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Da Delfi al sapere socratico di non sapere

di Linda M. Napolitano Valditara - 18/03/2009

Alle origini del «gnôthi sautòn»


Quattro sono le operazioni che vorrei provare oggi a compiere con voi: a) richiamare brevissimamente il pur complesso stato dell’arte circa la nozione greca, arcaica e classica, di autoconsapevolezza; b) ricordare alcuni documenti anteriori a Socrate e Platone attestanti la presenza e la diffusione di tale nozione, in particolare in quella che proverò, per pura comodità, a chiamare in generale «cultura delfica»; c) esaminare alcuni passi dei dialoghi platonici cosiddetti socratici o giovanili, in cui emerge la prima nozione filosofica di autoconsapevolezza, vale a dire il celeberrimo (e peraltro spesso ancora frainteso) socratico sapere di non sapere; d) mostrare come questo, che definirò «livello zero» della consapevolezza di sé, rappresenti non solo il modello storicamente più antico, ma, in sede filosofica, la forma più originaria, aporetica e nondimeno strutturale, cioè tipicamente umana e spendibile filosoficamente, dell’autoconsapevolezza.
1. Lo stato dell’arte
Vari studiosi, nel XX secolo, hanno mostrato infondata la tesi hegeliana, ma presente poi anche nella Paideia di Werner Jaeger, che nel mondo greco mancasse una nozione dell’autoconsapevolezza, intesa – nella versione hegeliana - specificamente come coscienza morale o Bewusstsein. Le ricerche di Wilhelm Nestle, Otto Seel, Rodolfo Mondolfo, Bruno Snell (cfr. rispettive voci nella Bibliografia sottoacclusa) individuano invece già nei lirici e tragici greci la presenza del suneidènai o sunghignòskein heautôi, del con-sapere con se stessi, cioè in via personale e privata, se non esclusiva, qualcosa che spesso, anche se non solo, ha applicazione e ricaduta proprio in sede morale.
Va comunque precisato che tutti i termini moderni («autocoscienza», «percezione di sé», «coscienza di sé», «autoconoscenza», «autoconsapevolezza»), essendo ormai pesantemente connotati dalla tradizione della psicologia e della Mind Philosophy, paiono tali da adattarsi comunque male alla ricca e variegata proposta in merito della cultura greca arcaica e poi dei Dialoghi platonici, dove ancora non ricorre, benché sia rilevabile e analizzabile (cfr. Cancrini 1970), neppure una terminologia tecnica precisa.
Esercizi Filosofici, 2, 2007, pp. 110-125. ISSN 1970-0164
Esercizi Filosofici 2, 2007 / Testi
Sappiamo tutti, comunque, che già l’iscrizione figurante sul frontone del tempio di Delfi, alla quale ho intitolato il mio intervento, invitava i pellegrini all’oracolo di Apollo alla consapevolezza di sé, forse inizialmente come semplice monito proverbiale, o come cautela da adottarsi nel porre le domande nella consultazione oracolare (cfr. Roscher1901; Defradas 1954; Courcelle 1947-75; Foucault 2001). Eraclito di Efeso ammetteva anch’egli la possibilità, per gli uomini, di conoscer se stessi e di essere assennati e dichiarava anzi di aver fatto lui stesso ricerca del proprio sé (cfr. Testi, brani 5 e 6). Infine, si ammette concordemente che proprio Socrate facesse dell’autoconsapevolezza il fulcro della sua interrogazione ed esortazione filosofica, come mostrano Courcelle, in un amplissimo studio comparso fra il 1947 ed il ’74, il nostro Aldo Brancacci, in un lucido saggio del ’97, ancora Pierre Hadot in varie sedi e, soprattutto, Michel Foucault nel commento all’Alcibiade I, prima parte del suo L’ermeneutica del soggetto, risalente all’inizio degli anni ’80 (cfr. per tutti, le relative voci in Bibliografia). Anch’io ho provato a mostrare le finora inesplorate ampiezza e basilarità della consapevolezza di sé non più in Socrate, ma in Platone, in una relazione presentata al Convegno della International Plato Society «Interiorità ed anima: la psyché in Platone», tenutosi all’inizio del 2006 a Como, relazione da poco pubblicata (cfr. Napolitano 2007), e ad un tema analogo nel Filebo ho dedicato la relazione presentata al VIII Symposium Platonicum mondiale a Dublino, nel luglio 2007 (cfr. Napolitano 2007c).
