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Gli esercizi spirituali come pratica di libertà

di Michela Giangualano - 19/03/2009

 

Introduzione
Studiando la filosofia antica ci si accorge di avere a che fare con degli uomini in carne ed ossa che cercano di venire a patti con la realtà.
Sono uomini che dicono le loro opinioni e che cercano di capire chi sono e dove si trovano…ma anche uomini che agiscono nel mondo e tengono fede col loro comportamento a ciò che dicono e pensano.
Questi uomini dell’antichità che ci appaiono negli scritti fino a noi pervenuti sono spesso ben caratterizzati, sono delle narrazioni viventi e mettono a nudo la loro anima nei discorsi a cui partecipano.
Come si vede nel “Fedone” di Platone alcuni di quegli uomini discorrono, alcuni domandano, alcuni ascoltano…pensano, riflettono, mettono in mostra i loro saperi ma anche la fisicità dei loro corpi. Questa fisicità è mediata però dalla parola e dagli intenti di chi racconta la storia per renderla esemplare e infine per plasmarla su un modello stabilito in proprio.
Gli uomini di cui qui si parla non sono tanto comuni, sono uomini che aspirano alla sapienza e alla saggezza. Sono uomini che hanno guardato alla sofferenza e alle tristezze del mondo, e che invece di tentare vanamente di sfuggirle hanno cercato di comprenderle entro un disegno più vasto, dove il chiaroscuro del mondo ricerca e trova i suoi colori.
Sono uomini che hanno percorso un cammino di conoscenza che li ha resi consapevoli dell’importanza di ogni passo e di ogni luogo attraversato e di ogni cosa vista e assaporata, e di ogni cosa genuina pensata.
Ognuno di loro ha visto cose diverse, o forse le stesse cose ma con sguardo diverso. Ciò che forse li accomuna è l’aver creduto in ciò che facevano e dicevano, l’aver pensato di avere accolto in sé lo spirito dell’universo, l’essersi sentiti liberi dalla necessità, in quanto capaci di distinguere ciò che è bene da ciò che non lo è, conformandosi al bene come da loro identificato.
Ciò che qui si vuole narrare (in breve) è ciò che loro hanno cercato di mettere in pratica e il modo in cui loro si sono resi consapevoli del loro essere nel mondo e per il mondo. Soprattutto si vuole mettere in luce come gli esercizi praticati servissero loro ad entrare in comunanza con il tutto e a farsi vita al servizio della conoscenza, del benessere, del bene, della Ragione, della virtù, della felicità, del piacere e non ultima della comunità. Ognuno di loro ha scelto una strada, un sentiero. Ognuno di loro ha capito che la propria libertà consisteva nel scegliersi un percorso esistenziale e nell’attraversarlo con coerenza rispetto i propri ideali e la propria visione di ciò che è Bene.

1. Gli esercizi spirituali nel corso del tempo
1.1. La pratica filosofica ai tempi di Socrate e Platone
Lo studioso del pensiero ellenistico e romano Pierre Hadot nel libro “Che cos’è la filosofia antica?” pone una distinzione netta tra il modo in cui si concepisce la filosofia oggi e il modo in cui essa veniva vissuta nell’antichità.
In particolare sottolinea come la filosofia, da Socrate fino all’avvento del Cristianesimo, si sia prospettata come un modo di vivere a fondamento del discorso filosofico e non viceversa, e come venisse messa in atto un’opzione esistenziale, da parte dei filosofi aderenti ad una determinata scuola, che faceva sì che tutti i discepoli della scuola in conformità a una scelta iniziale fossero determinati all’applicazione di un certo ideale di vita (Hadot, 1998, p. 5).
Per fare ciò era necessario che i filosofi si dedicassero alla pratica di esercizi spirituali. Per Hadot sono da intendersi come tali le pratiche d’ordine fisico, discorsivo, intuitivo “volte a operare una modificazione e trasformazione del soggetto” (Hadot, 1998, p. 7). L’atto filosofico si presentava così come una conversione e “una metamorfosi totale della maniera di vedere il mondo e di essere in esso” (Hadot, 1988, IX).
Le opere filosofiche degli antichi, inoltre, in quanto destinate alla formazione delle anime, acquistavano un valore psicagogico.
Platone utilizzava la figura di Socrate nei “discorsi” che via via predisponeva, mettendo in opera delle rappresentazioni delle sue idee nascosto dietro questa maschera dialogante di eterno propositore di indagini sulla natura dell’uomo e delle cose.
Ne “Il Simposio” (così come nella “Apologia di Socrate”) si tratteggia la figura del filosofo come di colui che, cosciente del suo non-sapere, tramite l’interrogazione ironica, con cui si finge di avere qualcosa da imparare dall’altro (e che rimanda alla figura metaforica del Sileno individuabile nel “Convivio”), rende consapevoli gli interlocutori di essere detentori solo di un sapere convenzionale, che è appunto un non-sapere, come dice essere il suo.
Per Hadot, questo modo di criticare il sapere presunto porta alla consapevolezza che il sapere e la verità non possano che essere generati tramite la scoperta del singolo individuo.
Socrate si identifica maieuticamente con la figura della levatrice e costringe gli altri ad esaminarsi e a mettersi alla prova, all’interno del discorso razionale. In questo modo, come dice bene Hadot, la coscienza di sé e il rimettere in discussione se stessi possono scaturire attraverso il “superamento dell’individualità che si innalza a universalità, nel logos comune ai due interlocutori” (Hadot, 1998, p. 34).
Hadot mette pure in evidenza, attraverso la lettura della “Apologia” (versi 29a-b e 29e), come Socrate dia valore all’azione morale e all’intenzione morale, dipendenti dalla scelta dell’individuo. Il sapere, come riferisce Hadot, non è “una teoria astratta, ma la certezza di una scelta” (Hadot, 1998, p. 35), e questa scelta coinvolge Socrate in modo totale. Dentro Socrate parla un daimon, una voce divina, che altro non è che la coscienza morale, derivante dal desiderio innato del bene. Il filosofo sente dentro di sé come missione l’aiutare gli altri a trovare il vero bene.
Socrate crede nella volontà di fare il bene e ai suoi occhi non c’è che una colpa: quella morale. Ecco perché per lui è fondamentale la cura degli altri e della città.
Il fatto stesso che Socrate, pur avendo la possibilità di fuggire o andare in esilio, scelga la morte, pena comminatagli dalla società di cui si sente parte, è indice che la sua scelta ha per lui il valore esemplare della coerenza col percorso intrapreso e dell’accettazione delle regole condivise dalla società degli uomini in cui è cresciuto. Socrate sente che la sua azione acquista valore nel suo contesto di riferimento e in esso trova la sua amplificazione e la sua ragione di essere.
Socrate è un vero filo-sofo, amante della sapienza, ed è identificabile con la figura di Eros (figlio di Poros e Penia), colui che desidera la bellezza e la perfezione dell’essere, e che per avvicinarla deve mettere in atto degli artefici. Gli altri che lui incontra sono attratti proprio da questa sua dimensione dell’aspirazione a qualcosa di grande, e la storia di Socrate-Platone ha tanto più valore
in quanto egli dimostra che rispetto ciò in cui crede non accetta compromessi. Difatti anche laddove questi non può arrivare col ragionamento (per es. nel finale del “Fedone”), può arrivare con l’elaborazione del proprio immaginario, rendendo viva, agli occhi di chi è lì per “udire”, la propria visione e immagine di ciò che è, sarà ed è stato.
