,
si dispiegano e si dissolvono. Con questa funzione,
viññāna si definisce come luogo centrale in cui
confluiscono tutti gli atti della percezione, della rappresentazione
e della memoria che sono determinati,
in modi e a livelli diversi, dalla forza dei desideri.
3. Col termine citta si indica in generale l’equivalente di
mano e di viññāna ma, in particolare, viene ad essa
attribuita la facoltà di conferire consistenza ai fenomeni.
Nella terza parte del Canone denominata Abhidamma si
distingue citta da cetasikā. Con quest’ultimo termine si
indicano nel dettaglio le attività della coscienza presenti
nei fattori mentali concomitanti agli atti conoscitivi. Tali
fattori vennero classificati in cinquantuno dalle Scuole
Sarvāstivādin, Sautrāntika e Māhāyana 1, e in cinquantadue
dalla Scuola Theravāda, l’unica tra le Scuole antiche
oggi sopravvissuta, la quale li suddivise in quattro gruppi:
fattori mentali onnipresenti (contatto, sensazione, percezione,
intenzione, attenzione, concentrazione, principio
vitale); sei fattori particolari (attenzione iniziale, attenzione
intensa, sforzo, interesse favorevole, astrazione, determinazione);
quattordici fattori non virtuosi (avidità, odio,
stupidità, errore, boria, invidia, egoismo, preoccupazione,
cinismo, noncuranza, distrazione, pigrizia, torpore,
perplessità); venticinque fattori virtuosi (disinteresse,
amicizia, fiducia, ragionevolezza, attenzione, modestia,
discrezione, equilibrio, calma, sangue freddo, ottimismo
dell’intelletto e degli stati mentali, flessibilità dell’intelletto
e degli stati mentali, attitudine al lavoro dell’intelletto
e degli stati mentali, abilità dell’intelletto e degli stati
mentali, onestà, rettitudine, giusta parola, giusta azione,
giusta forma di sussistenza, compassione, soddisfazione).
Sarebbe di enorme interesse analizzare la funzione della
mente in rapporto a ciascuno di questi fattori mentali, ma la
passione analitica dei pensatori buddhisti ci trascinerebbe
in un vortice vertiginoso se non mantenessimo ferma l’attenzione
su alcuni punti fermi, dati, da un lato, dalla funzione
centrale che la mente svolge in ogni atto conoscitivo descrivibile
mediante la teoria dei cinque khandha e, dall’altro, dal
ruolo che essa riveste nel ciclo formulato dalla teoria della
coproduzione condizionata (paticcasamuppāda). Riguardo al
primo punto, è da ricordare che viññāna, il quinto aggregato
del percorso conoscitivo, non è separabile dagli altri quattro,
così come il tipo di fumo di un fuoco non è separabile dal
tipo di combustibile che lo alimenta 2. Altrettanto forte è
il nesso che viññāna ha con le basi sensoriali, al punto che
non si può parlare di «coscienza in generale» ma si deve
parlare di coscienza solo in rapporto ai cinque sensi, ossia di
coscienza visiva, di coscienza uditiva, di coscienza olfattiva,
di coscienza gustativa, di coscienza tattile 3. Tuttavia nei testi
è sempre presente un sesto “senso” che condiziona viññāna,
e che è costituito da mano, la mente: «Queste sono le sei basi
della coscienza: coscienza visiva, coscienza uditiva [ecc.] e
coscienza mentale (manoviññāna). Pertanto dal sorgere del
corpo e della mente sorge la coscienza» 4. La mente (mano),
infatti, viene considerata come un organo di senso specifico
che ha per oggetti i pensieri, così come l’orecchio ha per
oggetti i suoni. Invece viññāna funziona come consapevolezza,
come “presa” di coscienza delle operazioni con cui
mano entra in rapporto con i pensieri. Ci si potrebbe anche
spingere fino a considerare viññāna come autocoscienza,
ma bisognerebbe stare attenti a non considerare l’autò di
“autocoscienza” come referente di un io stabile, oggettivo e
permanente. Infatti l’autò, riferendosi alla mente che coglie
un pensiero, si riferisce a un funzionamento, a un’attività,
non a un oggetto o a uno stato di cose. Più semplicemente,
insomma, si potrebbe intendere “coscienza mentale”
(manoviññāna) come attenzione consapevole al lavoro della
mente: dove è chiaro che, essendo tale lavoro sempre diverso,
nella misura in cui è in relazione alla variabilità dell’esperienza
sensoriale e percettiva, la coscienza mentale è sempre
variabile, relativa e impermanente. In altri termini: poiché
sia la mente (mano) che la coscienza (viññāna) sono entrambe
condizionate, non è possibile in alcun modo identificare
la coscienza mentale (manoviññāna) con un nucleo fisso, con
una struttura immutabile.
