Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Una pagina al giorno: «Pre Celest» di Antonio Bellina

Una pagina al giorno: «Pre Celest» di Antonio Bellina

di Francesco Lamendola - 26/03/2009


 

Sono ben poche - crediamo - le persone, fuori del Friuli, che hanno mai sentito il nome di Antonio Bellina.
Viceversa, in Friuli, sono ben poche quelle che non lo hanno mai sentito nominare; anzi, che non hanno mai sentito fare il nome di pre Toni Beline, dove «pre» sta per l'italiano «don» in senso ecclesiastico, e indica un sacerdote, generalmente il parroco di un paese.
Con i suoi quarantasette libri pubblicati, tutti rigorosamente in lingua friulana - dalle riflessioni sulla pastorale e sulla friulanità, alla traduzione delle favole di Esopo e di Fedro, alle avventure di Pinocchio,  passando per un numero imprecisato di saggi, di racconti, di poesie, e, infine, per la gigantesca fatica (insieme, almeno all'inizio, a un altro sacerdote, Francesco Placereani) di tradurre integralmente la Bibbia in lingua friulana - egli è stato uno straordinario animatore della cultura friulana, al punto che devono essere ben poche le case di quella regione in cui non vi sia almeno uno dei suoi libri.
Diciamo subito, d'altra parte, che pre Toni Beline era - come lo sono quasi tutti i figli di quella terra - un uomo schivo, non amante della pubblicità.
Scriveva sul giornale diocesano «La Vita Cattolica», sul mensile dell'Associazione Friulana Donatori del Sangue, «Il Dono», e su una rivista di cultura friulana, «La Patrie dal Friûl»; ma non andava mai in televisione, o quasi mai (fa eccezione una lunga intervista per una stazione carnica, svolta in forma di conversazione, registrata all'aria aperta sullo sfondo della verdeggiante campagna estiva);. E non teneva conferenze: le sue conferenze erano, in un certo senso, le prediche che da anni e anni faceva nella chiesa del paese di cui era stato nominato cappellano e poi parroco: Basagliapenta di Basiliano, alle porte di Udine (per chi viene da Venezia; in friulano, Visepente), seguitissime dalla comunità dei fedeli.
Eppure, la sua modestia e la sua ritrosia non bastano a spiegare la vistosa distrazione della cultura «ufficiale» nei suoi confronti, particolarmente fuori dal Friuli. Il fatto è che Antoni Beline era un prete scomodo (come lo era stato don Placereani); un prete molto vicino alla gente, ma poco propenso a strusciarsi lungo le scale e i corridoi del palazzo; e che, in alcuni suoi libri - particolarmente in «La fabriche dai predis», del 1999, che fu censurato dall'autorità religiosa e fatto scomparire dalle librerie - non aveva esitato a criticare un certo conformismo diffuso negli ambienti della curia vescovile.
Di preti scomodi, in effetti, il Friuli - terra di profondo radicamento religioso - ne ha prodotto più d'uno; basti ricordare David Maria Turoldo, poeta e coautore del bellissimo film «Gli ultimi», insieme al regista Vito Pandolfi, e del quale ci siamo già occupati nella serie «Un film al giorno»; oppure, su un versante completamente diverso (anche in senso ideologico e politico), quello scomodissimo sacerdote che è stato don Luigi Cozzi, parroco di Solimbergo (Pordenone), del quale ci proponiamo di dire qualcosa, una volta o l'altra.
Preti di sinistra, preti di destra: ma sempre preti animati da una profonda vocazione, da un amore bruciante per la Chiesa e per la loro terra natale, da un senso di fedeltà indefettibile verso la propria missione e verso la propria gente. Abbiamo già sfiorato l'argomento in un precedente saggio, «Il decollo dell'economia friulana: un compromesso riuscito fra tradizione e modernizzazione?» (consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
La terra friulana, storicamente, è sempre stata caratterizzata da uno stretto legame fra popolo e Chiesa, fin dai tempi del Patriarcato di Aquileia (il più esteso Stato italiano settentrionale dell'epoca pre-comunale). Con Dio si può anche litigare, bestemmiando a tutto spiano (noi stessi abbiamo visto dei bambini piccolissimi, ancora in carrozzella, cui era stato insegnato dal nonno a bestemmiare sonoramente); ma nessun Friulano è capace di ignorarlo. Anche quando ci litiga, diceva Turoldo, lo riconosce: e la bestemmia, così diffusa da non farci quasi più caso, è anch'essa, in fondo, una preghiera rovesciata.
Fra tutti i libri di Antonio Bellina, abbiamo scelto di proporre al pubblico questo breve racconto intitolato «Pre Celest» («Don Celeste»), che fa parte del volume «Fantasticant» (ossia Fantasticando», Udine, Ribis Editore, 1990, pp. 22-24), per la sua schietta freschezza e per quel candore così disarmante, quasi naïf, che lo rende simile a una fiaba d'altri tempi; ma che, per il contenuto morale, lo avvicina a un apologo francescano (pur con qualche tollerabilissima sfumatura di zolfo).
E ci piace pensare che, scrivendo questa pagina, il Nostro abbia provato un certo qual gusto nel descrivere le disavventure di quel vescovo potente e prepotente; immedesimandosi invece, lui semplice prete del popolo, nella simpatica figura di pre Celeste, un sacerdote che amava Dio di tutto cuore, ma che, a sua volta, era poco amato dalla Curia episcopale, e velenosamente invidiato da tanti suoi colleghi.
Poiché tradurre una pagina di questo autore vorrebbe dire ammazzarla (Antonio Bellina è considerato, giustamente, uno dei maggior scrittori moderni in lingua friulana), abbiamo ritenuto indispensabile riprodurla così com'è, con tutte le saporose sfumature dell'originale (e non si dica del dialetto, perché il friulano non è un dialetto, ma una lingua: non è una versione locale dell'italiano, come il veneto, ma un idioma a sé stante, derivato direttamente dal latino, come lo è il romancio della Svizzera).
Il lettore non friulano, tuttavia, non si scoraggi: non è affatto una lingua incomprensibile; con un po' di pazienza e di buona volontà, e - magari, con l'aiuto di un vocabolario friulano-italiano (come l'ottimo Pirona), lo scoglio è superato più facilmente di quel che non si pensi, e - crediamo - con notevole soddisfazione di chi può accostarsi direttamente all'originale di un testo come questo, peraltro «facile» e discorsivo.
Ad ogni modo, per fornire un aiuto a chi non se la senta di provare da solo, diamo una traduzione della parte iniziale del racconto, o, per dir meglio, della novella; con il suggerimento di provare, comunque, a leggere prima il testo originale, per entrare nello spirito della lingua friulana.
Se non ci cerca di penetrare lo spirito di una lingua, non si riesce neppure ad entrare nell'anima di quel determinato popolo.