Naturalmente ciò che ci è pervenuto di Socrate è in gran parte legato all’uso che della vita e popolarità di Socrate ne ha fatto Platone, il suo discepolo più famoso. Così, mentre è probabile che i discorsi e il metodo che usava Socrate per rapportarsi agli altri e per condurli sulla propria strada fossero di paternità del Socrate storico, il contenuto dei discorsi, ciò che supera la posizione socratica del “non-sapere”, va probabilmente imputato alla capacità speculativa di Platone.
Secondo Hadot, l’interesse iniziale più evidente in Platone è quello per la politica. Per Platone le città dovrebbero essere governate e affidate a “filosofi”, animati dall’amore per il bene, tesi alla propria trasformazione interiore, formati secondo un metodo razionale rigoroso (Hadot, 1998, pp. 58-59).
Per formare questi “eletti” Platone avrebbe predisposto la sua Accademia. All’interno di essa si studiavano diverse discipline e, giunti a una certa “maturazione”, ci si poteva cimentare con le esercitazioni di dialettica, che miravano alla formazione di “una perfetta padronanza della parola e del ragionamento”(Hadot, 1998, p. 62). Questi esercizi di dialettica costituivano per Hadot un vero e proprio esercizio spirituale, in cui due interlocutori si trovavano a co-condurre un discorso nell’intento di “giungere ad un accordo con le esigenze razionali del discorso sensato, del logos” (Hadot, 1998, p. 62). Non si trattava perciò di un semplice esercizio sofistico di retorica, bensì di una tecnica di disvelamento. Infatti la verità a cui gli interlocutori miravano era una verità indipendente. L’individuo doveva trascendere se stesso superandosi, in un discorso che implicasse “un’esigenza di razionalità e universalità” (Hadot, 1998, p.63).
D’altro canto, l’etica del dialogo è legata alla sublimazione dell’amore. L’uomo ama in quanto ha uno slancio verso la bellezza trascendente. Il filosofo sublima l’amore cercando di renderne migliore il soggetto e questa fecondità dello spirito si manifesta nel discorso filosofico. La scienza in Platone non è mai solo teorica, ma è anche trasformazione dell’essere e affettività (Hadot, 1998, pp. 69-70).
Il discorso filosofico, per Platone, ha però il limite di non riuscire ad esprimere l’essenziale: le Forme e il Bene, che si sperimentano “in modo non discorsivo, nel desiderio e nel dialogo” (Hadot, 1998, p.75). Le Forme non sensibili sono i garanti della rettitudine del discorso, sono i “valori morali che fondano i nostri giudizi sulle cose della vita umana” (Hadot, 1998, p. 74). Il sapere platonico è legato a questi valori.
Nel “Fedone” si manifesta poi l’esercizio della morte: Socrate trova il coraggio per morire proprio in quanto filosofo.
Il dialogo nel “Fedone” mira a dimostrare come nella morte abbia luogo la separazione dell’anima dal corpo. In base a questa acquisizione, essendo che il corpo si disgrega in seguito alla morte, ciò a cui il filosofo è bene che si dedichi è il pensiero, l’intelligenza, il logos, l’universale (Hadot, 1998, p. 67). L’esercizio della morte è quindi un esercizio di consapevolezza della superficialità delle passioni che sono legate alla corporeità e di ricerca e aspirazione alla trascendenza e all’universale.
1.2. Come guardare ad Aristotele con altri occhi
Anche in Aristotele si ha l’aspirazione ad innalzarsi da un livello di vita materiale ad un punto di vista universale e trascendente. La scelta filosofica mira infatti a superare l’io individuale a favore di un io superiore e il culmine dell’attività filosofica consiste nella contemplazione dell’Intelletto divino, accessibile all’uomo solo in rari momenti (Hadot, 1998, pp.78-79).
Dice Hadot che “per Aristotele la filosofia consiste in un modo di vita teoretico”, dove il modo di conoscenza “ha come scopo il sapere per il sapere” e il modo di vita “consiste nel consacrare la
vita a questo modo di conoscenza” (Hadot, 1998, p. 79). La felicità filosofica corrisponde alla theoria, che è “un genere di vita interamente consacrato alla verità dello spirito” (Hadot, 1998, p.77).
La vita secondo lo spirito apporta piaceri stabili, indipendenza e atarassìa, in quanto la sua finalità è quella di volere la conoscenza di per se stessa (Hadot, 1998, p.80).
Aristotele privilegia l’osservazione, come modalità del conoscere, che si trasforma in piacere della contemplazione. Ciò che si sperimenta in questo modo è l’attrazione del principio supremo: supremo desiderabile e supremo intelligibile; e il culmine di questo aspirare è l’intuizione dell’indivisibilità della beatitudine divina (hadot, 1998, p.84).
Per quanto concerne il metodo adottato nella sua scuola si privilegiava il dialogo e la discussione dei problemi, in modo da sviluppare una ricerca in comune. I problemi venivano affrontati da angolature diverse e l’obiettivo era quello di cercare le cause dei fenomeni in ogni campo della realtà (Hadot, 1998, p.86).
Aristotele aveva però coscienza dei limiti del discorso filosofico. Era consapevole che il semplice risultava inesprimibile col linguaggio. L’Intelletto primo non poteva che essere intuito.(Hadot, 1998, p.87).
Per quanto riguarda la politica, inoltre, Aristotele credeva che i legislatori dovessero contribuire a creare le condizioni affinché si potessero formare cittadini virtuosi ed eventualmente dediti alla pratica filosofica. I filosofi stessi avevano il compito di formare il giudizio degli uomini politici, se pur consacrandosi ad una vita di studio, ricerca e contemplazione (Hadot, 1998, pp. 88-90).
1.3. Il Giardino di Epicuro
Epicuro è detentore di un modo di vedere le cose che si discosta abbastanza da quelli finora analizzati. La prospettiva da cui parte è più materialista. Anche se, per Hadot, quando si adotta il termine “carne” in Epicuro si fa riferimento all’individuo (Hadot, 1998, p. 111), si tratta pur sempre di un individuo in carne ed ossa, di un individuo storico, in cui l’anima e il corpo “vanno a braccetto”, sono uniti in uno stesso destino.
La filosofia in Epicuro è ricerca ragionevole del piacere di esistere. L’uomo deve imparare a percepire il vero piacere, a trattenerlo e distinguerlo dal falso. Per Hadot la filosofia di Epicuro ha una vocazione terapeutica (Hadot, 1998, p.112). Si potrebbe aggiungere individualistica, in quanto Epicuro concentra la sua attenzione sulle esigenze di felicità dell’uomo, partendo da esso e tornando ad esso, dopo un percorso nella “fisica” che gli consente di legittimare la sua posizione e le sue aspettative.
Con Epicuro l’uomo diviene consapevole di poter acquisire la propria libertà e felicità attraverso una riflessione sul proprio essere al mondo che lo porta a riconoscere il piacere della propria esistenza.