Passando al secondo punto da tenere fermo nel considerare
la natura e la funzione della mente nel Buddhismo,
è d’obbligo rifarsi alla teoria della coproduzione condizionata
(paticcasamuppāda), la quale esplicita in modo ancor
più ampio e profondo la qualità di interdipendenza che la
mente possiede. Infatti, mentre nella teoria degli aggregati
(khandha) la mente viene vista solo in relazione alle condizioni
della conoscenza date dagli aggregati della materia,
delle sensazioni, delle percezioni, dei condizionamenti, nella
teoria della coproduzione condizionata essa viene colta nella
relazione che essa intrattiene con le diverse fasi e le diverse
componenti di tutta la vita dell’individuo. Il nucleo centrale
di questa teoria può essere rappresentato dal contenuto di
questo passo: «Se quello è, questo ne viene: per l’origine
di quello ha origine questo; se quello non è, questo non ne
viene: per la fine di quello finisce questo» 5. Il che significa:
ogni fenomeno sorge e sparisce in dipendenza di qualche
altro fenomeno. Ovvero: ogni fenomeno è, contemporaneamente,
condizionato (paticcasamupānna) e condizionante
(paticcasamuppāda), per cui deve essere sempre considerato
in relazione, e mai come realtà isolata; certo, può essere con63
siderato isolatamente se lo si astrae dalla rete di relazioni in
cui è inserito, ma una tale operazione di isolamento risulta
legittima solo se viene effettuata sapendo che essa consiste in
una parziale e contingente “estrazione” di parti da un tutto
organico: ogni “estrazione” di una parte è possibile solo a
condizione che non si dimentichi mai la sua natura di parte,
ossia il fatto che la sua qualità intrinseca è di essere priva di
sostanzialità, di essere senza sé (anattā).
La rappresentazione canonica di questo nucleo teorico si
avvale di uno schema composto da dodici “anelli” (nidāna),
ciascuno dei quali corrisponde a un fattore condizionato e
condizionante: «Condizionate dall’ignoranza (avijjā) sorgono
le tendenze (samkhāra); condizionata dalle tendenze
sorge l’attività mentale (viññāna); condizionati dall’attività
mentale sorgono nome-e-forma sensibile (nāmarūpa), condizionate
da nome-e-forma sensibile sorgono le sei basi
sensoriali (salāyatana); condizionato dalle sei basi sensoriali,
sorge il contatto (phassa); condizionata dal contatto, sorge
la sensazione (vedanā); condizionata dalla sensazione, nasce
la brama (tanhā); condizionato dalla brama, sorge l’attaccamento
(upādāna); condizionata dall’attaccamento, sorge la
tendenza a esistere (bhava); condizionata dalla tendenza a
esistere, sorge la nascita (jāti); condizionati dalla nascita, sorgono
l’invecchiamento e la morte (jarā marana), la tristezza,
il lamento, il dolore, la sofferenza, l’angoscia» 6.
