Negli studi degli analisti le depressioni non stanno più aumentando, per la prima volta da anni. Lo stesso, sembra, per le forme di panico, le crisi gravi d’ansia. Se si eccettua il girone infernale dell’adolescenza, che ha i suoi specifici guai, dalla droga alla scuola esigente ma inefficiente, ai traumi post-separazione, sembrerebbe quasi che la gente stia un po’ meglio. Come mai? Si direbbe che anche questo è uno dei tanti effetti della crisi sulla psiche individuale e collettiva.
Le paure reali, infatti, cacciano quelle immaginarie. Il posto di lavoro incerto, il benessere in discussione, i risparmi decimati, tolgono vigore alla sindrome dell’automobilista terrorizzato, quello che non riesce più a far partire la macchina perché teme lo scontro, e svuotano la noia da week end, quando non si sa cosa fare.

Di fronte al coraggio col quale pazienti fino a poco fa sfiniti reagiscono a situazioni davvero problematiche, il terapeuta è preso da un dubbio. E se l’essere umano avesse proprio bisogno di lottare? Se a logorarlo non fosse la fatica, quello che ci siamo abituati a definire stress (e che vediamo ormai dappertutto), ma proprio l’immaginaria sicurezza nella quale abitualmente ci culliamo, garantiti da una visione della vita tranquilla e ripetitiva, che in fondo ci annoia? Se si seguono queste domande poco usuali, si possono scoprire diverse cose. Per esempio: quello stesso automobilista terrorizzato viene colto dall’ansia, in genere, quando deve avviare la macchina per spostarsi dal solito parcheggio ad una meta altrettanto abituale e prestabilita. Oppure: il depresso cronico non lo era affatto fino a quando la mamma non gli proibì improvvisamente le uscite con gli scout, fonte frequente di raffreddori e sbucciature. Tutte nate da prove e sfide reali, che mettendo sotto sforzo il ragazzo, allontanavano qualsiasi fantasia depressiva.
Seguendo queste osservazioni, si intravedono possibili risposte ad altri interrogativi. Come mai i ragazzi albanesi che attraversavano il canale d’Otranto su impensabili carrette non erano mai depressi, e i nostri figli con motorino garantito a quindici, e spesso l’automobile a venti, invece sì? Incrociando casistiche personalmente raccolte, dati sociologici, osservazioni empiriche, si notano verità seminascoste. Non è la maggiore agiatezza in sé che toglie vigore e vitalità psicologica, quanto l’abitudine a contarci come un dato acquisito, e non qualcosa da riconquistare continuamente.
Fino a pochi decenni fa, nell’educazione borghese, si insisteva molto sul fatto che non era il patrimonio accumulato dai padri a decidere dello status dei figli, quanto la loro personale capacità di guadagno e affermazione. Le ricchezze più recenti hanno meno insistito su questo punto. I padri, orgogliosi dei risultati raggiunti, li hanno spesso presentati ai figli come parti ormai acquisite della loro identità.
Le sentenze della magistratura che obbligavano i genitori al mantenimento dei figli, indipendentemente dall’età e impegno, hanno fatto il resto. In questo modo si sono spalancate le porte alle depressioni, e all’ansia. Perché se è tutto già stabilito e assicurato, non ha più alcun interesse: la depressione è alle porte. Oppure, l’inconscio percepisce comunque la precarietà di questo quadretto tranquillizzante, anche se viene taciuta: e allora si sviluppa il panico.
Le energie di cui la psiche umana dispone per fronteggiare le difficoltà, se non utilizzate, si ritorcono contro di noi, e diventano malattie. Che diminuiscono, a volte scompaiono, nei momenti davvero duri. Scomodi, ma terapeuticamente fecondi.