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Esiste una «filosofia della spiaggia», come un tempo esistette la «filosofia del giardino»?

di Francesco Lamendola - 19/03/2009

 


La storia della filosofia greca ci ha abituati, con Aristotele, all'idea che si possa filosofare camminando sotto i portici; e, con Epicuro, che lo si possa fare all'ombra di un giardino.
Ai nostri giorni, Marc Sautet ci ha abituati all'idea che si possa fare filosofia sui tavolini di un caffè, e, da parte sua,  Maurizio Ferraris ci ha fatto riflettere sui risvolti filosofici della moda imperversante del telefono cellulare (cfr., rispettivamente,  i nostri precedenti articoli: «La violenza è propria dell'uomo o si trova in tutta la natura?»; e l'altro, «E se Lara e Jurij Živago avessero avuto il telefonino?», entrambi consultabili sul sito di Arianna Editrice).
Ma che cosa si potrebbe dire, di una filosofia della spiaggia? Può esistere? E, se sì, come la si dovrebbe immaginare?
Non intendiamo dire della spiaggia, intesa solo come luogo fisico: sappiamo, dall'«Ottavio» di Minucio Felice - in cui due amici discutono, con garbata misura, sui pro e i contro del paganesimo rispetto al cristianesimo, mentre passeggiano sul lido di Ostia - che la riva del mare è certamente un luogo idoneo a trattare questioni filosofiche. Intendiamo dire della spiaggia come luogo psicologico, come luogo ideale.
Questo, per quanto ne sappiamo, è un quesito che non è stato ancora posto, a dispetto del fatto che, nella nostra cultura, «spiaggia» sia un sostantivo che evoca molte cose gradevoli alla nostra mentalità edonistica: non soltanto il senso di libertà del mare, del sole e del vento, ma anche la piacevolezza di un tempo non legato alla schiavitù del lavoro, il piacere puramente estetico della contemplazione  - non solo del paesaggio, ma anche dei bei corpo seminudi e abbronzati -, e, per associazione di idee, la trasgressione e la possibilità di avventure sessuali.
Insomma, tutto quello che non è dovere, lavoro, impegno, prevedibilità; tutto quello che può far sognare, specialmente se si è giovani o se ci si sente giovani nel cuore.
Ebbene, c'è un popolo, un intero popolo - e non dei più piccoli, anzi, parliamo di 157 milioni di persone, metà delle quali hanno meno di vent'anni e il 65% meno di trenta - che vive, praticamente, all'insegna della «filosofia della spiaggia», anche se molti non hanno mai visto il mare o se vivono a grande distanza da esso.
Stiamo parlando del Brasile, naturalmente: un Paese che è grande quasi quanto un continente e che da solo, infatti, occupa circa la metà dell'America Meridionale; uno dei giganti mondiali, che domineranno il futuro del nostro pianeta.
A noi, che lo abbiamo visitato in lungo e in largo e che ne abbiamo ritratto una fortissima impressione, che neanche dopo molti anni si è attenuata, ha dato realmente l'idea di un Paese tutto pervaso da una filosofia che non sapremmo definire in modo meno impreciso che come una «filosofia della spiaggia».
Intendiamo definire, con ciò, quel particolarissimo atteggiamento esistenziale - che trova la sua più efficace espressione letteraria nei romanzi di Jorge Amado, e specialmente quelli più scanzonati e picareschi, come l'esilarante «Donna Flor e i suoi due mariti» - fatto di dolce indolenza, di oraziano «carpe diem» e di gioia di vivere, peraltro soffusa di malinconia; come bene è dato cogliere nella chitarra classica di quel popolo, così eminentemente dotato per la musica, al punto che la sua stessa parlata risuona come un vero e proprio canto.
In particolare, bisogna aver visto le spiagge dorate di Rio de Janeiro, dove si concentra - più che nella moderna, dinamica San Paolo, caratterizzata, peraltro, da un clima assai più temperato; o, meno ancora, nella avveniristica Brasilia - questo clima esistenziale, per comprendere tutto il fascino che promana da esso e come sia possibile che quel popolo giovane e un po' infantile (sia detto senza alcun intento offensivo; anzi, con tutta la simpatia del mondo) abbia fatto della spiaggia il proprio modo di vita, una vera e propria filosofia.
Non bisogna pensare, comunque, a una spensieratezza senza ombre.
A Rio de Janeiro, per esempio, c'è una percentuale altissima di incidenti stradali; e, se vi arrischiate a salire su un autobus, capirete perché. Dopo aver visto la folle spericolatezza con cui guidano gli autisti dei mezzi pubblici, non sarà difficile immaginare come debbano guidare gli automobilisti privati. Le vittime della strada, quindi, sono all'ordine del giorno; e i loro investitori piangono e si disperano - almeno per un po'.
Poi, i brutti ricordi vengono dimenticati in fretta; la vita che va avanti, proclama ad alta voce i suoi diritti: e tutto riprende come prima. Lo stesso tipo di atteggiamento caratterizza i rapporti affettivi e il sorgere o il disfarsi del tessuto familiare: ci si piace, ci si prende, poi ci si stanca e ci si lascia; e questo è tutto. Semplice, no?
L'altra faccia di questa insostenibile leggerezza (come direbbe Milan Kundera) è una ombrosità improvvisa, una malinconia che scende di colpo, come una nuvola che si posi davanti al sole e ne faccia scomparire la calda carezza.
Dicono che qualcosa di simile si nota nella psicologia dei Polinesiani - spensieratezza, gioia di vivere e poi, di colpo, tristezza e perfino nausea indefinita - e in genere, forse, nei popoli giovani che vivono nella zona tropicale; complici la mitezza del clima, lo splendore della natura oceanica, la facilità di vivere con poco lavoro, purché non si abbiano troppe pretese.
Chi non è mai stato in Brasile, potrebbe pensare che stiamo dipingendo dei luoghi comuni, delle cartoline ispirate al Carnevale di Rio; ma non è così. È vero, invece, che il Carnevale di Rio sintetizza una certa filosofia di vita che è propria del Brasiliano, almeno di quello che vive lungo la costa o nelle sue immediate vicinanze.
Scrivono Douglas Botting e altri autori nel volume «Brasile» (titolo originale: «Brazil», Time-Life, 1983; traduzione italiana di R. Carpinella e F. Corsi, Milano, Edizioni CDE - Arnoldo Mondadori, 1985, p. 34):