Di solito, per spiegare la disposizione di questi dodici
anelli, si usa l’immagine di una “catena”; ma, a questo
proposito, vi sono da fare delle precisazioni non puramente
formali, che possono aiutare a comprendere la natura
dei nessi che tengono insieme questi dodici anelli. Se si
assumesse come adeguata l’immagine di catena lineare, si
dovrebbe concludere che vi sarebbe un anello iniziale e
uno finale, ma con ciò si dovrebbe ammettere che vi sia un
anello, condizionante e non condizionato, che fungerebbe
da causa prima e un anello, condizionato e non condizionante,
che risulterebbe come effetto ultimo. In tal modo
verrebbe smentito il principio generale secondo cui ogni
realtà è sia condizionata che condizionante. Si può ovviare
a queste conseguenze incongruenti ricorrendo all’immagine
di catena circolare, dove ciascun anello risulta condizionato
da quello precedente e condizionante quello seguente; in tal
caso non si hanno più i problemi derivanti da una disposizione
lineare degli anelli, ma il rapporto di condizionamento
reciproco viene garantito, in forma diretta, solamente tra
anelli contigui. Questa doppia natura di essere condizionato
e di essere condizionante appartiene a ogni anello, quindi
anche alla mente, qui denominata viññāna: questo rilievo
è importante perché, sia nella teoria degli aggregati, sia in
quella della coproduzione condizionata, l’attività mentale
non risulta affatto come un fenomeno privilegiato rispetto a
quelli corrispondenti agli altri anelli. Questo appare evidente
anche nella trasposizione figurativa dello schema a dodici
anelli, costituita dall’immagine del Bhavachakra (Ruota del
divenire), assai frequente nell’iconografia del Buddhismo
tibetano. In particolare:
1. l’ignoranza viene rappresentata da una vecchia cieca che
si dirige verso un precipizio;
2. le intenzioni e le tendenze vengono rappresentate da un
vasaio che dà forma a recipienti per un uso futuro;
3. la mente è rappresentata da una scimmia che salta da una
casa all’altra;
4. il nome-e-forma sensibile è rappresentato da due uomini
in una barca;
5. i sei sensi vengono rappresentati da sei finestre di una
casa;
6. il contatto è rappresentato da una coppia in un coito;
7. la sensazione è rappresentata da una freccia che colpisce
un occhio;
8. la brama è rappresentata da una figura umana che alza
una coppa di birra;
9. l’attaccamento viene rappresentato da una scimmia che
afferra un frutto da un albero;
10. il divenire è rappresentato da una donna che invita
all’amore;
11. la nascita è rappresentata da una partoriente;
12. la morte viene rappresentata da un uomo che trasporta
un cadavere per restituirlo alla natura (agli agenti atmosferici
e agli animali) 7.
Anche in questa rappresentazione del Bhavachakra la
posizione della mente non appare affatto privilegiata: viene
anzi associata alla raffigurazione di una scimmia che salta di
qua e di là, per indicare quanto la mente sia sottoposta alle
sollecitazioni che le derivano dai sensi e dagli istinti.
Al fine di rendere facilmente comprensibile l’efficacia
funzionale di questa rappresentazione “a catena”, si può
ricorrere a un esempio assai semplice. Osserviamo l’atto di
prendere una mela e cerchiamo di illustrarlo alla luce della
teoria dei dodici anelli o paticcasamuppāada (co-produzione
condizionata). Questo gesto semplice gesto, sottoposto ad
analisi, si rivela in realtà come un intreccio complesso di
processi interagenti: immediatamente, si configura come
un contatto (phassa); ma appare chiaro che tale contatto è
reso possibile – ossia è condizionato – dall’esistenza della
mela, ossia da un «nome-forma sensibile» (nāmarūpa); è
poi chiaro che, a sua volta, questo contatto non potrebbe
avvenire se non vi fosse almeno una delle sei basi sensoriali
(salāyatana); d’altra parte, è certo che il contatto di per sé
rimarrebbe inerte e sconosciuto senza la sensazione (vedanā)
e la coscienza (viññāna) che lo rendono un fatto vissuto ed
esperito; il contatto, tuttavia, non mostra di possedere un
significato e un valore soltanto gnoseologico: esso appare
inevitabilmente associato a un’intenzione (per esempio quella
di mangiare la mela); intenzione a sua volta determinata
da condizionamenti genetici, culturali e ambientali che spingono
un essere vivente particolare a cibarsi di una mela piuttosto
che di un serpente o di una radice: questo complesso
di intenzioni soggettive e di tendenze oggettive è quello che
costituisce l’anello denotato con il nome samkhāra. Ebbene,
a questo punto, è facile osservare che il contatto con la mela,
condizionato dall’intenzione di mangiarla, non può essere
esente da un certa brama (tanhā) che spinge verso l’afferramento
della mela; a sua volta questo desiderio si rafforza
con l’attaccamento (upādāna) che rende la mela oggetto di
un possesso irrinunciabile legato alla volontà di affermare
la propria esistenza (bhava); questa volontà condiziona e
determina la nascita (jāti), nel senso che spinge a utilizzare
la mela – come qualsiasi altro cibo – in vista sia del proprio
sviluppo fisiologico, sia di un processo vitale che spinge alla
procreazione; infine, intrinsecamente associati alla nascita,
si muovono l’invecchiamento e la morte (jarāmarana): ogni
cosa che nasce, infatti, comincia a consumarsi appena vede
la luce e, quindi, procede fatalmente verso la sua fine 8.