PRE CELEST

«Pre celest al à vivût chenti prin dal nestri ricuart e nol è segnât tai libris parceche lu vevin mandât provisori.Al ere un sant predi, bon come il bon pan, ma nol veve nè teologhie né siense, ch'al veve stentât che mai a imparâ ancje chel sbit di latin del Messe, e par chel nol veve fate ferade.
La curie lu mandave mo ca mo là a stropâ bûsis e lui, chel no veve supierbiis di sorte, al veve passât duc' i borcs e i paîs dal cjanâl cence mai lamentâsi di nuje.Cu la int, po, al veve une bontât e un trat ch'al rivave a tirâ dongje ancje i plui resiastics.»

[Traduzione: «Don Celeste è vissuto assai prima di quanto può spingersi il nostro ricordo, e il suo nome non compare sui registri parrocchiali, perché lo avevano mandato a titolo provvisorio. Era un santo prete, buono come può esserlo il buon pane; ma non possedeva né teologia, né scienza: al punto che aveva faticato come non mai ad imparare perfino quel poco di latino per dire la Messa, e per questo non aveva fatto strada.
La curia lo mandava ora di qua, ora di là, a tappare buchi; e lui, che non era per nulla superbo, era passato per tutti i borghi e i paesi della vallata, senza lamentarsi di niente. Con la gente, poi, possedeva una bontà e un modo di fare tali, che arrivava ad attirare la simpatia anche dei più refrattari.»]