«Con 7.408 chilometri di sabbie bianche che si snodano lungo la costa atlantica e temperature che di rado scendono sotto i venti gradi, le spiagge del Brasile rappresentano un richiamo irresistibile per chiunque abiti vicino alla costa. Pulsanti di vita, frementi di samba, le ampie insenature e le piccole baie orlate di palme sono il punto d'incontro di tutte le razze e di tutte le classi. Nei loro ridotti bikini ragazze delle "favelas" si abbronzano al sole tranquillamente sdraiate accanto alle ereditiere delle lussuose residenze di Copacabana. Uomini d'affari in costume da bagno passeggiano lungo la battigia discutendo le loro faccende, senza quasi far caso a quelli che giocano a pallavolo o agli scolari che fanno i compiti allungati scompostamente sulla sabbia.
Per alcuni la spiaggia è un mercato, un bazar di palloni, bigiotteria e gelati insaporiti con frutti tropicali. Per altri è addirittura una fonte di vita: i molluschi raccolti durante la bassa marea sono un nutrimento prezioso per molte famiglie che non potrebbero mai permettersi di acquistare nei negozi queste leccornie.
La spiaggia resta animata a lungo dopo il tramonto. Diventa una pista da ballo, un luogo di incontri amorosi o di preghiera: certe notti vi si danno appuntamento, per onorare le divinità del mare, i seguaci di culti spiritici originari dell'Africa e importati qui con gli schiavi.
Le spiagge sono ormai parte così integrante della vita del paese che per molti Brasiliani il valore di una città dipende dalla sua vicinanza alla costa. I fortunati abitanti di Rio de Janeiro, coi suoi 80 chilometri di spiaggia, o di Salvador,  con la sua baia turchese e le sue tranquille lagune, non possono che commiserare quel 65 per cento di Brasiliani che vive nell'interno, lontano dalla vista e dal rumore del mare.»

La spiaggia, dunque, per i Brasiliani che abitano nei centri costieri, non è affatto solo un luogo geografico, ma corrisponde a un vero e proprio modo di vita.
Questo modo di vita, in quanto esalta la naturalezza, è fatto anche di culto del corpo, cosa d'altronde quasi inevitabile in un popolo anagraficamente così giovane; e, di conseguenza, di sensualità più o meno esplicita, ma sempre sottesa a ogni gesto e a ogni sguardo.
Hanno osservato, a questo proposito, Bernard Bret, Hélène Riviere d'Arc e gli altri autori del libro «Brasile» (titolo originale: «Brésil», Larousse, 1994; traduzione italiana di Ersilia d'Antonio, Milano, Edizioni di Selezine dal Reader's Digest, 1996, p 59):

