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La crisi dell’individualismo occidentale e l’immagine dello spirito del tempo

di Costanzo Preve - Luigi Tedeschi - 13/05/2009


 


Intervista con il Prof. Costanzo Preve a cura di Luigi Tedeschi

1. L’Occidente si dibatte in una crisi in cui, nonostante le periodiche fluttuazioni al ribasso dei mercati finanziari e  i dati negativi sempre più allarmanti dell’economia reale in tema di produzione e occupazione, continua a confidare nella sussistenza e nella ripresa del sistema economico liberista, sia nelle sue più diversificate interpretazioni. Anche se ovunque si è reso necessario l’intervento degli stati nell’economia, allo scopo di scongiurare fallimenti di banche e grandi imprese, agli stati è attribuito il solo ruolo di debitore in ultima istanza, senza che essi possano efficacemente assumere le funzioni di controllo ed intervento, di programmazione economica e di redistribuzione sociale della ricchezza. proprio perché lo stato vive relegato alla funzione di mero supporto all’economia di mercato, le strategie anticrisi si rivelano inefficaci. Si vuole in sostanza utilizzare la mano pubblica al fine di ripristinare quell’ordine economico basato sul libero mercato globale, responsabile della crisi mondiale, in quanto creatore di liquidità illimitata virtuale, debito ed insolvenza generalizzata, economia produttiva subordinata agli squilibri dei mercati finanziari. la contraddizione della crisi dell’economia liberista, consiste dunque nel riproporre in tal modo la restaurazione impossibile di un sistema senza regole né limiti, che non tollera controlli esterni, ma che, proprio perché sprovvisto di meccanismi di equilibrio interni, deve essere supportato dagli stati, la cui azione in economia viene percepita dagli investitori con diffidenza e sfiducia, quale indebita interferenza. il modello liberista globale si dibatte in una crisi insanabile, perché fondato sul debito, sulla precarietà e su consumi illimitati, quando, invece, un’economia in recessione richiede stabilità, programmazione, investimenti pubblici a lungo periodo. il liberismo si è rivelato incapace affrontare i mali del nostro tempo da esso stesso generati. le soluzioni sono note a tutti e le strategie anticrisi non possono essere che di carattere politico – istituzionale. Forse la parabola liberista contemporanea finirà perché non riuscirà a portare a compimento la propria restaurazione ottocentesca e progressista.

