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L'Italia mancata del buon Barbarossa

di Alessandro Barbero - 02/04/2009

La battaglia di Legnano ritardò lo Stato nazionale. Le più ricche città della Lombardia erano abituate ad autogovernarsi e non accettavano di sottostare all' autorità del monarca tedesco

Quando il re di Germania Federico Barbarossa si affacciò per la prima volta al Brennero, nell' autunno 1154, era un giovane di forse trent' anni, ben diverso dal vecchio arcigno e barbuto dell' iconografia risorgimentale. Come tutti i suoi predecessori, veniva a Monza per cingere la corona ferrea di re d' Italia; poi avrebbe affrontato il lungo viaggio fino a Roma, sfidando la calura estiva e i miasmi della malaria, per incontrare il Papa e farsi incoronare imperatore, legittimo successore di Augusto e di Costantino. Che un unico sovrano dovesse governare i regni di Germania e d' Italia era una bizzarria costituzionale sopravvissuta allo sfacelo dell' impero dopo la morte di Carlo Magno; e che il compito non fosse facile era risaputo da sempre. I predecessori del Barbarossa esercitavano sulla Penisola un' autorità poco più che nominale: si accontentavano di trovare le strade sgombre e i mercati ben forniti di vettovaglie, ogni volta che scendevano in Italia, e in cambio accettavano che ogni città provvedesse da sola a difendersi, a riscuotere le imposte e ad amministrare la giustizia. Anche volendo, non avrebbero avuto né la forza politica né il denaro e gli uomini e nemmeno la preparazione culturale per pretendere qualcosa di più. Ma il giovane re apparteneva a una generazione nuova, che non si accontentava più di lasciare che le cose andassero com' erano sempre andate. Era consapevole che il mondo stava cambiando, e voleva cavalcare quel cambiamento. In tutta la Cristianità fin dai tempi della lotta per le investiture si era cominciato a interrogarsi sulla natura del potere e sull' esistenza di una res publica superiore agli interessi individuali. A Bologna era sempre più numerosa la comunità degli studenti (ma nel linguaggio di allora si diceva «l' Università») accorsi da tutta Europa per studiare con i famosi maestri del diritto romano: e nel Corpus iuris civilis quegli studenti imparavano che una sola è la fonte del potere e il garante del benessere pubblico, l' imperatore. Aggiungiamo che da tempo l' economia era in crescita, le zecche faticavano a battere tutta la moneta necessaria per soddisfare le esigenze dei mercanti, gli introiti dei pedaggi e delle gabelle salivano alle stelle, e di conseguenza il denaro affluiva in sempre maggior quantità nei forzieri del monarca, permettendo di accarezzare progetti sempre più ambiziosi. Il Barbarossa pensò che fosse venuta l' ora di far sentire di nuovo ai sudditi la sua autorità, imponendo la giustizia del re al posto delle giustizie private e la pace del re là dove regnava l' anarchia. Anche i suoi colleghi, i re degli altri paesi cristiani, pensavano la stessa cosa e intorno a loro cominciavano a funzionare embrionali apparati di governo: il primo nucleo di quello che un giorno diventerà lo Stato moderno. Diversamente da un re di Francia o un re d' Inghilterra, il Barbarossa regnava però su due Paesi diversi e a mala pena comunicanti. Eletto dai duchi e dai vescovi tedeschi, aveva già abbastanza da fare per garantirsi la fedeltà della Germania, a rischio d' essere sbalzato dal trono se avesse commesso un passo falso. Tuttavia s' illuse che le forze gli sarebbero bastate per imporsi anche nel secondo dei suoi regni: senza spaventarsi per il fatto che in Italia, o almeno nella sua regione economicamente più avanzata, la sfida all' autorità del monarca non era incarnata da principi e prelati, ma dai comuni. La Lombardia, termine con cui si designava allora tutta la pianura solcata dal Po, era una terra di città; ovunque, lungo le strade romane e i corsi d' acqua, il viaggiatore vedeva sorgere in lontananza le torri e i campanili dei centri urbani, qualcuno ancora rinserrato nella cerchia delle antiche mura romane, altri ferventi di attività edilizia nei sobborghi fuori porta. E queste città non erano a molte giornate di marcia l' una dall' altra, e separate da paludi e foreste impenetrabili, come avveniva in Germania, ma a poche ore appena di strada selciata, così come i Romani le avevano edificate via via che colonizzavano l' Italia. Quando Federico s' affacciò al Brennero, le città lombarde erano così ricche e così sicure di sé che s' erano abituate a governarsi come potenze autonome, facendosi la guerra a vicenda, mentre la debolezza degli imperatori ne aveva autorizzata qualcuna addirittura a battere moneta. I lombardi erano fieri della loro libertà: come scrisse lo zio del Barbarossa, il vescovo Ottone di Frisinga, si sentivano gli eredi degli antichi romani, e per questo chiamavano consoli i loro magistrati. Ma con tutta la loro fierezza, proseguiva Ottone, finivano per sprofondare nella barbarie, perché non riconoscevano più l' autorità dell' imperatore e della legge. Qualcuno di loro, a dire il vero, aveva già cominciato ad accorgersi delle conseguenze catastrofiche di quella troppa libertà: erano gli abitanti delle piccole città, come Como, che rischiavano d' essere divorate dalle grandi, come Milano. Molti lombardi, in cuor loro, non erano poi così turbati all' idea che l' imperatore tornasse a imporre un po' di ordine centralizzato nella pianura padana. Ma non i milanesi: loro sentivano di avere da guadagnare più di tutti dall' assenza di limiti e di leggi. Con la propaganda, con il denaro, con la forza convinsero molte altre città, alcune entusiaste ed altre riluttanti, a unirsi con loro in una Lega per tener testa all' imperatore e far fallire il suo progetto accentratore. L' esito dello scontro fu deciso a Legnano il 29 maggio 1176: resta da chiedersi se sia stato un bene o un male per l' Italia che la costruzione di uno Stato nazionale avviata, in altri Paesi, dai colleghi del Barbarossa abbia dovuto attendere per realizzarsi fino al XIX secolo, fino, cioè, a quel Risorgimento che ironicamente avrebbe additato nell' imperatore tedesco il peggiore dei tiranni.