«Il moderno stile di vita, che assegna un posto importante al tempo libero e la cura del corpo, non riguarda la popolazione rurale né gli abitanti delle città dell'interno o delle grandi periferie urbane. Per i milioni di abitanti delle metropoli costiere, tuttavia, le bellissime spiagge e il clima tropicale hanno favorito piacevoli abitudini ben conciliabili con la vita di tutti i giorni. La spiaggia è così diventata il punto d'incontro privilegiato e il luogo dove ci si dedica al "culto del corpo".. Ogni giorno migliaia di persone vi fanno "jogging" e, sfidando i raggi brucianti del sole, ragazzi  abbronzati disputano accanite partite di calcio. Negli anni Ottanta sono state montate sulle spiagge le reti per la pallavolo e ormai i due sport rivaleggiano in popolarità. Gli uomini sono snelli e atletici e le donne, coperte da minuscoli tanga, mostrano una sensualità a fior di pelle. Qui la bruttezza è vista come un grave difetto ed è vissuta come una colpa. Ultimamente nuovi sport sembrano aver conquistato la gioventù-bene: sono così diventati numerosi i surfisti amanti del mare e i fanatici del deltaplano.
Nonostante molte abitudini siano cambiate, le ricche famiglie di Rio hanno conservato le vecchie tradizioni: per esempio, è d'obbligo passare il fine settimana e le vacanze a Petrópolis o a Teresópolis, nella vicina regione montana, un tempo luogo di villeggiatura estiva dell'imperatore Pietro II. La buona borghesia di San Paolo, invece, va in vacanza nell'amena località di Campos do Jordão e sulle bellissime spiagge e isole del litorale, come quella di Guarujá. Si tratta di pochi privilegiati che frequentano eleganti circoli privati dove si praticano sport esclusivi come il tennis, il golf, la vela e l'equitazione.
Equitazione e automobilismo hanno dato al Brasile grandi campioni come il cavallerizzo Nelson Pessoa, o Nelson Piquet, Emerson Fittipaldi e il compianto Ayrton Senna., in campo automobilistico; questi sport, però, rimangono circoscritti a un'élite e non godono del medesimo successo che ha il gioco del calcio.»

Si resta colpiti dal fatto che in una società del genere la bruttezza possa essere vissuta con un senso di colpa; mentre la povertà, ad esempio, non produce alcun complesso (anche se produce, ovviamente, altri effetti), tanto che le ragazze delle "favelas" si abbronzano al sole sulla spiaggia,  fianco a fianco con le ragazze delle famiglie ricche, democraticamente accomunate dal ridottissimo costume da bagno e dalla sensualità prorompente.
Si direbbe che il culto degli antichi Greci per la bellezza del corpo e il loro orrore per la bruttezza, vista sempre anche come deformità dell'anima (un esempio per tutti, il personaggio di Tersite nel secondo libro dell'«Iliade») abbia dato i suoi frutti tardivi sulle spiagge dorate del Brasile, in pieno mondo moderno: avanguardia di un generale atteggiamento edonistico, narcisistico ed estetizzante che sta ormai contagiando gran parte delle società attuali.
Perciò, ritornando alle domande che ci eravamo poste all'inizio - se, cioè, sia possibile una filosofia della spiaggia, e come ce la dovremmo immaginare - siamo propensi a credere che essa non soltanto sia possibile, ma che sia già la filosofia di vita di diverse decine di milioni di persone; e che il suo tratto caratteristico sia una singolare miscela di naturalismo greco e di consumismo moderno. Il suo tipo ideale sarebbe perciò una sorta di «buon selvaggio» alla rovescia: non l'uomo innocente (e felice) che vive in perfetta armonia con la natura, ma l'uomo falsamente innocente (e nevrotico) che emerge dalle ombre della storia, per riconquistare un impossibile Paradiso perduto.
La tentazione di una filosofia della spiaggia si configura, pertanto, come la tentazione dell'evasione per eccellenza, ossia non da questo o quel determinato problema sociale, politico, ecologico, ecc., ma dal mondo della storia in quanto tale, nel «locus amoenus» che riproduce - "mutatis mutandis" - la natura sensuale, complice e amica del Giardino di Armida nella «Gerusalemme Liberata».
Come il bel Rinaldo, ci vorremmo tutti dolcemente assopire in quella dimensione senza tempo, lontani dall'idea del lavoro, del dovere, del sacrificio.
Ma sarebbe davvero una fuga verso la libertà?
O non sarebbe, piuttosto, una consapevole evasione verso una versione aggiornata, ma sostanzialmente equivalente, dei «paradisi artificiali» cari ai decadentisti?
Di fatto, la visione della vita sottesa ad una tale filosofia della spiaggia costituisce un regresso rispetto ad alcune fondamentali acquisizioni della nostra coscienza morale, prima fra tutte l'idea (che risale a Platone e non, come comunemente si crede, al cristianesimo) che la bellezza dell'anima sia di maggior pregio di quella del corpo; e che lo spirito di sacrificio, inteso nel senso più ampio (ad esempio come disponibilità a commisurare le proprie aspirazioni con le giuste esigenze degli altri, primi fra tutti coloro che diciamo di amare) rappresenti un valore più alto del puro e semplice perseguimento del proprio piacere o del proprio interesse.
La filosofia della spiaggia può esercitare un indiscutibile fascino soprattutto su coloro i quali non sono propensi ad affrontare, qui e ora, le proprie responsabilità; è una filosofia da ragazzi, nel senso regressivo del termine: un po' come appare nel geniale romanzo «Ferdydurke» (1938) dello scrittore polacco Witold Gombrowicz, che ci mostra un mondo di adulti rimbambocciti.
Certo non è una filosofia per spiriti forti; e, meno ancora, per spiriti liberi: poiché questi ultimi sanno fin troppo bene che il prezzo della vera libertà è costituito, sempre e comunque, dalla lotta e da un certo ineliminabile grado di sofferenza.