Ebbene, tutto questo processo di condizionamenti reciproci
diventa “umanamente” insopportabile se – come
avviene nella maggioranza dei casi – si lascia la mente in
balia dei sensi e degli impulsi, ossia se si lascia che divenga
preda dell’ignoranza (avijjā) sempre associata all’attaccamento
(upādāna). Ma in che consiste l’ignoranza? Essa non
coincide, certo, con la scarsità di nozioni, ma con l’illusione
che vi sia qualcosa di sostanziale e di permanente. Tale
ignoranza-illusione crea le premesse perché sorga e si sviluppi
ogni sorta di attaccamento: attaccamento all’oggetto
delle sensazioni; attaccamento al desiderio di possederlo;
attaccamento al desiderio di consumarlo; attaccamento al
desiderio di utilizzarlo in vista di uno scopo; attaccamento
allo scopo; e infine, ma soprattutto, attaccamento all’io
come soggetto del sentire, del possedere, dell’utilizzare e
del finalizzare. Così, la mente che ignora la natura insostanziale
(anattā) e impermanente (anicca) della realtà tutta
– sia oggettiva che soggettiva – finisce inevitabilmente con
l’attaccarsi a qualcosa che crede autonomo e permanente;
in tal modo rimane invischiata senza scampo nel ciclo delle
vite (samsāra) dominate dall’attaccamento, stritolata dalla
ruota della vita (bhavachakra), schiacciata dalla paura della
morte. La mente di chi è convinto che il mondo sia fatto di
semplici cose separate da sé e tra loro, vive in un “inferno”
di desideri senza fine, di tensioni a possedere sempre di
più, di “ipertensioni” rivolte a mantenere ciò che riesce a
possedere e ad accumulare: una simile mente sprofondata
nell’ignoranza-illusione, da un lato, poiché non si rende
conto di essere costituita dal mondo, continua a pretendere
di conquistarlo, e vive perciò nell’ansia di vincere; dall’altro,
poiché ignora di essere, al pari del mondo, impermanente,
continua a preoccuparsi dell’immortalità, e vive, pertanto,
nella continua paura della morte. Ostinata in queste sue
illusioni, la mente accecata dall’ignoranza inventa sempre
nuovi simulacri di sostanzialità e di permanenza: non solo
beni materiali, ricchezze, monumenti, stati e imperi, ma
anche beni immateriali, come Verità Eterne, Principi Assoluti,
Nobili Ideali, eccetera, tutti destinati a perire. Questa
ostinazione e questo accecamento non sono privi di conseguenze,
ma producono, sempre e comunque, sofferenza.
Chiarissime a questo riguardo suonano le parole del Dhammapada:
«Se con mente inquinata (paduttha) una persona
parla e agisce, la sofferenza la segue, come la ruota del carro
l’orma di chi lo traina» 9; «Come una creatura acquatica gettata
in secco e tirata fuori dalla sua tana, questa mente si
agita per sottrarsi dal dominio di Māra» 10.
La mente “risvegliata”, invece, è quella che riesce a cogliere
la natura e la funzione universale di anattā e di anicca, e
a comportarsi di conseguenza: è quella che riesce a vivere
nella consapevolezza che il mondo degli esseri, come l’universo
delle cose, non è mai da afferrare e da possedere, per
il semplice motivo che ciascuno è già da sempre “afferrato” e
“posseduto” dalla rete degli esseri e delle cose, e che nessun
“nodo” di questa rete è mai stabile. Questo “risveglio” non
è affatto intellettuale o astratto, ma produce conseguenze
positive. Anche a questo riguardo inequivocabile è il senso
della parole del Dhammapada: «Se con mente tranquilla
(pasanna) una persona parla o agisce, felicità la segue come
un ombra che mai si diparte» 11; «La mente tremante, in
continuo movimento, difficile da proteggere, difficile a tenere
a freno, il saggio mette in linea, come l’arciere un dardo.