Ammetto apertamente di non avere le idee molto chiare sulla natura storica profonda di questa crisi del capitalismo. Che essa ci sia, e sia grave, ed abbia già fatto cadere le oscene apologie del mercato liberista, è chiaro a tutti, e non c’è bisogno che sprechi carta per ripetere argomenti critici già largamente noti. Da quanto mi sembra di capire, questa crisi è grande abbastanza per far male a milioni di persone, ma è ancora troppo piccola e “controllabile” dalle cupole oligarchico-finanziarie per comportare una vera sconfitta strategica dell’attuale “capitalismo assoluto” (l’espressione, a mio avviso corretta, è di M. Badiale – M. Bontempelli, La Sinistra Rivelata, Massari, Bolsena 2007). In ogni caso, mancano le forze soggettive, politiche e culturali, per aprire un nuovo ciclo storico. Lasciamo il “pensare positivo” a Jovanotti e Berlusconi.
Sempre secondo Badiale e Bontempelli (op. cit., pp 243-250), la svolta che ha portato al ciclo neoliberista assoluto non ha atteso la caduta ingloriosa e grottesca del comunismo storico novecentesco veramente esistito (1989 – 1991), ma è iniziata sotto Jimmy Carter nel 1979 con la stretta monetaria di Paul Volcker. Secondo il noto commentatore Paul Krugman, la grande recessione economica occidentale del 1980 – 82 non è stata l’involontaria e spiacevole conseguenza della lotta all’inflazione, ma è stata una recessione intenzionalmente provocata come tale, e la manovra monetaria del 1979 è stata voluta, prima ancora che per combattere l’inflazione, perché si producesse disoccupazione attraverso la recessione.
Non sono sicuro che sia andata così. Da qualche parte ho letto che il giro di boa verso il basso del potere d’acquisto del salario reale dell’operaio specializzato americano è stato il 1973, non il 1979. In ogni caso, se questo è vero, siamo di fronte da almeno quaranta anni ad un nuovo ciclo dell’accumulazione capitalistica “mondiale”, che fa diventare i cosiddetti trenta anni gloriosi “1945 – 1975” non certo uno stadio dell’evoluzione pacifica progressiva dal capitalismo al socialismo (come ha pontificato per decenni il gruppo subalterno ed ignorante dei cosiddetti “economisti di sinistra”), ma un normale momento ciclico della ricostruzione dopo la grande crisi del 1929 e le distruzioni della seconda guerra mondiale (1939 – 1945), che ricordo non è mai esistita come guerra unitaria ma ne ha sempre contenuto tre distinte (cfr. C. Preve, La quarta guerra mondiale, Il Veltro, Parma 2008).
Questo ciclo economico neoliberista, il primo vero e proprio ciclo del capitalismo assoluto, postborghese e postproletario, il primo ciclo interamente postfascista e postcomunista, non ha ancora trovato a mio avviso uno storico che lo abbia saputo inquadrare con categorie di lungo periodo. La casta degli economisti non va al di là delle simulazioni econometriche, e la casta dei contemporaneisti è troppo occupata a rinfocolare l’antifascismo in assenza completa di fascismo. Dal momento che, per manifesta incompetenza specialistica, non posso certamente farlo io, mi limiterò a segnalare due fattori materiali probabili.
In primo luogo, non ho ovviamente mai creduto, neppure per un momento, che esistesse una cosa chiamata “globalizzazione”, ed ho sempre pensato che si trattasse di un ordine (globalizzatevi, o la pagherete cara!) nascosto sotto una presunta descrizione (la globalizzazione è un fatto, e chi la nega è matto!), per cui bisognava semmai scoprire dove stavano le “cupole criminali” che mandavano questo messaggio. In termini paleomarxisti, erano sicuramente frazioni del capitale finanziario in lotta contro le tradizionali frazioni del capitale produttivo industriale, maggiormente legate alla sovranità monetaria dei vecchi stati nazionali e quindi maggiormente interessate a salvaguardare keynesianamente il potere d’acquisto delle classi salariate. Non sono però sicuro che questa interpretazione sia corretta. Certo, l’allargamento del mercato mondiale e la formazione di nuove classi medie nel Fu-Terzo-Mondo ha giocato un suo ruolo. Sul piano ideologico (David Harvey), questo ha comportato uno spostamento dell’ideologia dominante dal tempo illuministico del progresso allo spazio postmoderno della globalizzazione (viaggi facili ed a buon prezzo, inglese turistico come nuova koinè mondiale, invasività televisiva, guerra di civiltà fra spazi geografici, NATO come mercenariato mondiale senza confini, eccetera).
In secondo luogo, l’ultimo ventennio neoliberista (1989 – 2009) è stato anche una sorta di grande ed oscena orgia bacchica di festeggiamento per la caduta del baraccone tarlato del comunismo storico novecentesco, che d’accordo con Jameson definirei un grande esperimento di ingegneria sociale dispotico-egualitaria sotto cupola geodesica protetta, cupola geodesica generalmente definita “totalitarismo” nel pensiero politico occidentale apologetico del capitalismo. Questa orgia bacchica è durata vent’anni, ed il 2008 può esserne definito come il risveglio del giorno dopo, con il mal di testa e la bocca impastata dell’alcoolista. In termini letterari, il Capitalismo Assoluto Neoliberale può essere definito in termini di Grande Alcoolista Anonimo.
Per criticare il delirio neoliberale non c’è neppure bisogno di essere marxisti, anzi è meglio non esserlo, date le tendenze riduzionistiche ed economistiche del marxismo tradizionale, positivista in filosofia e ricardiano in economia. Prendiamo Benedetto Croce (cfr. Etica e Politica, Laterza, Bari 1921, ristampato 1981, pp. 263-7). Croce critica il liberismo economico, “cui è stato conferito il valore di legge sociale, convertendolo in illegittima teoria etica, in una morale edonistica ed utilitaria, la quale assume a criterio di bene la massima soddisfazione dei desideri in quanto tali, che è poi di necessità, sotto questa espressione di apparenza quantitativa, la soddisfazione del libido individuale o di quello della società intesa in quanto accolta e media di individui”. Da cui – continua Croce – “l’utilitarismo si sforzò d’idealizzarsi in una generale armonia cosmica, quale legge della Natura e della divina Provvidenza”. Infine – conclude Croce – “nell’indebito innalzamento del principio economico liberistico a legge sociale è la ragione onde è parso che quel principio stesso dovesse essere negato”.
Bravo, don Benedetto! Non si poteva dire meglio, in un buon italiano aulico, anche se un po’ vecchiotto! Ed infatti è veramente così. Nei termini dello studioso francese Pierre Rosanvallon, si tratta di un “capitalismo utopico”, e cioè di un capitalismo che non è mai esistito e che non può esistere se non nel mondo leibniziano delle (inesistenti) “armonie prestabilite”, utopico almeno quanto è utopica l’utopia marxiana capovolta e simmetrica, quella dell’estinzione dello stato nel comunismo. A differenza di come ha sostenuto il pur benemerito Karl Polanyi, anche il capitalismo, giunto allo stato di eccezione (Schmitt), è un’economia in qualche modo incorporata (embedded) nel sistema politico, tanto è vero che le oligarchie oggi in crisi ricorrono allo stato e ai poteri pubblici per poter “raddrizzare” quanto hanno distorto nel ventennio precedente.
Non si tratta quindi di un ritorno al capitalismo dell’ottocento. Il capitalismo, infatti, non ritorna mai indietro. Nello stesso tempo, segue sviluppi ciclici che necessariamente “ricordano” momenti precedenti. La differenza, così come il diavolo, sta sempre nel dettaglio. E si tratta di trovarlo. Purtroppo, la corporazione degli economisti non potrà aiutarci.