L’uomo si dimostra in grado di trovare il suo equilibrio attribuendo importanza ai piaceri stabili, a svantaggio di quelli in movimento. In questo modo col semplice non aver fame, sete, freddo (piaceri che la natura ci aiuta facilmente a soddisfare), l’individuo può trovare un senso di appagamento che viene a corrispondere a un annientamento totale della sofferenza, che è il bene assoluto a cui si tende (un bene completo a cui nulla deve essere aggiunto).
L’ascesi dei desideri consiste nell’eliminare i desideri non naturali, limitare i naturali non necessari e accogliere pienamente solo i naturali e necessari. Affinché si determini questa ascesi occorre che l’anima non sia turbata da timori e paure superflui e per far questo viene in soccorso la fisica, che in Epicuro ha la principale funzione di eliminare il timore degli dei e della morte.
Epicuro si appoggia alla visione democritea per individuare un universo eterno costituito di atomi (corpi indivisibili e immutabili di numero infinito) e vuoto. Nell’infinito del tempo e del vuoto i mondi compaiono e scompaiono e gli dei non hanno parte nella produzione dell’universo.
L’anima, essendo composta di atomi, al momento della morte si disgrega con il corpo. Ecco perché per noi la morte non rappresenta nulla: “quando noi siamo, non c’è la morte, e quando c’è la morte, noi allora non siamo” (Epicuro, Lettera a Meneceo, 125).
E per quanto riguarda gli dei, si tratta di esseri indipendenti, beati, incorruttibili e in quanto tali senza impatto sul mondo, incarnazione della perfezione. Nulla si ha da temere da essi, anzi: debbono fungere da modello di saggezza per il filosofo e vanno perciò contemplati e venerati.
Si può esser certi della loro esistenza poiché di loro vi è una precognizione diffusa in tutto il genere umano. E la conoscenza dell’uomo si basa sul fatto che gli oggetti materiali emettono flussi di particelle, che a contatto coi sensi danno l’impressione di solidità corporea. In conseguenza di queste sensazioni nell’anima vengono a generarsi immagini, nozioni e forme.
Nella fisica epicurea gli atomi possono muoversi in caduta libera o deviare, generando così, nell’incontro con altri atomi, dei composti. Negli atomi quindi c’è un principio di spontaneità interna che consente loro di cambiare direzione. Questa possibilità si trova a fondamento della libertà del volere umana, che fa sì che l’uomo possa scegliere verso quali desideri o bisogni conformare la propria condotta (Hadot, 1998, pp. 115-119).
Ciò che caratterizza peculiarmente l’insegnamento di Epicuro è il fatto di aver creato una sorta di catechismo e di aver sistematizzato i dogmi della sua dottrina, sintetizzandoli in compendi e sentenze, diffusisi per vari secoli nell’antichità. Famoso è rimasto il “quadruplice rimedio” e sono tanti i richiami all’inconsistenza dei desideri superflui, ed anche al valore dell’amicizia, mezzo per la trasformazione di sé. Per Epicuro sono utili l’esame di coscienza, la confessione e il castigo se praticati all’interno di una comunità in cui regna la fiducia fraterna. Il fine è la guarigione delle anime (Hadot, 1998, p.119-123).
1.4. Gli stoici e la virtù
Al contrario degli epicurei, quella degli stoici fu una scuola molto meno compatta, anche se la mentalità, l’atteggiamento e il comportamento stoico ebbero larga diffusione fino all’avvento del Cristianesimo e si contarono molti seguaci.
Per lo stoico il male è morale, e così il bene. Per essere felici bisogna saper scegliere il bene, dettato dalla ragione e trascendente all’individuo.
In realtà l’unica cosa che ci può veramente rendere felici, l’unico modo che abbiamo di realizzarci, in un mondo dominato da necessità esterne, su cui non abbiamo alcun potere, è proprio la facoltà di scegliere il bene e di agire in modo conforme alla ragione, indipendentemente dal risultato parziale delle nostre azioni, che non dipende solo da noi. La forza dell’uomo sta nella coerenza col proprio ideale di bene: è la sua libertà di scegliere ciò che è bene.
Anche per gli stoici la fisica è funzionale a un fine etico: “la razionalità dell’azione umana si fonda sulla razionalità della Natura” (Hadot, 1998, p.125). La scienza stoica postula un universo razionale, che sta a fondamento del presupposto che il vivere conformemente alla ragione sia anche un vivere conformemente alla natura.
La scelta morale dell’uomo è determinata dalla possibilità dell’uomo, a livello individuale, di ribellarsi all’ordine universale (anche se il suo rifiuto non cambierà l’ordine del mondo). La ragione discorsiva dell’uomo opera la sua possibilità di scelta attribuendo un significato agli avvenimenti e conformandosi o meno al significato apposto. La possibilità di essere liberi si situa nel giudizio di valore dato agli avvenimenti. Un atteggiamento morale retto si avrà quando il discorso interiore corrisponderà alla rappresentazione oggettiva di un evento, senza che le passioni facciano vedere o pensare ciò che non è. Un atteggiamento morale non retto consisterà nel lasciarsi prendere dalle passioni e vedere in un evento o in una situazione qualcosa di positivo o negativo che non può essergli effettivamente attribuito, in quanto la situazione è indifferente ai fini di una attribuzione di moralità o intenzionalità. La libertà si situa insomma nella possibilità dell’errore di valutazione dovuto alla distorsione di percezione che i nostri discorsi sulle cose producono.
Nell’ambito della morale andrà considerato solo ciò che dipende da noi, ovvero la nostra intenzione morale, che altro non è che il significato che attribuiamo agli avvenimenti (Hadot, 1998, p.129). Se attribuiamo dei significati agli avvenimenti in base alle convenzioni sociali o alle passioni non stiamo perseguendo il bene, poiché vuol dire che abbiamo offuscato la visione naturale dell’evento, e abbiamo trovato delle differenze laddove non vi sono effettivamente. In realtà ciò che occorre è una accettazione preliminare del destino e della Ragione universale. A partire da questa, in base alla teoria dei doveri o delle azioni appropriate la nostra intenzione morale dovrà scegliere ciò che si accorda col bene, ovvero con la tendenza naturale. Indipendentemente dal risultato delle nostre azioni, l’aver scelto ciò che è in accordo con la natura conservativa degli esseri sarà ciò che veramente conta.
1.5. I movimenti filosofici in età ellenistica
Ad Atene tra il IV e il I secolo a.C. operarono due importanti correnti filosofiche, prive di organizzazione scolastica e di dogmi: lo scetticismo (pirronismo) e il cinismo. Questi due movimenti si presentavano come una scelta di un modo di vivere, secondo l’adesione a un certo principio razionale.
Per gli scettici era necessario attuare la sospensione del giudizio, che sola poteva portare alla tranquillità dell’anima.
Per i cinici era la stessa loro vita ad avere un senso. La frattura che operavano nei confronti del mondo era radicale. C’era un totale rifiuto delle regole del vivere sociale, delle convenzioni.
Il cinico viveva alla giornata, era quasi totalmente indipendente dalla società e si esprimeva con una libertà di parola radicale (parresia). Riteneva che lo stato di natura fosse superiore agli esiti della civilizzazione. Praticava un allenamento continuo alla fame, alla sete, al freddo e tramite ciò metteva all’opera un adattamento originale alle circostanze della vita e della natura.