[…] È difficilmente controllabile, è rapida, vola via a suo
piacimento: è bene soggiogare la mente. La mente domata
porta gioia» 12.
A questo punto si pone un problema: come si fa a passare
dalla mente inquinata alla mente tranquilla, dalla «mente
corrotta» alla «mente pura» 13? Vi è un potere esterno alla
mente, una Grazia divina o una facoltà superiore che rende
possibile la distruzione dell’ignoranza (avijjā) e l’avvento
del Risveglio (bodhi)? Oppure è la mente stessa in grado di
auto-redimersi, di passare da uno stato di “cecità” a quello
dell’Illuminazione? Sembra proprio che il Buddhismo
originario non abbia previsto alcun potere esterno per far
passare la mente dallo stato di corruzione e di agitazione a
quello di purezza e tranquillità. A questo proposito è particolarmente
significativo il contenuto del «Grande discorso
sui fondamenti della presenza mentale», dove si parla dei
modi e dei tempi dell’allenamento di questa particolare
facoltà, la «presenza mentale» (sati), la quale gradualmente
può condurre la mente a liberarsi da contaminazioni e illusioni,
come si evince da questo brano: «E, o monaci, in che
modo uno dimora praticando la contemplazione della mente
nella mente (citta)? Qui o monaci, in questo insegnamento,
quando la mente è pervasa dal desiderio, egli sa “La mente è
pervasa dal desiderio”, quando la mente è priva di desiderio,
egli sa “La mente è priva di desiderio”» 14. E il brano continua
elencando altre condizioni la cui presenza o assenza
possono venire assunte come esempi di oggetti della presenza
mentale (avversione, confusione, contrazione, distrazione,
esaltazione, concentrazione, elevazione, liberazione). Dunque
la consapevolezza, l’attenzione o presenza mentale può
essere coltivata, grazie alla pratica meditativa, in un processo
che va dalla massima dispersione alla massima concentrazione
della mente. La parte culminante di questo processo
si articola in quattro livelli di «assorbimento meditativo»: il
primo, in cui l’attenzione viene applicata e mantenuta con
un’intensità che produce gioia (pīti) e piacere (sukha); il
secondo, in cui sia l’applicazione dell’attenzione sia il suo
mantenimento si stabilizzano e si acquietano; il terzo, in cui
la gioia e il piacere vengono goduti senza attaccamento; il
quarto, in cui la massima intensità di consapevolezza e di
equanimità rendono minima la presenza sia di piacere sia di
dolore: «Questa è chiamata, o monaci, la retta concentrazione.
Questa è chiamata, o monaci, la nobile verità del sentiero
che conduce alla cessazione del dolore» 15. Con quest’ultima
frase ci troviamo condotti al culmine dell’itinerario proposto
dal Buddha. Con la «retta concentrazione» (sammāsamādhi)
si indica infatti l’ultimo precetto dell’Ottuplice Sentiero che
costituisce il contenuto della Quarta Nobile Verità, quella
che prevede i modi per distruggere le radici del dolore. Ciò
ha un significato particolarmente pregnante per la questione
della mente e delle sue funzioni: significa infatti che la presenza
mentale, una volta che sia coltivata e portata fino agli
estremi limiti del suo perfezionamento grazie alla pratica
della meditazione, comporta non soltanto un approfondimento
conoscitivo, ma anche lo sradicamento delle cause
della sofferenza. È importante ricordare che la causa principale
della sofferenza è sempre il desiderio (tanhā) accompagnato
da attaccamento (upādāna), anche quando l’oggetto
del desiderio è “sublime”, come la gioia o il piacere che si
provano quando la mente giunge al culmine delle proprie
capacità di concentrazione. Questa avvertenza è fondamentale
perché il Buddhismo antico aveva già previsto la pericolosa
possibilità di trasformare l’attività stessa della mente
nell’ultimo e supremo oggetto di desiderio e di attaccamento.