2. Documenti arcaici
È proprio Platone a fare in qualche modo fede storica della costante rilevanza, nella cultura religiosa e sapienziale a lui precedente, della prescrizione alla conoscenza di sé: lo attestano anzitutto i due passi dei Dialoghi che ho scelto, fra molti altri, come esergo del mio contributo, brani rispettivamente dell’Alcibiade I, dove si ammette che la conoscenza di sé costituisca il primo obbligo di ricerca («per primo va indagato questo sé»), e del Filebo, dove si afferma che per il sapiente, che pure abbia conosciuto tutte le cose, la «seconda navigazione» (formula platonica significantissima, indicante uno sforzo personale e nuovo) consista però nel non ignorar se stesso. Interessanti a confermare tale diffusa e costante attenzione alla conoscenza di sé nella cultura preplatonica sono poi altri due passi dei Dialoghi: nel primo (Prot. 343 A-B=infra, Testi, brano 1), Platone elenca le figure semi-mitiche dei 7 Sapienti, segnala la loro dipendenza da una cultura di tipo spartano (qui egli intende dir letteralmente laconica, cioè una paideia esprimentesi in formule brevi), e cita a risultato di un loro sforzo teorico e pedagogico comune proprio l’iscrizione, a Delfi, dei tre celebri motti («Conosci te stesso», «Nulla di troppo», «Promessa eccessiva reca sventura»). Il Timeo (72 A 4-6=infra, Testi, brano 2) fa eco, poi, 111
L.M. Napolitano Valditara / Alle origini del «gnôthi sautòn».
Da Delfi al sapere socratico di non sapere
a tale ricostruzione del Protagora e la conferma quando sostiene che al saggio soltanto spetti far le proprie cose e conoscer se stesso (gnônai…heautòn) e che proprio questo si vada prescrivendo giustamente e da molto tempo (eu kài pàlai).
I brani dal 3 al 5 degli acclusi Testi documentano anch’essi la presenza di formule legate alla conoscenza di sé in contesti eminenti e diversificati – dandone fra l’altro un semplice ridottissimo assaggio -: nella tragedia (il brano del Prometeo incatenato dove Oceano ammonisce il Titano a conoscer finalmente se stesso e la propria doverosa subordinazione agli dèi) (Testi, passo 3); in Erodoto (dove l’ennesima proterva spedizione antigreca dei Persiani è glossata con la riflessione che il dio non tollera che nessun altro nutra pensieri superbi, «tranne lui stesso») (Testi, passo 4); e appunto nei frr. 101 e 116 di Eraclito, dove il ricordo del Milesio, di aver fatto ricerca sul proprio sé, è accompagnato, come già ricordato, dalla riflessione che il conoscer se stessi, ginòskein heoutoùs, e l’esser assennati competa in realtà a tutti gli uomini (Testi, passi 5, 1° e 2°).
Credo senza sbagliarmi troppo che già questi dati consentano di ricostruire, nel periodo presocratico, un tipo di cultura che definirei in generale delfica: il sacerdozio di Apollo segnala una speciale eminenza nel rapporto di subordinazione al dio e di mediazione con lui e dunque esige dagli altri uomini particolari devozione e rispetto («conosci te stesso», appunto, cioè la tua inferiorità rispetto al dio ed al suo sacerdote). Lo mostrano per esempio la figura di Crise, nel I libro dell’Iliade, sacerdote appunto di Apollo, da lui protetto perfino con la dolorosa punizione della peste dalle proterve mancanze di rispetto indirizzategli dai guerrieri greci, e l’orgogliosa rivendicazione («non sono schiavo tuo, ma del Lossia», v. 410) che, nell’Edipo re, il veggente Tiresia, devoto anch’egli di Apollo, ritorce contro il re Edipo, in autoritaria ricerca della sua collaborazione nell’indagine sull’assassinio del vecchio re Laio. Se la Pizia che dava voce oracolare al dio ed i sacerdoti di Apollo rappresentano quelli che Marcel Detienne definirebbe, nella cultura greca arcaica, «maestri di verità» (cfr. Bibliografia), la seconda prescrizione delfica, il celebre «Nulla di troppo», indica, senza sostanziale soluzione di continuità rispetto a tale sapienza oracolare, una temperanza e un senso della misura costituenti il perno dell’etica greca arcaica e classica, individuabile poi chiaramente anche in Socrate e in Platone e riscontrabile, nella riflessione morale successiva, nelle virtù etiche aristoteliche.
Questi tratti di quella che ho chiamato appunto cultura delfica sono già stati rilevati: si tratta del senso strutturale del limite che l’uomo coglie in sé (gnôthi sautòn) rispetto alla sapienza del dio, risuonante nella voce dell’oracolo e del sacerdote, e della prescrizione pratica alla misura, all’astensione dall’eccesso e dalla protervia (medèn àgan) che al primo consegue. Ma v’è anche altro, forse finora meno rilevato quanto all’incidenza che tale cultura delfica ha in sede filosofica, per l’accoglimento attuato poi da Socrate della prescrizione alla conoscenza di sé. Alludo alla forma particolarissima della consultazione oracolare, esprimentesi in domande articolate su opzioni paritarie ed opposte («se…se», èite…èite), ed alla forma del pari particolare della risposta divina, spesso giocata su opzioni duplici («e… e», oppure «né…né»), risposta che assume comunque (non può che assumere) carattere enigmatico. Come ricorda Eraclito (cfr. ancora Testi, brano 5, 3°) il dio di Delfi infatti, nel suo oracolo, «non dice (apertamente), né nasconde, ma dà segni».