La quasi perfetta autonomia dal vivere sociale gli conferiva la libertà, l’indipendenza e la forza interiore. La moralità della sua azione consisteva nella denuncia dei vizi del vivere sociale, dei condizionamenti della civiltà, della stessa idea di morale comune (e in ciò fa venire in mente Socrate, anche se costui utilizzava l’interrogazione e il ragionamento razionale per confutare le false opinioni altrui).
Il cinico protestava contro la società degli uomini in maniera molto materiale. Ne sono un esempio gli atteggiamenti e il comportamento del cinico Diogene, che metteva tutto e tutti sullo stesso piano e non aveva timori di natura sociale.
Tramite la sua fisicità il cinico cercava di aprire gli occhi agli altri uomini e esercitava una funzione di critica sociale: era il simbolo vivente di un’alternativa cultural-naturale, e veniva così a rientrare a pieno titolo nella stessa società che contestava.
Pirrone e gli scettici, per trovare la tranquillità dell’anima, si conformavano invece al vivere comune e praticavano l’indifferenza interiore verso le cose.
Non esprimevano giudizi sulle cose e trattavano persone, animali e cose senza distinguo di sorta, ricercando semplicemente il loro equilibrio personale.
Negli scettici trova attuazione la soppressione del discorso filosofico stesso, in quanto non si può essere sicuri di trovarsi nella verità, e quindi in fondo a nulla serve cercarla.
Per Enesidemo si doveva sospendere il giudizio in quanto non era possibile percepire le cose nel loro stato puro e quindi ogni credenza non poteva che essere fondata su un’illusione.
Per Agrippa non era possibile aderire ad alcun discorso dogmatico, a causa della relatività e non dimostrabilità delle conoscenze.
Gli scettici in genere conducevano un modo di vivere semplice e “non filosofico”, limitandosi all’osservazione e alla descrizione delle cose nella consapevolezza della parzialità del proprio punto di vista. Utilizzavano brevi formule che servivano loro ad esercitarsi alla sospensione del giudizio.

1.6. La filosofia nella cristianità
Secondo Hadot, mentre inizialmente il cristianesimo si presentava semplicemente come l’avvento del regno di Dio, ben presto assunse la connotazione di filosofia eterna, grazie all’ambiguità della parola Logos.
Gli scrittori cristiani apologisti hanno rideclinato il Logos greco (che poteva significare: “parola”, “discorso”, “ragione”) nei termini di Discorso vero e Ragione perfetta incarnati in Gesù Cristo. In questo modo i cristiani potevano dirsi filosofi in quanto vivevano in conformità al Logos divino, così come i filosofi greci vivevano in conformità alla Ragione.
Il discorso filosofico cristiano serviva per realizzare il modo di vita cristiano, ed era questo stile di vita stesso a determinare l’essere cristiani.
Le pratiche della filosofia greca vennero adottate dal cristianesimo. In particolare nel monachesimo si realizzarono la pratica eroica dei consigli evangelici, l’ascesi e la meditazione, ispirati ai modelli delle pratiche filosofiche profane.
Come pratica di esercizi spirituali si ritroveranno la concentrazione su se stessi, sul presente, sul pensiero della morte, l’esame di coscienza… tesi nel tentativo di sradicare dall’anima le passioni (Hadot, 1998, pp. 227-236).
Tutti gli esercizi spirituali vennero rideclinati in forma cristiana, attribuendo ai testi biblici la legittimazione delle pratiche in uso.
Soprattutto la filosofia platonica e aristotelica (entro le vesti del neoplatonismo) vennero assorbite a livello teorico nei trattati dei Padri della Chiesa.
Un divorzio tra modo di vita e discorso filosofico si consumò più tardi nel Medioevo, quando si venne a determinare una gerarchia di valori per la quale la filosofia (ridotta a discorso filosofico) divenne l’ancella della teologia.
Dal XIII secolo la filosofia si identificherà nell’aristotelismo, e darà luogo alla filosofia scolastica, che assumerà le sembianze di procedimento puramente teorico. Da lì nascerà l’attenzione per la pura speculazione teorica, che sortirà l’effetto di separare definitivamente il modo di vivere filosofico dalla pratica della filosofia.
1.7. Dai tempi moderni all’età contemporanea
Come sostiene Hadot: “la filosofia moderna è arrivata a considerare se stessa come una scienza teorica, perché la dimensione esistenziale della filosofia non aveva più senso nell’ottica di un cristianesimo che era al tempo stesso dottrina e vita” (Hadot, 1998, p.248).
È come se l’esito del processo di assorbimento della pratica filosofica all’interno del cristianesimo sia stato a lungo andare quello della separazione della pratica filosofica dal discorso filosofico: in questo modo la filosofia è però rimasta monca di una parte che le era indispensabile ai fini dell’acquisizione ed elaborazione del senso della filosofia stessa.
È stata proprio l’istituzione universitaria che ha reso più difficile nel tempo la missione originaria della filosofia di trasformazione e conversione della persona. L’università, proponendosi la formazione di funzionari e professionisti, ha snaturato la caratteristica di arte privata della filosofia, ed ha diffuso l’idea di una filosofia teorica e sistematica.
Naturalmente nell’arco della storia vi sono stati alcuni letterati e filosofi fedeli alla dimensione esistenziale della filosofia antica: si va da Dante a Petrarca, da Montaigne a Cartesio, da Kant a Rousseau...
In particolare per Kant la filosofia rappresenta lo sforzo dell’uomo verso la saggezza, è un esercizio della ragione guidato da un’idea di maestro. Kant identifica due rappresentazioni possibili della filosofia: quella scolare e la filosofia del mondo. La prima è speculativa, e la seconda “cosmica”, nella prospettiva di un io che si realizza nell’universale. Qui Kant fa riferimento alla saggezza e al primato della ragion pratica sulla ragione teorica: l’esercizio della filosofia si nutre dell’interesse pratico per il bene morale (Hadot, 1999, pp. 254-259). 9
2. Come gli esercizi spirituali si declinano in rapporto alla libertà interiore del filosofo
Nell’antichità i filosofi avevano più opportunità di quante sono date a noi oggi di praticare la filosofia come modo di vita. Gli antichi avevano più coraggio di quanto noi mostriamo di avere.
Nel mondo odierno infatti è molto difficile vivere in modo coerente ai propri ideali, visioni, a ciò che si insegna. Anche nell’antichità si era guardati sicuramente con sospetto - del resto Socrate, Protagora ed altri son stati condannati a morte da tribunali conformisti – ma ciò non impediva di andare avanti con determinazione.
La scelta interiore delle persona poteva condizionare nell’antichità l’intera esistenza, il modo di percepire il mondo intorno. Per l’uomo contemporaneo risulta più difficile invece mettere in pratica una condotta che imponga il sacrificio, l’autocontrollo, la riflessione, il ritrovamento di un’ideale nelle cose stesse che si fa, la libertà di scegliere.
Ma forse l’impressione che si ricava dalla narrazione delle vite dei filosofi antichi è falsata dal tempo intercorso da allora, dal fatto che i filosofi forse non erano poi così tanti e dall’idealizzazione di esperienze che ci vengono comunque sempre riportate da altri; e il fatto che non si vedano intorno a noi filosofi nel presente può essere condizionato dalla distanza che ci separa dagli altri, dal non cercare a sufficienza, dal non guardare nel modo giusto.