Questa possibilità verrà ripresa e approfondita in seguito,
a partire dal iv sec. d.C. nel Lankāvatārasūtra, nella Scuola
Yogacāra e da Kamalaśīla. Proprio quest’ultimo ricorda
un eccezionale passo del Lankāvatārasūtra in cui si dice:
«Asceso al solo-pensiero (cittamātra), non immagini [alcun]
oggetto esterno; risiedendo sul supporto del Tathatā, passi
oltre il solo-pensiero» 16. Il che significa: quando, al vertice
dell’itinerario conoscitivo, si giunge a considerare l’attività
della coscienza allo stato puro, ossia senza alcun referente
esterno, sia esso concreto o astratto, è facile passare a considerare
questa attività come la cosa più preziosa e, quindi,
permane la tentazione di attaccarsi ad essa come se fosse il
bene supremo o la verità ultima. Invece è necessario superare
anche questa estrema tentazione, passare oltre anche il
«solo pensiero».
A questo punto si potrebbe però avanzare l’obiezione che
anche questo «passare oltre il solo pensiero» è un atto del
pensiero, un’operazione della mente, e, quindi, si dovrebbe
concludere che l’attività del pensiero è davvero il fondamento
ultimo della realtà, oltre il quale non si può andare. Tuttavia
a questa obiezione si potrebbe rispondere che, proprio
perché si tratta di un’attività, significa che il pensiero deve
necessariamente avere un qualcosa “da pensare”, un’esteriorità
con cui confrontarsi. Perfino all’estremo limite dell’itinerario
speculativo, ossia al momento di «passare oltre il
solo pensiero», questo passare risulta un’operazione che ha
un proprio “oggetto”, anche se tale oggetto è il pensiero
stesso. La struttura “funzionale” del pensiero risulta pertanto
ineludibile, inaggirabile: perfino il pensiero – condizione
necessaria di ogni atto conoscitivo, dal più elementare come
la sensazione, al più profondo come l’autocoscienza – non
può mai essere considerato “puro”, ossia assoluto, in sé e
per sé, per cui non può mai essere trasformato in oggetto di
venerazione, né nella forma del fondamento primo, né nella
forma della verità ultima. Per spiegare questo vertiginoso
livello della riflessione, il Lankāvatārasūtra ricorre all’immagine
assai efficace del rapporto tra le onde e l’oceano:
«Come le onde dell’oceano, agitate dal vento, si muovono
danzando senza requie, così il flusso della [coscienza] deposito
è ininterrottamente agitato dal vento dell’oggettività e
si muove danzando e creando onde attraverso la variegate
forme della coscienza» 17. Questa immagine è estremamente
pertinente perché dice chiaramente che la coscienza deposito
(ālayavijñāna) non è fondamento nel senso di una cosa
o di uno stato di cose a sé stante che esiste prima o dopo
tutte le altre forme di coscienza; né, d’altra parte, essa può
essere immediatamente identificata con qualcuna delle altre
forme di coscienza; essa va intesa piuttosto nei termini di
costante condizione di possibilità di tutte le diverse forme
di coscienza, da quella sensibile all’autocoscienza. E, in
effetti, l’oceano non è mai separato dalle “sue” onde, né,
però, si identifica con esse, ma risulta essere il loro sfondo
costante da cui esse sempre nascono e a cui sempre ritornano:
si rivela, insomma, come la loro matrice inesauribile e,
nel contempo, come il loro deposito senza limiti. La mente
illuminata, allora, non si identifica certo con la mente che
opera in rapporto alle coscienze empiriche, quelle legate agli
oggetti, ai sensi, alle sensazioni, alle percezioni, eccetera, ma
non è nemmeno separata dalla mente “empirica”: la mente
illuminata non è quella fuggita al di là del mondo, o quella
che presume di essere oceano purissimo e immobile; ma non
è nemmeno quella rimasta soffocata nel mondo, o quella
dispersa nelle infinite forme delle onde. È la mente sempre
consapevole che non c’è «solo-pensiero» (cittamātra) senza
«pensiero-di qualcosa», e viceversa; ovvero che non c’è oceano
senza onde, né onde senza oceano.