Questa forma specifica della relazione domanda-risposta della consultazione oracolare – fonte di fatali fraintendimenti su cui la letteratura del tempo investe con particolare efficacia - influenzerà a mio parere la dialogica di Socrate e la particolare via necessaria all’acquisizione della consapevolezza di sé, quella che passa attraverso il dubbio instillato nel dialogo: cioè attraverso la posizione di domande («se…oppure») tese a far sì che l’interlocutore renda ragione della propria vita e dei propri valori, attraverso la confutazione delle risposte fornite e attraverso l’acquisizione – aporetica, fastidiosa, imbarazzante - di quello che amo chiamare il «livello zero della consapevolezza di sé», intesa in Socrate esattamente come sapere, dialetticamente acquisito, della propria insipienza (cfr. Bibliografia, Napolitano 2007b).
3. Il sapere socratico di non sapere
Ricostruiamo il quadro di sfondo: nei Dialoghi non solo giovanili – quelli qualificati come socratici, appunto - Platone richiama più volte l’oracolo di Delfi legandolo al problema ed alla prassi dell’acquisizione dell’autoconoscenza. Il richiamo filosoficamente più significativo è quello dell’Apologia di Socrate, che leggo, lo preciso subito, non solo e non tanto come riferimento alla figura storica del maestro di Platone, quanto, sulla scia degli studi in particolare di Pierre Hadot (cfr. Bibliografia), come tratto strutturale della «sapienza umana» (anthropìne sophìa, Apol. 20 D 8), che Socrate, quale filosofo ed emblema, testimone, martire, del filosofo inteso in senso platonico, accetta di ascriversi. Qui gli riflette (Testi, brano 6): «In realtà, Ateniesi, se mi sono guadagnato questa fama (di intellettuale e sofista) è stato solo per una certa mia sapienza. Che sorta di sapienza? E’ forse una sapienza umana (anthropìne sophìa). Quanto a questa, non è escluso che io sia sapiente davvero…Quale testimone della mia sapienza, se ve n’è davvero una e di che natura sia, chiamerò davanti a voi il dio di Delfi…» (Apol. 20 D 6-21 E 8).
Egli narra poi del celebre episodio in cui l’oracolo delfico, interrogato se vi fosse qualcuno più sapiente di lui, rispose che non vi era nessuno. Il responso oracolare è enigmatico per Socrate e lo induce a riflettere; vale la pena di citare per esteso il relativo passo dell’Apologia: «Che mai vuol dire il dio, a che alluderà? Per parte mia», sostiene Socrate, «io ho coscienza in me stesso di non esser sapiente né molto né poco (egò gàr dè oùte mèga oùte smikròn sùnoida hemautôi sophòs òn); che vuol mai dire il dio nel momento in cui afferma che sono io il più sapiente? Infatti non è possibile che dica il falso: a lui non è concesso» (Apol. 21 B 3-7 = Testi 7).
Uno dei tanti brani platonici celeberrimi quanto fraintesi: vediamo. Che cosa innesca, per Socrate, la problematica enigmaticità del responso oracolare, quella che poi lo indurrà a testare questo suo presunto, celebrato sapere rispetto alla massima sapienza accreditata nel tempo, quella di poeti, politici ed artigiani? Il responso suona enigmatico ai suoi orecchi perché l’affermazione, garantita dall’autorevolezza incomparabile del dio stesso di Delfi, che nessuno vi sia più sapiente di Socrate, si scontra, urta, confligge con un’evidenza per Socrate altrettanto chiara e certa: la sua coscienza di non sapere. Tale coscienza di non sapere né molto né poco, come notano Aldo Brancacci e Antonia Cancrini, autrice di un bello scavo sulla semantica dell’autocoscienza greca intitolato sunèidesis (cfr. Bibliografia), tale coscienza ha dunque per Socrate la stessa forza, autorevolezza, evidenza di un responso divino. Vero certo tale responso, ma altrettanto vera tale sua coscienza, la cui verità evidente si oppone però aporeticamente all’altrettanto evidente verità del primo.