Sta di fatto che la separazione tra la speculazione filosofica e la pratica filosofica, a favore della prima, è stata la causa del proliferare di ideologie che alla prova dei fatti si son sempre rivelate controproducenti. Separare fatti e teoria non ha mai portato troppo lontano, e questo vale anche per la filosofia.
2.1. Uno sguardo all’antichità
Le opere filosofiche degli antichi si proponevano un intento psicagogico, tendevano a formare le anime ed erano tendenzialmente maieutiche. Proponevano un metodo di lavoro su sé e gli altri.
Possono essere considerate delle testimonianze della pratica filosofica e propongono degli esercizi dello spirito di cui si vede una sorta di esempio.
In molti casi le opere sono trattazioni ad uso e consumo di possibili aderenti alla scuola o discepoli esterni ad essa, ma possono essere anche semplici opere di propaganda o appunti di lezioni, o “eserciziari” ad uso personale o collettivo, con la finalità di far memorizzare i precetti di una scuola, il metodo in uso, i dogmi, le regole di vita, gli esercizi spirituali stessi.
Le opere dell’antichità sono condizionate dal genere letterario a cui appartengono e non possono mai essere scisse dalla pratica orale di cui sono specchio o rappresentazione.
Platone, per esempio, riporta dei dialoghi veri o fittizi, cercando di rimanere fedele alle regole del discorso, anche se l’interlocutore appare sempre un po’ imboccato e troppo consenziente alle conclusioni e ai ragionamenti che vengono via via esprimendosi e formandosi. Si può quasi percepire l’ingabbiamento di una pratica orale nello scritto.
Nel caso di Epicuro le opere hanno un intento di catechesi, di diffusione dei precetti elaborati, e l’epistolario può configurarsi come una vera e propria opera di propaganda.
Quel che è certo è che i testi giunti fino a noi sono stati soggetti a elaborazioni continue del senso e della forma, e sono stati parecchio incrostati da riletture e interpretazioni che andrebbero invece identificate e analizzate al fine di comprendere le distorsioni intervenute nella percezione dell’opera che hanno falsato il messaggio originario dei testi stessi.
È anche vero che i testi del resto sono riusciti a sopravvivere proprio perché riadattati alle esigenze del contesto che via via li ha portati fino a noi. Ed è proprio dalla rielaborazione linguistica e culturale di concetti ormai estranei e lontani da una certa cultura che nascono nuovi concetti e suggestioni e metafore e modi di essere.

Le culture si fanno e si disfano l’una sull’altra e conservano sempre al loro interno qualche filamento assimilabile a un pezzetto di codice genetico ridondante che può essere ritrovato e riutilizzato anche casualmente al mutare delle condizioni contestuali.
Le opere degli antichi possono così testimoniarci un modo alternativo di vivere e, tornate alla vita, possono riaprire l’universo della pratica filosofica alla coscienza dei filosofi speculativi della modernità. L’effetto può essere quello di una rinascita culturale ed esperienziale.
2.1.1. Come accettare la vita e il suo mistero
Gli esercizi spirituali in uso tra i filosofi dell’antichità portano a una trasformazione della visione del mondo e alla metamorfosi della personalità. L’esercizio si configura come un’arte del vivere: una conversione a un nuovo modo di vivere.
Da una vita inautentica si passa a una vita autentica. Si possono vedere le cose come sono, i fatti prendono il sopravvento sulle false opinioni. Le passioni vengono ridimensionate e curate, ridefinite, ricollocate nella giusta prospettiva.
Lo stoico troverà così che l’unico bene che valga la pena perseguire è il bene morale, indipendente dal successo o meno delle sue azioni, ma insito nella volontà di bene della sua azione. In questo modo avrà il coraggio di affrontare le avversità della vita.
Seneca racconta che Zenone accolse l’annuncio della perdita (per naufragio di una nave) di tutto quanto gli apparteneva dicendo: “La fortuna comanda che io faccia filosofia con meno impedimenti”. Per Zenone evidentemente non contava ciò che non dipendeva da lui, e riusciva a dominarsi restando indifferente a ciò che per lui non doveva fare differenza: si tratta qui di un collocamento delle cose nella giusta prospettiva. La sventura dovuta a cause esterne alla sua volontà di bene, all’azione retta conforme alla ragione, non doveva turbarlo, non aveva a che fare con la sua forza e integrità, che anzi si mostrava e rafforzava nel non attribuire importanza alla casualità di eventi indecifrabili per lui.
L’epicureo perseguirà invece la gioia di esistere tramite la disciplina dei desideri e dei timori. L’obiettivo è l’assenza di turbamento e per conseguirlo occorre la meditazione sui dogmi, così come si ha nel quadruplice rimedio che bisogna assimilare: “Gli dei non sono da temersi, la morte è senza rischio, il bene facile da acquistarsi, il male facile da sopportarsi”.
Col tetrafarmaco si riporta la vita alla sua semplicità. Lo studio della fisica ha lo scopo di liberare l’uomo dalle false convinzioni ed è in grado di fare luce sulle ombre dall’alto, fino a portarsele via.
L’epicureo cerca la distensione e la felicità tramite la contemplazione della natura e l’amicizia.
La sua scelta morale sta nel scegliere il bene dove è possibile.
L’epicureo si lascia invadere dalle cose positive, lasciando sulla soglia quelle negative: tra queste anche la morte, che non può mai impossessarsi veramente di lui perché “ogni bene e male è nel senso, e la morte è privazione di senso” (Epicuro, Lettera a Meneceo, 125). La morte non è nulla per l’uomo. Di per sé il non vivere da tanti temuto non può configurarsi neppure come un male. L’unico problema è per chi resta, che però avrà sempre il piacere del ricordo della nostra amicizia a tenergli compagnia, anche quando non saremo più.
Ricondurre le cose nella giusta dimensione aiuta ad accettare la vita e a trarne piacere. Le cose vanno commisurate e scelte in base al vantaggio e al danno che provocano e quindi si deve agire con prudenza, ricordandosi che le virtù sono “connaturate al piacere e il vivere nel piacere è da esse inseparabile” (Epicuro, Lettera a Meneceo, 133). Si tratta quindi di coltivare queste virtù per ritrovare il piacere.
Anche l’amicizia ha lo scopo di fondare le condizioni di una vita felice. Con i compagni di viaggio l’epicureo condividerà il suo essere al mondo, nell’aiuto reciproco nelle difficoltà, nella correzione fraterna, tramite la confessione delle proprie colpe e l’esame di coscienza condiviso (Hadot, 1988, p. 42). L’amicizia ha quindi una finalità utilitaristica: serve all’uomo per stare bene nello scoprirsi di uno stesso sentimento con un proprio simile.

2.1.2. La volontà di conoscenza
L’esercizio spirituale che per eccellenza fa riferimento alla volontà di conoscenza è il dialogo socratico.
Socrate se ne va in giro per la città e riproduce quotidianamente il meccanismo del dialogo per indurre ogni suo interlocutore a un ripensamento sullo stato delle sue conoscenze.
Spingendo ogni discorso verso la sua radice è il dialogo stesso che nel suo procedere si depura delle false opinioni e dei falsi ragionamenti. Ciò che rimane sul piatto è la nudità che sta alla base dei convincimenti umani. L’interlocutore di Socrate non può a questo punto che prendere atto della sua condizione di “non sapiente”.