«Tun mâl, tune disgracje, tune conseguense, tun cavîl, lui si prontave tanche il Signôr e al semeave dome pâs e confuart e buine armonie. Par chel la int lu puartave in ecelsis; e simpri par chel, i predis, rassate invidiose, no podevin concepîlu. E stant ch'al bateve lis cjasis e ch'al ere libar cun duc', onps e feminis, j meterin fûr une brute cjàcare sul onôr, fasint in mût che j rivas drete al vescul.»

[Segue traduzione: «Per un male, per una disgrazia, per una conseguenza, per un cavillo, lui si prodigava come avrebbe fatto il Signore, e seminava solo pace e conforto e buona armonia. Per cui la gente lo teneva in altissima considerazione; e, sempre per lo stesso motivo, i preti, brutta razza invidiosa, non potevano sopportarlo. E, dal momento che egli visitava le case e si comportava familiarmente con tutti, uomini e donne, essi sparsero una brutta diceria sul suo onore, facendo in modo  che arrivasse dritta fino al vescovo.»]

«Si sa de storie e de' speriense che i vescui s'impensin dai predis dome cuanche a sintin  cjàcaris e che, tun scandul, a crodin simpri a di chel ch'al semene la sinsànie. E cussì pre Celest si cjatà di cumò a dibot segnât sul libri neri e condanât, cence nancje la pussibilitât di sclarî la s inocense.
Il danp nol ere dome tal cûr, ma ancje tal stomi. Parceche, tornant un pont indaûr, pre Celest non vevin mai volût fâlu plevan par vie che ur semeave masse a la buine par frontâ la cjame di un paîs e al veve dome ch'êi de messe, e messis di puars che ben s'intint. Cuanche j gjavarin ancje chêi cuatri, al plonbà tal aviliment plui font e al clamà la muart.»

[Segue traduzione: «Si sa, tanto dalla storia che dall'esperienza, che i vescovi si preoccupano dei preti solo quando sentono delle chiacchiere e che, in uno scandalo, prestano sempre fede a colui che ha seminato la zizzania. E così Don Celeste si trovò, da un momento all'altro, segnato sul libro nero e condannato, senza neanche la possibilità di dimostrare la sua innocenza.
Il danno, però, non era solo nel cuore, ma anche nello stomaco. Infatti, tornando un poco indietro, Don Celeste non avevano mai voluto farlo parroco, perché sembrava troppo alla buona per affrontare il carico di un paese; e poteva contare solo sulle entrate relative alle messe, e messe di poveri, beninteso. Allorché gli tolsero anche quei quattro soldi, egli piombò nella più profonda desolazione, e giunse ad invocare la morte.»]

Ma il Signôr nol bandone mai il just tes grifis dal trist, e j mandà une ispirazion tremende.
Tun armarat dut carulât dal cjamarìn, pre Celest al veve une tassute di libris inproibîz, che j ai veve lassâz puar so barbe predi e j veve racomandât di no doprâju mai, dome tune streme. Jenfri di chesc'  libris, and'ere un, par latin, cun miegis peraulis roseadis des tarmis, ch'al ere il plui periculôs. E pre Celest, cu la fede de disperazion, al spietà il moment ch'al ere dibessôl in cjase e, cun doi ceris e un Crist, si sierà cul clostri e al tirà fûr chest libri. J clopavin i genôi come ch'al ves vude la fiere batècule, ma si fasè il cûr fuart e al lejè dôs pagjnis di file cence dibot nancje tirâ flât. Podopo si sentà te cort, solevât.
La gnove che il vescul al ere cjamât di pedôi e che nol podeve lassâ il palač, e fasè il gîr tun batûtdi voli»