É curioso allora come questo brano dell’Apologia sia stato frainteso e, fra gli altri, da uno studioso di tutto rispetto com’è Gregory Vlastos, autore, nel 1991, di un lavoro intitolato Socrates, Ironist and moral Philosopher (tradotto in italiano nel ’98 come Socrate, il filosofo dell’ironia complessa) (cfr. Bibliografia): per Vlastos, e come Brancacci correttamente eccepisce, il cuore del passo appena letto - egò gàr dè oùte mèga oùte smikròn sùnoida hemautôi sophòs òn- andrebbe tradotto non, come ho fatto io qui riproducendo la bella traduzione italiana di Brancacci, «io ho coscienza in me stesso di non esser sapiente né molto né poco», ma, tutto al contrario, «io per parte mia non so di sapere né molto né poco». Nota giustamente Brancacci come tale traduzione ribalti però e depauperi del tutto di senso il testo: Socrate ha appena ammesso, come visto, di poter avere sì «una qualche sapienza umana» e di voler chiamarne a testimone il dio di Delfi. Perché allora, vero questo, egli dovrebbe ora presentare un proprio stato cognitivo solo negativo, vuoto, un puro e totale non sapere? Altro, evidentemente, è affermare: «io non so di sapere» (è negarsi appunto qualunque sapienza), altro è affermare «io so di non sapere», che è invece comunque – e come Socrate aveva esattamente annunciato di poter fare - ascriversi una qualche sapienza.
In realtà, solo questa seconda affermazione è ammissibile nel contesto del dialogo, perché appunto consegue senza contraddizioni a quanto Socrate ha appena detto e perché introduce a quanto egli farà dopo l’oracolo, cioè - messo in crisi dalla conflittualità tra la verità evidente del proprio non sapere e la verità altrettanto evidente della segnalazione del dio di lui come massimamente sapiente - avviare il test di sapienza con poeti, politici ed artigiani.
Va sottolineato anche il peso semantico dell’espressione sùnoida hemautôi, «ho coscienza in me stesso», sia per il tempo verbale a cui è ridata, sia per la sua costruzione etimologica e grammaticale: quanto al verbo si tratta, come si vede, di un perfetto, di quel tempo greco che noi ridiamo impropriamente col nostro passato prossimo, poiché indica un’azione compiuta sì nel passato, ma i cui effetti perdurano stabilmente nel presente. Si tratta poi della voce òida, perfetto di èidon, supplente di horào, voce indicante nel linguaggio quotidiano non tanto, banalmente, «ho visto», quanto, più propriamente, «l’ho visto e dunque lo so», traducibile perciò col nostro «vedo, capisco» o, fra le lingue moderne, per esempio con l’inglese «I see», frequentissimo intercalare proprio per «capisco, lo so». Inoltre tale voce verbale, indicante appunto uno stato cognitivo acquisito nel passato e stabilmente perdurante nel presente, è rafforzata in questo caso dal prefisso sun-, omologo greco del latino «cum», chiamato qui a reggere il dativo hemautôi: dunque io «con-so con me stesso», «in» o «da me stesso», e perciò quanto ora dichiaro di ‘con-sapere’ nell’intima certezza della mia coscienza (vale a dire che appunto non so), non può, come vorrebbe Vlastos, esser chiamato, per la doppia presenza della negazione oùte («né molto né poco»), limitativamente a significare il contrario «io non so di sapere né molto né poco». Da questo sùnoida, e dal verbo apparentato suneidènai deriverà, secondo la Cancrini, il sostantivo sunèidesis, che si attesterà, dopo Platone (nel quale compare piuttosto il parzialmente simile sùnnoia) ad indicare appunto la «conscientia sui» (cfr. Bibliografia).
La coscienza che Socrate ha del proprio non sapere è, dunque, forte, evidente, certa, e come tale spicca, per differenza, proprio dai diversi verbi usati invece per indicare l’instabile opinione del proprio sapere nutrita dai falsi sapienti del tempo con cui il maestro di Platone si confronta: vediamo il brano 8 dei Testi, sempre dall’Apologia platonica (21 D 4-7), che ridà gli esiti del test da lui condotto con costoro: «…costui (uno dei politici)», conclude Socrate, «supponeva di sapere benché non sapesse (òietai ti eidènai ouk eidòs), mentre io, come non so, così neppure suppongo di sapere (hosper ouk òida, oudè òiomai): mi parve dunque di esser più sapiente di lui almeno in questo piccolo particolare, che ciò che non so neppure suppongo di saperlo (ha mè òida, oudè òiomai eidènai)». Tre volte, qui, si indica la consapevolezza di un sapere non fondato, qual è quello del politico e quale sarebbe quello di Socrate stesso se ritenesse anch’egli indebitamente di sapere, tre volte tale consapevolezza è indicata come forma del semplice supporre, dell’opinare (òiesthai), del tutto diversa perciò, per stabilità e certezza, dal suneidènai heautoîs, dal consapere con se stessi la propria ignoranza. Se si ‘sa’ di sapere, ci si può sbagliare e si può dunque nutrire una pura opinione, supporre soltanto: ma non ci si può sbagliare se si ‘sappia’ di non sapere. Tale coscienza, se c’è, è, come visto, del tutto certa ed evidente: suneidènai, con-sapere, contro òiesthai, supporre,opinare.