Il dialogo socratico è un invito all’esame di coscienza, al conoscersi nel proprio stato morale autentico (Hadot, 1988, p. 45).
Il dialogo platonico si configura invece come esercizio-modello. È dialettico: esige in “ogni momento l’accordo esplicito dell’interlocutore” (Hadot, 1988, p. 47). Il cammino percorso dai due interlocutori li porterà a vedere la contraddizione della propria posizione o ad ammettere una conclusione non prevista: la conversione. Si tratta di un itinerario verso il bene. La dialettica è induttiva, procede di concetto in concetto fino al mondo delle “idee”.
In un certo senso si potrebbe però dire che Platone utilizza il dialogo socratico e lo forza per imporre il mondo delle idee assolute al proprio interlocutore. Rispetto ciò che faceva Socrate c’è un uso dello strumento dialogico più mirato e teso al convincimento, e si perde un po’ il sano percorso di crescita personale, tramite l’esplorazione delle proprie conoscenze, che era la caratteristica propria del dialogo socratico, un dialogo più maieutico, in cui si esprimeva meglio il senso della ricerca personale di consapevolezza e l’emergere dei limiti dell’umano.
Il fatto stesso che Socrate non abbia mai scritto alcuno dei suoi dialoghi, mentre questo è ciò che ha fatto Platone, ci può indurre a vedere nel primo un uso dello strumento del dialogo come vero esercizio spirituale contingente di presa di coscienza della realtà delle cose, delle conoscenze, di noi e delle nostre capacità, nell’altro un modello di esercizio più statico, meno flessibile rispetto le possibili conclusioni, alla ricerca di una verità assoluta esprimibile in positivo, un po’ corrotta dall’idea di persuadere.
È come se Socrate nei dialoghi interpretasse la parte di un altro sé della persona, una voce interiore dubitante, tesa a mettere in guardia dal pericolo di dare per scontate le tradizioni umane, che ci vengono consegnate come verità assolute quando invece sono solo delle contingenze storiche, stati di fatto con cui fare i conti, ma non necessariamente da perpetuarsi all’infinito.
Ad ogni modo, anche per Platone, ciò che conta è percorrere un cammino di formazione. Il metodo con cui si cerca il bene non è indipendente dalla verità che si cerca. Per arrivare a risolvere un problema occorre un percorso in comune degli interlocutori, che sono fisicamente e spiritualmente due, e da un tale confronto non si può prescindere. Le verità non possono essere semplicemente dichiarate, e non possono essere apprese senza che siano di volta in volta riscoperte, senza che si converga ad esse nel dettaglio del ragionamento condiviso.
2.1.3 L’eticità del vivere comune
Nell’antichità del mondo greco ed ellenistico si sente di più la partecipazione degli individui alla collettività. Anche se non bisogna dimenticare che parliamo di un universo maschile, di uomini liberi, a cui si contrapponevano le voci mute delle donne e degli schiavi non colti, che non fanno del mondo greco un mondo eticamente perfetto.
Le scuole filosofiche e i movimenti formatisi in età ellenistica, ciò che ci è stato proposto ed è stato
accolto nell’immaginario di quel mondo, ci permettono la visione di una società in cui gli uomini ancora riuscivano a combinare la propria vita individuale con le esigenze di costruzione di una società etica, aperta ai contributi morali degli uomini.

L’eticità non assumeva i connotati della scelta individuale in senso stretto, bensì era data dalla riproposizione e accoglimento di modelli di vita etica da parte di gruppi di individui formatisi in una pratica comune ed uno stile di vita e conoscenza condiviso.
Nel mondo contemporaneo l’aggregazione tra individui, escluse alcune forme di associazionismo eterodirette, non ha finalità di per sé etiche, e non si ritiene normalmente che l’eticità del vivere comune possa essere argomento su cui trovare un accordo ragionato tra le persone. Lo dimostra lo scarso interesse per la cultura civica in senso lato, accompagnata da forme di individualismo sfrenato ed opportunistico.
L’appartenenza a un territorio preciso, a una precisa storia collettiva sfumano nella percezione di essere cittadini del mondo e nell’omologazione a modelli di vita sulla cui origine non si riflette e di cui non ci si chiede abbastanza di quali valori siano espressione e a quale tipo di società veramente inducano e conducano.
Non vediamo che quello che ci fanno vedere e chi ci mostra una certa immagine del mondo non ha realmente consapevolezza di ciò che sta facendo. Gli interessi individuali contingenti hanno la meglio su una costruzione collettiva di interessi e tematiche condivisi.
I saperi vengono diffusi e l’accesso alla conoscenza è mirabilmente più veloce che in passato, ma questi saperi non hanno modo di essere metabolizzati e divenire occasione di scelte di vita consapevoli e ragionate. È come stare di fronte a un bellissimo quadro che mostra della frutta all’aspetto saporita e non poterne mangiare, assaporare, né odorare, perché in fondo quella frutta è solo un’immagine costruita, in un quadro appeso su di una parete, intoccabile, che può solo richiamare ciò che potrebbe essere ma in quel momento non è.
Il problema è che non veniamo abituati a sperimentare l’utilità personale delle conoscenze, ci vengono elargite su un piatto d’argento e non siamo minimamente consapevoli di ciò che quelle conoscenze significhino veramente, né da dove vengono, quale sia la loro storia: questo perché non le abbiamo mai fatte totalmente nostre, non le abbiamo cercate, né elaborate noi, non sappiamo realmente a cosa servano. Il vero paradosso è che nella “società della conoscenza” tutti proclamano l’importanza di conoscere e sapere, ma nessuno o quasi sa e conosce veramente niente.
Bisognerebbe ricominciare ogni volta tutto da capo: imparare a farsi domande, a scoprire lentamente e con metodicità le cose, con l’aiuto di altri che in carne ed ossa si preoccupino di noi, perché tengono veramente a noi, perché sanno che noi siamo loro e che non saranno veramente mai se stessi senza di noi.
Questo senso di appartenenza, nell’antichità, entro le comunità che praticavano la filosofia, era possibile.
Gli epicurei, per esempio, erano come un organismo vivente. Erano legati da pratiche comuni, pensieri condivisi, nell’esercizio di una vita spirituale in cui anche la conoscenza aveva la finalità di servire all’uomo e alla sua realizzazione (ed aveva senso solo e finché poteva fare la felicità dell’uomo).
Ma lo stesso si può dire della scuola platonica o aristotelica: erano comunità di uomini dove si esercitava una pratica filosofica condivisa, secondo modalità e percorsi che tendevano a migliorare la conoscenza del mondo, della realtà e degli uomini stessi.
Anche coloro che si muovevano entro le correnti filosofiche dello scetticismo o dello cinismo, gli uni accettando le insignificanti convenzioni sociali, gli altri rifiutandole, si mettevano in relazione col mondo degli altri uomini, e davano ai loro comportamenti un contenuto etico visibile, interagendo così nella società di cui erano parte, nel nome di una scelta di percorso che rendevano, così facendo, accessibile anche agli altri, qualora fossero interessati.