[Segue traduzione: «Ma il Signore non abbandona mai il giusto nelle grinfie del malvagio, e gli mandò una terribile ispirazione.
In un vecchio armadio tutto tarlato della sua stanza, Don Celeste aveva una raccolta di libri  proibiti, che gli erano stati lasciati da un suo zio prete, il quale gli aveva raccomandato di non adoperarli mai, tranne che in situazioni estreme. In mezzo a questi libri ce n'era uno, scritto in latino, con metà delle parole rosicchiate dalle tarme, che era il più pericoloso. E Don Celeste, con la forza della disperazione, attese il momento in cui sarebbe stato solo in casa; poi, con due ceri e un Crocifisso, si chiuse con il catenaccio e tirò fuori proprio quel libro. Gli tremavano le ginocchia come se avesse avuto la febbre da burla, tuttavia si fece coraggio, e lesse due pagine di fila, senza nemmeno tirare il fiato. Da ultimo si sedette in cortile, sollevato.
La notizia che il vescovo era infestato dai pidocchi e che non poteva lasciare il palazzo, fece il giro in un batter d'occhio.»
A partire da questo punto ci fermiamo, e lasciamo che il volonteroso lettore si sforzi di proseguire da solo nella traduzione del testo. Può darsi che, se non possiede un vocabolario, gli sfugga il significato di una o due parole; ma il senso complessivo della storia non potrà sfuggirgli, a patto che legga lentamente e rifletta bene su ogni frase.]

«La massàrie j fasè boli tune munture, ancje ché sot, ma dibant. I cjalunis a provarin cun tune messe a part, in dômo, e nuje. Lis muiniis, spirtadis de digracie che j ere capitade al vescul, j puartarin pečoz e pečotuz di pojâlu su la part sničade, ma nuje nancje chel. I frâris a tirarin fûr un vues di un lôr sant, muart cjamât di pedôi e di glandons e di cragne, e lu platarin sot dal cjavečâl ch'al durmive il vescul ma la gracie no rivà. Par dutis lis glesiis oremus e letaniis "per il pronto ristabilimento dell'Angelo della Diocesi", ma nond'ere rimiedis. Il vescul si ere ridusût dut une gruse a sun di gratâsi e al veve il vîf. Al faseve ancje pene, cun dut ch'al ere trist.»
Viodint che no žovavin né prejeris né lissivis, al scugnì rindisi e ricognossi ch'al ere un spieli e un cjastic pal mâl che j veve fat a pre Celest lant daûr des cjàcaris a pote vie.
Lu mandà a cjoli biroč plui fin ch'al veve e j domandà perdon de sô inicuitât. Alore pre Celest, che nol ere mai stât stilôs cun nissun, al tirà fûr il libri e j giavà il striament. Il vescul, par palesâj il so agrât, lu distinà plevan tun paîs grant, cun samence di siet vacjs, e i predis a vevin ancjmò plui invidie, ma no levin dal vescul parceche a savevin ch'al ere scjarterût e ch'al veve une pore santissimade des maludizions di pre Celest.»

Concludiamo con pochi, scarni cenni biografici.
Antonio Bellina nasce a Venzone (ma da madre carnica) l'11 febbraio del 1941, e muore a Basagliapenta di Basiliano il 23 aprile del 2007.
Ordinato sacerdote nel 1965, svolge la sua missione in diversi paesi prima di arrivare a Villaorba e poi a Basagliapenta, di cui diviene parroco e dove è stata scoperta, nel 2008, una targa alla sua memoria.
La sua produzione letteraria, come abbiamo detto, è sterminata: sono quasi cinquanta libri, più un numero imprecisato di articoli, apparsi nelle riviste sopra ricordate. Di tutti questi libri, uno solo è stato - finora - tradotto in italiano: «La fatica di credere», del 2007.
Antonio Bellina era una persona schietta e profondamente religiosa, che ha lasciato un ricordo assai vivo in quanti l'hanno conosciuta (e non erano in pochi a recarsi appositamente a Basagliapenta, la domenica, per poter ascoltare le sue prediche, durante la messa festiva).
Il ritratto dell'uomo emerge con forza da questa sua caratteristica affermazione: «Il vero pastore di un paese non è il parroco, ma il Signore. Se manca il parroco, non cade il mondo. Se manca il Signore, il mondo non si regge».