Dunque ciò che Socrate, intimamente, certamente, con verità e in modo stabile sa è di non sapere e dovrà cercare soluzioni al conflitto fra questo, ch’egli in tal modo sa, e la parimenti certa, vera e stabile e però opposta affermazione divina della sua sapienza superiore a quella di tutti gli altri uomini. La soluzione di tale aporia consisterà, come tutti ricordiamo, nella qualificazione di quella anthropìne sophìa ch’egli poco prima aveva ammesso di poter possedere: «Probabilmente, cittadini», egli conclude, «davvero sapiente è il dio», e con quel suo oracolo intende dire che la sapienza umana val poco o niente. Solo in apparenza si riferisce a questo Socrate qui: al mio nome ricorre come a un esempio, come per dire: «Il più sapiente fra voi, uomini, è colui che come Socrate si sia reso conto (ègnoken) che quanto a sapienza non vale nulla» (Testi, brano 9=Apol. 23 A 5-B 4).
Con questa conclusione si scioglie l’aporia fra la sapienza certa di Socrate di non sapere e l’altrettanto certa indicazione divina della sua massima sapienza e si chiude il cerchio rispetto alla fruizione filosofica del motto delfico «gnòthi sautòn»: massima sapienza umana è dunque quella che accolga e riconosca il tratto strutturale dell’essere dell’uomo, che non è sapiente come il dio, che non è ignorante come una bestia, ma, come splendidamente reciterà il Simposio nel tratteggiare il demone eros compagno ab origine di noi tutti, è a mezzo fra ignoranza e sapienza ed è, di conseguenza, «filosofo per tutta la vita» (philosophôn dià pantòs toû bìou) (Symp. 203 D 7).
Dietro l’ennesima aporia enigmatica che l’oracolo delfico ha pronunciato, Socrate cercando ha dunque scoperto questa basilare verità: massimamente sapiente fra gli uomini è colui soltanto che sappia divenir consapevole di sé come insipiente, suneidènai heautôi oùte mèga oùte smikròn sophòs òn, colui che conosca se stesso abbastanza da sapere, come Socrate,con assoluta certezza che non sa.
4. Meditazione socratica?
Suneidènai, consapere in sé o da sé, è indicato talora nei Dialoghi platonici anche come sunnoeîn: ma l’uso di questo verbo è fonte di fraintendimenti, come accade per due passi altrettanto celebri sempre del Simposio, dove anche sunnoeîn figura per ascrivere a Socrate la pratica di un’apparente meditazione estatica, che pare però assai diversa dalla consapevolezza di non sapere, dal suneidènai heautoîs, descritti come ora visto nell’Apologia. Il primo brano (è il 10, 1 dei Testi=Symp. 174 D 5-6) narra come Socrate restasse indietro rispetto a quanti stavano entrando al banchetto per celebrare il drammaturgo Agatone, heautôi pos prosèchonta tòn noun, «rivolgendo in qualche modo il pensiero su di sé»; nel secondo (è Testi, 10, 2=Symp. 220 C 3-5) è Alcibiade a ricordare un episodio accaduto durante la campagna militare di Potidea, nel 432 a.C., dove Socrate sarebbe rimasto in piedi, a meditare, in mezzo all’accampamento militare ateniese per un giorno e una notte interi: «intento in qualche suo pensiero (sunnoèsas…ti), s’era bloccato fermo in piedi a meditare, nello stesso posto, fin dall’alba, e poiché non riusciva a venirne a capo, non desisteva, ma rimaneva lì immobile, a cercare (eistèkei zetôn)».
Gli studiosi hanno percorso l’ipotesi di ascrivere a Socrate, fra le askèseis, cioè fra gli esercizi spirituali che Pierre Hadot attribuisce alla figura del filosofo, del saggio già di età classica (cfr. Bibliografia), anche quella della meditazione estatica: e tuttavia che tale sunnoeîn sia frutto non di un’ispirazione estranea e straniante, sia segno non di un’irrazionale uscita da sé, ma di quel massimo sforzo delle capacità cognitive umane (malist’eis dùnamin anthropìnen) che il Platone della Lettera VII (344 B) reputa necessario per la vera comprensione, che questo e non altro sia il caso, risulta chiaro dalla fine del secondo passo. Socrate, intento in qualche suo pensiero (sunnoèsas…ti), si ferma in piedi a meditare (skopeîn) e, poiché non riesce a venire a capo di quanto sta pensando, persiste nello sforzo, non desiste, ma rimane «lì immobile, a cercare» (eistèkei zetôn). Dunque il suneidènai ed il sunnoeîn siglanti la consapevolezza di sé non sono per nulla una meditazione estatica, un uscire irrazionale da sé, ma un concentrarsi in sé (in tal senso li intenderà la pag. 67 del Fedone, proprio – cito – come un «raccogliersi e concentrarsi (dell’anima), da ogni parte del corpo, in se stessa» (autèn kath’hautèn pantachòthen ek toû sòmatos sunaghèiresthai te kài athroìzesthai) e come frutto di un’iniziativa, di uno sforzo tutto umano nel cercare, nello zeteîn (cfr. Bibliografia, Napolitano 2007a).