I filosofi dell’antichità mettevano insomma in atto una condotta etica, frutto di una scelta morale; agivano in base a dei presupposti che avevano individuato, anche con l’aiuto di altri, cercando di conformare il loro vivere quotidiano all’esigenza di una scelta di vita specifica. Si esercitavano giorno per giorno alla consapevolezza del loro essere al mondo, sentivano che la vera vita poteva essere vissuta solo se imparavano a guardare alle cose del mondo da un’altra prospettiva, e l’importanza della loro scelta aveva significato all’interno della società in cui vivevano.

2.2. Uno sguardo alla cristianità
In epoca cristiana l’esercizio spirituale ha avuto il compito di rinnovare la vita nello spirito. Nel cristianesimo antico lo stesso cristianesimo era vissuto come una filosofia ed accoglieva al suo interno gli esercizi spirituali antichi. La filosofia cristiana ha del resto sistematizzato gran parte della filosofia greca.
Per gli scrittori Apologisti si trattava di vivere una filosofia secondo Cristo. L’uomo doveva essere vigile e cosciente della sua posizione nel cosmo e rispetto a Dio.
Nel monachesimo uno degli scopi da perseguire era la tranquillità d’animo.
Per Basilio occorre che si destino nell’uomo i principi razionali del pensiero e dell’azione che Dio ha riposto nelle nostre anime.
Atanasio, nel raccontare la “Vita di Antonio”, invita alla vigilanza e alla concentrazione sul momento presente, che si dimostrano essere forme di accettazione della volontà divina e di esercizio continuo della presenza di Dio (Hadot, 1988, p. 75-77).
Nella vita monastica i comandamenti erano assunti come regola di vita evangelica e le parole degli antichi venivano condensate in brevi massime e sentenze da memorizzare e meditare. Si dovevano sottoporre poi all’esame dell’anima sentimenti ed azioni. L’esame di coscienza e l’introspezione dovevano servire a liberarsi delle passioni al fine di perseguire la perfezione spirituale.
Doroteo di Gaza invitava alla soppressione della propria volontà individuale per ottenere quel distacco che avrebbe portato alla perfezione spirituale.
Per Evagrio il regno dei cieli era l’impassibilità dell’anima, accompagnata dalla conoscenza degli esseri e di Dio ed il cristianesimo si componeva di tre parti: pratica, fisica e teologia, che corrispondevano ai tre livelli del progresso spirituale, che andavano da una prima purificazione, alla contemplazione dell’ordine delle cose, alla contemplazione del principio di tutte le cose (Hadot, 1988, pp. 78-83).
Per Massimo il Confessore, così come per Clemente di Alessandria era poi necessario l’esercizio della morte, che consentiva la gnosi, la conoscenza perfetta, data dalla separazione dell’anima dal corpo, al fine di una vita dedita interamente al bene.
L’anacoresi (la vita monastica) era vista come una fuga dell’anima dal corpo, ma era un’assunzione che faceva riferimento a un concetto platonico non essenziale al cristianesimo stesso.
Nella vita monastica l’umiltà, la penitenza, l’ubbidienza e il ricordo della morte, l’esame di coscienza rappresentavano in generale la volontà di rinuncia alla propria volontà e la scelta di adesione all’amore divino (Hadot, 1988, pp. 84-86)..
2.3. Una pratica di libertà che si rinnova
“La libertà di tutti è libertà di ognuno, e “ognuno” è il termine più universale, perché comprende ogni altra specificazione” (Màdera, 2003, p. 6). Sembra che nella contemporaneità l’unico modo per potersi trovare a esercitare una libertà di scelta reale passi attraverso la consapevolezza della propria esistenza e l’opera della propria vita.
Del resto il compito filosofico “deve partire dalla consapevolezza di essere in controtendenza rispetto allo spirito del tempo…chi vuole unire opera, con la sua stessa presenza, una divisione, si oppone a una tendenza collettiva” (Màdera, 2003, p.16).
Per Màdera è l’ecumenismo biografico - con funzione di raccordo, dialogo e comunicazione - che può costituire quel criterio di scelta capace di appoggiarsi alle esperienze e alla pluralità delle vie d’espressione. Da qui la proposta di una filosofia biografica, metodo di cura e riflessione del singolo, basata sul fatto che “niente è più universale dell’individualità, la cui storia è appunto biografia: l’individuo in quanto tale è infatti l’universale…” (Màdera, 2003, p. 40).
La pratica filosofica può prendersi cura della vita e del suo senso: è una maniera di vivere che può costituire un’alternativa alla norma premoderna del seguire un modello esemplare, che è difficilmente attuabile.
Ma si parla qui di una pratica biografica che ricomprenda l’altro nella sua diversità, la relazione duale, la possibilità di rielaborare una storia comune, la rivitalizzazione dell’autorealizzazione solidale, senza la costrizione di un itinerario prestabilito valido per tutti.
La differenza di metodo, rispetto alla pratica antica della filosofia, starebbe proprio nel raggiungere l’esemplarità tramite l’individuazione e non l’allineamento ad un modello precostituito. Inoltre sarebbe qui possibile la “coesistenza e cooperazione di componenti teoriche e pratiche di diversa origine, rese compatibili dal fatto di venire indirizzate alla valorizzazione delle differenze dei singoli” (Màdera, 2003, p. 76).
Si avrebbe qui insomma la valorizzazione di ogni via seguita: un sincretismo comunitario, non separabile da un eclettismo individuale, in cui ogni ortodossia viene spogliata del suo esclusivismo ed ognuno può esercitare la funzione di guida e maestro nei confronti di ogni altro.
Per quanto concerne il rapporto tra libertà e verità Màdera afferma che l’appartenenza di essere e non essere all’affermazione trascendentale mostra “la necessità della differenza come connaturata al discorso, e, in questo, la necessità del senso, cioè del rapporto fra le differenze, quindi del discorso veritativo” (Màdera, 2003, p. 101), anche se dinamico.
Negli infiniti percorsi possibili consisterebbe l’originaria libertà della cultura (rispecchiantesi nelle proprietà di ogni discorso). La libertà è una capacità di immaginare altrimenti, che caratterizza l’uomo. L’indagine sul bene e male è necessaria, ma il bene consiste soprattutto nel domandarsi qual è il bene. La vita filosofica rappresenta quindi il bene, perché è la ricerca del bene che è a fondamento del bene stesso.
Bisogna poi affermare in quest’ottica come la verità sia contestuale, in quanto prodotto stesso della libertà.
L’etica della sopravvivenza culturale consiste nella “possibilità di continuare a creare alternative”. La filosofia ha “nella sua vocazione il servizio alla libertà del singolo, ma la costituzione di un campo non contraddittorio è questione di scelta etica:…la possibilità della contraddizione è funzionale all’immaginazione culturale” (Màdera, 2003, p. 105). “ Il bene” per Màdera “è in prima istanza il mantenere aperte le possibilità alternative, cioè la perpetuazione stessa della vita, che è vita per natura culturale” (Màdera, 2003, p. 106).
Il bene è per natura un concetto dinamico, insaturabile ed estendibile. Può intendersi come la stessa eticità intrinseca della cultura: l’originarsi di visioni alternative. Il Bene è così il frutto della libertà. La verità originaria sarebbe all’interno di questo discorso una verità non all’origine di un processo, bensì una verità che continua ad avvenire nel tentativo di operare una conciliazione universale (Màdera, 2003, pp. 107-109).

