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Alle origini della crisi il crac del modello USA

di Sergio Romano - 17/03/2009

Non ho ancora letto alcun suo intervento in merito alla crisi economica che ha ormai investito il mondo intero. Mi farebbe piacere conoscere il suo parere, perché sono convinto che lei possa dare utili indicazioni per una soluzione del problema.

Berto Binelli

Caro Binelli,
Non sono economista, ho nozioni molto generali sul funzionamento dei mercati finanziari e il mio solo incontro accademico con queste materie fu un esame di economia politica all'università di Milano, parecchi anni fa. Il professore era Costantino Bresciani-Turroni, uno dei migliori economisti italiani del periodo fra le due guerre, autore di studi importanti sul mercato del cotone (fu consigliere del governo egiziano) e di un fondamentale saggio su «Le vicende del marco tedesco» che un protagonista della finanza milanese, Guido Roberto Vitale, ha nuovamente pubblicato nel 2006, 73 anni dopo la sua prima edizione. Ma Bresciani- Turroni parlava agli studenti della facoltà di giurisprudenza e ci insegnò quindi la «filosofia » della economia politica piuttosto che i meccanismi del mercato e quelli della moneta. È questa la ragione per cui non mi è parso giusto affrontare argomenti su cui avrei potuto fare, tutt'al più, riflessioni generiche, magari scopiazzate da analisi più serie e approfondite. Quando mi è accaduto di affrontare il tema della crisi l'ho fatto soprattutto per ricordare che il collasso del credito, come in altri momenti della storia economica mondiale, avrebbe avuto una serie di ricadute politiche difficilmente prevedibili, soprattutto nei Paesi che hanno fatto un uso spensierato delle loro risorse finanziarie e del credito facile degli ultimi decenni. Approfitto ora della sua domanda per fare un'altra considerazione, non strettamente economica. Ho partecipato negli scorsi anni a parecchi dibattiti e tavole rotonde in cui si è parlato di economia e finanza degli Stati Uniti. Tutti conoscevano le cifre dell'indebitamento americano. Tutti sapevano che gli americani non risparmiavano e che il Paese continuava a consumare ricchezza futura. Nessuno ignorava che questo era reso possibile dalla fiducia con cui alcuni Paesi asiatici (in primo luogo la Cina) continuavano a finanziare gli Stati Uniti sottoscrivendo i loro buoni del Tesoro. E molti infine (fra gli italiani Paolo Savona) s'interrogavano sulla quantità dei derivati che circolavano nel mondo e sull'effetto che quella massa di carta avrebbe avuto sulla finanza globale. La domanda a cui dovremmo cercare di rispondere, quindi, è la seguente: perché, cionono-stante, quasi nessuno ha denunciato il pericolo e chiesto ai governi di lanciare un segnale d'allarme? Perché abbiamo continuato a imitare gli Stati Uniti?
Credo che la risposta sia politica e psicologica piuttosto che economica. In primo luogo sembrava impossibile che la maggiore potenza mondiale potesse sbagliare a tal punto la sua strategia economico- finanziaria. Molti pensavano che la sua forza politica e il suo ruolo di Paese egemone le avrebbero garantito credito a tempo indeterminato e modificato le regole della finanza. In secondo luogo le banche hanno obbedito a una sorta di riflesso automatico. Se le grandi istituzioni finanziarie americane traevano enormi vantaggi da queste operazioni finanziare, potevano le altre banche del mondo fare voto di castità? Che cosa avrebbero detto gli azionisti di una banca europea se l'amministratore delegato, alla fine dell'anno, avesse annunciato ricavi considerevolmente inferiori a quelli di altre banche? I bonus annuali hanno incoraggiato i dirigenti a puntare sugli alti guadagni, ma il fattore determinante, a mio avviso, è stato la riluttanza psicologica ad abbandonare il modello americano. Non dimentichi, caro Binelli, che nell'economia come nella politica le persone che prevedono un disastro e lo annunciano con largo anticipo sono trattate come guastafeste.
Non sappiamo quanto durerà la recessione e se gli strumenti adottati dai governi saranno efficaci. Ma su un punto non dovremmo avere dubbi. Non sarà possibile, d'ora in poi, permettere che le regole della finanza mondiale vengano scritte soltanto a Washington e a Wall Street.