5. Consapevolezza di sé e ricerca
In effetti la conseguenza che Socrate trae dalla sua lettura dell’oracolo delfico, dalla sua coscienza di non sapere intesa come forma massima dell’anthropìne sophìa, è proprio una conseguenza operativa di tipo zetetico, d’impegno alla ricerca filosofica esattamente come interrogazione di sé e dell’altro: lo testimonia ancora l’Apologia, dove Socrate ricorda di aver ritenuto ed inteso che il dio, col suo responso, gli comandasse di «vivere facendo filosofia ed interrogando me stesso e gli altri» (philosophoûnta me deîn zên kai exetàzonta emautòn kài toùs àllous) (Testi, brano 11=Apol. 28 E 4-6).
Il comando delfico alla conoscenza di sé e l’acquisizione di questa come coscienza della propria insipienza si traducono dunque in un impegno alla ricerca, in una vocazione ad una relazionalità complessa esprimentesi nell’interrogazione e nella ricerca di risposte, in una dislocazione sociale della relazionalità rituale già di Delfi, dov’era il più debole ed insipiente, l’uomo, ad interrogare ponendo possibili opzioni di risposta, ed il più forte e sapiente, il dio, a rispondere, non nascondendo, né velando, ma dando enigmatici segni del vero. Adesso invece, fra esseri umani, la cui massima sapienza consista in uno strutturale sapersi insipienti, l’interrogare e rispondere diviene un confronto dialogico tra possibili fasi diverse di tali cammini di sapienza, un rispecchiamento nel livello di sapienza raggiunta dall’altro che ci sta dinnanzi e ci fa da interlocutore. Lo dice il brano riproducente un passo celeberrimo e complicato dell’Alcibiade I (Testi, brano 12=Alc. I 133 B 2-10): «un occhio, se vuole vedersi, deve guardare in un “altro” occhio, in quella parte di esso dove risiede la capacità visiva: e questa è la pupilla…e dunque…anche l’anima, se vuole conoscer se stessa (ei mèllei gnòsesthai heautèn) deve guardare in un’altra anima, e soprattutto in quella parte di essa dove risiede la virtù dell’anima (stessa), cioè la sapienza…».
Il dialogo è dunque la sede dell’esercizio filosofico della consapevolezza che noi esseri umani possiamo avere quali strutturalmente insipienti: è quella consapevolezza ad innescare, con la medesima forza aporetica ed enigmatica del responso oracolare, la spinta a cercare, ad interrogare, a confrontarsi coi tipi e livelli della sapienza altrui, anche quando non sia più un dio a garantire tale insipienza quale forma massima del nostro umano sapere, ma quando tale consapevolezza d’insipienza semplicemente, umanamente si scontri e confligga col nostro altrettanto strutturale ed insaziato desiderio di sapere.
Vediamo in proposito un brano tratto dal Menone: Socrate ha paralizzato Menone, come fa la torpedine marina con le sue vittime, ponendogli domande sull’essere della virtù a cui il giovane tèssalo non ha saputo rispondere, ma Socrate ha precisato di esser diverso dalla torpedine poiché fa dubitare (aporeîn) i suoi interlocutori per il fatto che si trova lui stesso e per primo in una situazione di dubbio. Si può cercare per domande e risposte ciò che ancora non si sa perché l’imparare è in realtà un ricordare, come Socrate mostra facendo risolvere ad uno schiavo di Menone un problema di geometria e limitandosi a porgli le domande giuste. A metà del test con lo schiavo, egli riflette così sul senso dell’interrogazione, dell’operazione dialettica che sta conducendo:
Comprendi ora, Menone, a quale punto ormai (lo schiavo) sta procedendo nel cammino della reminiscenza? (Comprendi) che all’inizio non sapeva qual è il lato della superficie di 8 piedi, come non lo sa neppure ora: ma allora supponeva di saperlo (òeto g’autèn tòte eidènai) e rispondeva con sicurezza, come se lo sapesse, e non pensava di aver dubbi; adesso, invece, si rende conto di avere dubbi e così come non sa, neppure suppone di sapere (hòsper ouk oîden, oud’òietai eidènai) (esattamente la situazione cognitiva iniziale di Socrate!)… Non si trova ora in una situazione migliore rispetto a ciò che non sapeva? … Facendolo dubitare e intorpidendolo, come fa la torpedine marina, gli abbiamo forse prodotto dei danni? … Abbiamo anzi agito opportunamente, in qualche modo, come sembra, in vista del 118
Esercizi Filosofici 2, 2007 / Testi
rinvenimento di come in effetti stia la cosa. Adesso infatti costui ricercherà volentieri, dato che non sa, mentre prima facilmente avrebbe pensato di parlare bene… Credi perciò che egli si sarebbe messo a cercare e ad imparare ciò che supponeva di sapere non sapendolo affatto (toûto hò òeto eidènai ouk eidòs), prima di cadere nell’aporia di pensare di non sapere e di desiderar di sapere? (prìn eis aporìan katèpesen heghesàmenos mè eidènai kai epòthesen tò eidènai). (cfr. Bibliografia, Napolitano 2007c)