3. Verso uno spiritualismo universale
3.1. A cosa serve la filosofia?
Secondo Vero Tarca gli uomini sono rimasti folgorati dalle scienze esatte ed hanno identificato nel tempo la saggezza (ciò che guida gli uomini verso il bene) col sapere dell’epistéme. Il sapere scientifico è stato detto oggettivo in quanto insieme universale e determinato. Il conoscere le leggi della natura è stato considerato essenziale alla piena autorealizzazione dell’esperienza umana.
Il sapere espistemico oltre che consentire previsioni, ha acquisito la caratteristica di poter vincolare tutti gli uomini in nome della sua universalità, venendo a costituire una giustificazione per il comportamento umano e un meccanismo di controllo: il vero e il buono hanno finito per coincidere.
Il valore della scienza è consistito per l’uomo nel rinnegare le componenti valoriali ed esistenziali, in nome della neutralità delle leggi.
Il tipo di sapiente così prodotto da questo paradigma ha finito per non coincidere più con l’idea del saggio tradizionale.
La filosofia, con il suo progetto di volgere al bene l’umanità e di emanciparla sotto la guida del sapere epistemico, ha promosso l’estensione totale dell’atteggiamento razionale a tutte le questioni. (Vero Tarca, 2003, pp. 111-133)
Come dice Vero Tarca: il fine della giustificazione razionale è consistito nel mostrare l’innegabilità della posizione che si intendeva giustificare, verificando che una determinata posizione non fosse affetta da negazione. Ma, con un passo ulteriore, si è dovuti arrivare a distinguere tra l’universale valido a priori e l’innegabile, configurando il puro universale. Si è passati “dall’ambito nel quale un significato si costituisce per opposizione rispetto a ogni altro significato… a quello nel quale il significato si differenzia positivamente rispetto a tutti gli altri significati” (Vero Tarca,. 2003, p. 148). E con questo passaggio è stato possibile un liberarsi dal negativo e dalla necessità.
È nel corso degli anni che è andato verificandosi, per Vero Tarca, uno spostamento da un versante teoretico della filosofia, atto a individuare gli elementi oggettivi della realtà, a un versante pratico-tecnologico, in cui il mutabile è stato reso conforme ai nostri schemi progettuali.
Ed è stata principalmente la filosofia contemporanea ad attaccare l’ideale di un sapere filosofico epistemico definitivo e totale basato su un principio innegabile, con la constatazione che ogni verità è relativa e può sempre risultare falsificabile e quindi revocabile.
È stato rilevato infatti come ogni verità oggettiva risulti di fatto costituita come tale solo in relazione a un sistema di riferimento che le fa da sfondo. Ma proprio questo sfondo non potrà mai essere conosciuto oggettivamente. È la stessa definizione di realtà oggettiva che esige una distinzione tra oggetto e sfondo (che può essere presupposto come sfondo di senso di carattere esistenziale e pratico con un’implicazione di tipo valoriale). Ma la totalità della realtà non può essere esibita come un oggetto e tutta insieme, in un colpo solo. Tutto dipenderebbe quindi dal contesto interpretativo. Ci troviamo di fronte alla negazione di tutti gli innegabili.
Simili congetture hanno portato la filosofia verso il risultato del nichilismo: l’esito del pensiero che assume che solo il negativo è innegabile.
Determinante è stata la dimostrazione matematica, da parte di Gödel e Tarski, che il sistema non può essere al contempo totale (universale) e coerente (non contraddittorio): è stata la fine di un progetto globale e del sogno di una filosofia “razionale-epistemica”, con le possibili conseguenze plausibili che, o si sceglie la prospettiva scientifica, in cui si opta per il principio di non contraddizione, ma si rinuncia all’idea di totalità, o si sceglie la strada della sapienza, in cui si rinuncia al principio di non contraddizione a favore di una totalità che si inoltra per sentieri non concettuali.
Sembra quindi che la filosofia per sopravvivere debba quindi riconfigurarsi prendendo atto della sua separazione dal sapere epistemico. Su questo esiste infatti un certo consenso tra i filosofi stessi.
La questione non è però per niente semplice, poiché la filosofia ha sempre ricoperto un ruolo di “controllo” morale sul regno della scienza e degli apparati organizzativi, che sembrerebbe con la separazione venire meno. E del resto non si può passare da un oggettivismo a un soggettivismo filosofico, che è discutibile in quanto non presuppone condivisione ed è per definizione limitante. (Vero Tarca, 2003, pp. 149-171).
Per Vero Tarca, il discorso filosofico deve distinguersi da ogni prospettiva negativa, cioè “da ogni prospettiva che assuma come originario e intrascendibile il principio di opposizione, quello per il quale determinare equivale a negare” (Vero Tarca, 2003, p. 172).
Bisogna fare in modo di ricomprendere qualsiasi possibile negazione nel discorso, venendo a concepire il positivo “come qualcosa di diverso (anche) dalla negazione del negativo” (Vero Tarca, 2002, p. 173). Si tratta di riscoprire un dire che afferma filosoficamente. La negazione all’interno di un contesto deve essere liberata dalla sua carica negativa.
Per Vero Tarca bisogna assumere per buona questa formula: “Tutti i discorsi sono assolutamente veri” (Vero Tarca, 2003, p. 175). Si propone qui un passaggio alla pura differenza. Il contenuto del sapere filosofico deve risultare: mutevole (ma compatibile con la stabilità delle identità), molteplice (e non esclusivo), finito (ma in relazione alla totalità universale), personale (ma non contrapposto alle altre esperienze personali) e morale (senza contrapporsi alla realtà oggettiva). Il sapere della filosofia deve essere aperto, esistenziale, integrale, obiettivo (Vero Tarca, 2003, pp. 178-180).
Occorre, per Vero Tarca, anche una presa di distanza della filosofia da se stessa, e questo è possibile tramite l’ironia filosofica: si tratta di acquisire uno spirito di leggerezza rispetto la propria stessa verità, di prendere le distanze senza per questo negare.
3.2. Un modo per essere umanità
Il sé di cui parla la filosofia è un io vero e integrale, ricco di concreta individualità. Il dire del filosofo è un dire autentico, in prima persona.
L’autobiografia viene a far parte del discorso filosofico in quanto autointerpretazione esistenziale di sé (Vero Tarca, 2003, pp188-189).
L’io della filosofia deve presentarsi come un puro sé, inglobante tutti gli aspetti della nostra esistenza, con un atteggiamento terzo rispetto al negativo e al non negativo, in modo tale che la piena autorealizzazione dell’io abbia modo di realizzarsi tramite un completo distacco dall’io.
L’atteggiamento che si deve produrre non è quello dell’indifferenza, bensì al contrario della passione per l’esistenza di tutte le cose, tramite la distanziazione del soggetto dalle sue costruzioni mentali in vista di una reale consapevolezza (epoché).
La prima persona da costituirsi deve essere aperta e plurale.
La collocazione della propria esperienza deve essere all’interno di una storia collettiva, deve costituire una mitobiografia, dove “la storia di ciascuno è la storia di tutti gli altri, e nello stesso tempo la storia universale è la storia di ognuno” (Vero Tarca, 2003, p.195).
“L’individuo” in quest’ottica “costituisce davvero il centro del sapere filosofico nella misura in cui si pone come spazio capace di riconoscere a ogni altro esistente quella ce