6. La «nostalgia» della sapienza
Dunque, ci dice il passo, solo la coscienza chiara e certa di non sapere può innescare il desiderio di cercare: lo fa quando, in mancanza di un responso oracolare che porti quella coscienza a confliggere con un’indicazione elettiva di una nostra speciale sapienza (non tutti siamo Socrate), la coscienza di non sapere, indotta da una confutazione, da una smentita di una nostra precedente convinzione, entra in aporetico conflitto con un altro dato nostro strutturale: il desiderio, la ‘nostalgia’ (il greco di questo brano è potheîn, il desiderare nostalgico, struggente, di qualcosa di perduto) che abbiamo di sapere. Io, ogni volta che vengo smentito nelle mie convinzioni, mi so con assoluta certezza insipiente e però mi so desiderante, «nostalgico» di sapere. Questa consapevolezza di sé insipienti e bisognosi di sapere, dolorosa, imbarazzante, fastidiosa, essa soltanto può indurre a superare l’intorpidimento indotto dalle domande di Socrate torpedine marina: essa sola può indurre a cercare e allora non più solo Socrate, il più sapiente dei Greci secondo l’autorevole indicazione dell’oracolo di Delfi, ma anche il più ignorante di noi, anche uno schiavo, potrà cercare e trovare qualcosa di vero.
Ecco perché questa consapevolezza di sé insipienti e desiderosi di sapere è, a mio parere, non solo la più antica filosoficamente, ma teoreticamente «il livello zero» della consapevolezza di sé: perché è a fondamento di ogni altra cosa noi si possa sapere, di noi stessi e del mondo intorno a noi, è la conditio (umana) sine qua non di ogni altro possibile sapere.
L’ultimo brano ce lo conferma, poiché è il nostro stesso pensiero a funzionare, strutturalmente e anche da sé soltanto, per interrogazioni e risposte: «il pensare», riflette Platone nel Teeteto, «è un discorso che l’anima fa con se stessa» e perciò, nel momento in cui pensa, essa non fa altro «che dialogare, interrogando in se stessa da sé e rispondendo (autè heautèn erotòsa kaì apokrinomène), affermando e negando…» (Testi, brano 14=Theaet. 189 E 6-7).
Mai però l’anima interrogherà se stessa e tenterà di dar risposte se si presuma sapiente, se opini già di sapere: al contrario interrogherà e risponderà, dovesse continuare a farlo, come Socrate sul campo di Potidea, un giorno e una notte interi, solo l’anima che, con assoluta certezza, si sappia insipiente e però, nel contempo ed aporeticamente, desiderosa di sapere.
Poiché questo sapersi tale, forma basilare dell’anthropìne sophìa, è l’unico ed il primo sul quale, anche non sapendo null’altro, essa certamente non può sbagliarsi e perché esso soltanto può indurla a cercare.
Testi
(le traduzioni dal greco antico sono, salvo diversa indicazione, mie)
1) PLAT. Prot. 343 A 1-B 3
…Fra questi vi era anche Talete Milesio, e Pittaco di Mitilene, Briante di Priene, il nostro Solone, Cleobulo Lindio e Misone di Chene e, settimo, si annoverava fra essi lo Spartano Chilone. Essi eran tutti ferventi ammiratori e discepoli dell’educazione spartana: che la loro sapienza fosse di tal genere <cioè laconica> lo si capisce dai brevi, memorabili detti che ognuno di loro pronunciò e che inoltre, riunitisi insieme, essi consacrarono ad Apollo quali primizie della loro sapienza, facendo incidere sul frontone del tempio di Delfi i motti che tutti oggi celebrano: ‘Conosci te stesso’ e ‘Nulla di troppo’…
2) PLAT. Tim. 72 A 4-6
…ma giustamente e da lungo tempo si va dicendo che il fare le proprie cose ed il conoscer queste e se stesso appartenga al saggio soltanto…
3) AESCH. Prom. v. 305
(OCEANO A PROMETEO)…conosci te stesso…
4) HEROD. Hist. VII 10, 55
…perché non tollera il dio che nessun altro, tranne lui stesso, nutra pensieri superbi…
5) HERACL. fr. 101; fr. 116; fr. 93
…ho fatto ricerca di me stesso…
…a tutti gli uomini spetta di conoscer se stessi e di essere assennati…
…il signore, il cui oracolo è a Delfi, non dice (apertamente) né nasconde, ma dà segni…
6) PLAT. Apol. 20 D 6-21 E 8
In realtà, Ateniesi, se mi sono guadagnato questa fama (di intellettuale e sofista) è stato solo per una certa mia sapienza. Che sorta di sapienza? E’ forse una sapienza umana (anthropìne sophìa). Quanto a questa, non è escluso che io sia 120
Esercizi Filosofici 2, 2007 / Testi
sapiente davvero…Quale testimone della mia sapienza, se ve n’è davvero una e di che natura sia, chiamerò davanti a voi il dio di Delfi…
7) PLAT. Apol. 21 B 3-7
Che mai vuol dire il dio, a che alluderà? Per parte mia, io ho coscienza in me stesso di non esser sapiente né molto né poco (egò gàr dè oùte mèga oùte smikròn sùnoida hemautôi sophòs òn); che vuol mai dire il dio nel momento in cui afferma che sono io il più sapiente? Infatti non è possibile che dica il falso: a lui non è concesso (trad. it.A. Brancacci).
8) PLAT. Apol. 21 D 4-7
…costui (uno dei politici esaminati) supponeva di sapere benché non sapesse (òietai ti eidènai ouk eidòs), mentre io, come non so, così neppure suppongo di sapere (hosper ouk òida, oudè òiomai): mi parve dunque di esser più sapiente di lui almeno in questo piccolo particolare, che ciò che non so neppure suppongo di saperlo (ha mè òida, oudè òiomai eidènai).
9) PLAT. Apol. 23 A 5-B 4
Probabilmente, cittadini, davvero sapiente è il dio, e con quel suo oracolo intende dire che la sapienza umana vale poco o niente. Solo in apparenza si riferisce a questo Socrate qui: al mio nome ricorre come a un esempio, come per dire: ‘Il più sapiente fra voi, uomini, è colui che come Socrate si sia reso conto (ègnoken) che quanto a sapienza non vale nulla’.
10) PLAT. Symp. 174 D 5-6 e 220 C 3-5
…Socrate, rivolgendo in qualche modo il pensiero su di sé (heautôi pos prosèchonta tòn noun), rimaneva indietro…
…(Socrate), intento in qualche suo pensiero (sunnoèsas…ti), s’era bloccato fermo in piedi a meditare, nello stesso posto, fin dall’alba, e poiché non riusciva a venirne a capo, non desisteva, ma rimaneva lì immobile, a cercare (eistèkei zetôn).
11) PLAT. Apol. 28 E 4-6
…se il dio stabilisca, come ho ritenuto ed inteso, che io debba vivere facendo filosofia ed interrogando me stesso e gli altri (philosophoûnta me deîn zên kai exetàzonta emautòn kài toùs àllous)…
12) PLAT. Alc I 133 B 2-10
…un occhio, se vuole vedersi, deve guardare in un (altro) occhio, in quella parte di esso dove risiede la capacità visiva: e questa è la pupilla…e dunque, caro 121
L.M. Napolitano Valditara / Alle origini del «gnôthi sautòn».
Da Delfi al sapere socratico di non sapere
Alcibiade, anche l’anima, se vuole conoscer se stessa (ei mèllei gnòsesthai heautèn), deve guardare in un’altra anima, e soprattutto in quella parte di essa dove risiede la virtù dell’anima (stessa), cioè la sapienza…
13) PLAT. Men. 84 A 3-C 6
Comprendi ora, Menone, a quale punto ormai (lo schiavo) sta procedendo nel cammino della reminiscenza? (Comprendi) che all’inizio non sapeva qual è il lato della superficie di 8 piedi, come non lo sa neppure ora: ma allora supponeva di saperlo (òeto g’autèn tòte eidènai) e rispondeva con sicurezza, come se lo sapesse, e non pensava di aver dubbi; adesso, invece, si rende conto di avere dubbi e così come non sa, neppure suppone di sapere (hòsper ouk oîden, oud’òietai eidènai)… Non si trova ora in una situazione migliore rispetto a ciò che non sapeva?… Facendolo dubitare e intorpidendolo, come fa la torpedine marina, gli abbiamo forse prodotto dei danni?… Abbiamo anzi agito opportunamente, in qualche modo, come sembra, in vista del rinvenimento di come in effetti stia la cosa. Adesso infatti costui ricercherà volentieri, dato che non sa, mentre prima facilmente avrebbe pensato di parlare bene… Credi perciò che egli si sarebbe messo a cercare e ad imparare ciò che supponeva di sapere non sapendolo affatto (toûto hò òeto eidènai ouk eidòs), prima di cadere nell’aporia di pensare di non sapere e di desiderar di sapere? (prìn eis aporìan katèpesen heghesàmenos mè eidènai kai epòthesen tò eidènai).
14) PLAT. Theaet. 189 E 6-7
…il pensare…è un discorso che l’anima fa con se stessa riguardo a ciò che sta indagando…questo, in effetti, mi pare: che, nel momento in cui pensa, essa non stia facendo null’altro che dialogare, interrogando se stessa da sé e rispondendosi (autè heautèn erotòsa kaì apokrinomène), affermando e negando.
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