2. Tra Europa e USA esistono divergenze circa le strategie con cui affrontare la crisi globale. L’Europa vuole attuare, mediante il ricorso alla spesa pubblica, programmi di investimenti che possano favorire la ripresa economica, allo scopo di scongiurare il riprodursi dell’indebitamento bancario, quale primo responsabile della crisi in atto. tale strategia comporterà l’incremento dell’indebitamento pubblico e potenziale inflazione, oltre alle incertezze congenite di una ripresa per il momento solo ipotetica. Gli USA, al contrario, vogliono ricorrere all’indebitamento pubblico al fine di rifinanziare un sistema bancario ormai privo di risorse per erogare nuovi prestiti e quindi riattivare il mercato dei capitali, dalla cui azione dovrebbe scaturire la ripresa economica. Ciò comporterebbe senza dubbio la riattivazione di meccanismi finanziari basati sul debito, con tutte le incognite ed incertezze del caso. il dissenso circa le strategie anticrisi tra Europa ed USA, riflette la diversità di cultura e di modello di sviluppo economico da sempre esistente tra le due sponde dell’Atlantico, neppure smentite dai processi di omologazione globale in atto. ma tali diversità non conducono a contrapposizioni politiche rilevanti, poiché l’Europa non ha mai smentito la convinzione diffusa secondo cui la ripresa della UE non possa avvenire se non a seguito di quella americana. Quest’ultima, infatti, dovrebbe avere un effetto trainante per l’economia europea. La ripresa dei consumi americani e la crescita della domanda interna, dovrebbe cioè dare impulso alle esportazioni europee, esonerando quindi l’Europa dagli oneri di gravosi indebitamenti pubblici atti a favorire la crescita della propria domanda interna. Se poi gli USA ricorressero a spregiudicate manovre di svalutazione del dollaro a danno dell’Europa, essa potrebbe solo compiangere sé stessa e la propria subalternità. Pressoché immutate restano le posizioni europee nel campo geopolitico, quale la sua appartenenza all’area occidentale, alla Nato (estesa ora anche a Croazia ed Albania), la sua partecipazione (anche se limitata), alle guerre americane, al mercato globale. Infatti, l’istituzione di autorità di controllo sui mercati finanziari, tanto invocata dalla UE, presupporrebbe il controllo degli stati sull’economia, forme di protezionismo idonee alla difesa degli interessi nazionali, restrizioni e regole di selezione rigide per i prodotti finanziari quotati in borsa. Occorrerebbe, per dirla con Dahrendorf, affrontare la crisi con strategie “mondiali” e non “globali”. Lo stesso recente G20, ha reso evidente che gli equilibri mondiali futuribili si fonderanno su un probabile G2 tra Cina e USA, data la stretta interdipendenza delle loro economie. Tali nuovi scenari comporterebbero la marginalizzazione dell’Europa nel contesto geopolitico mondiale. L’Europa sconta la sua mancanza di strategia politica unitaria ed autonoma, quale incapacità sua congenita a costruire un modello di sviluppo che in campo economico e sociale non sia omologato agli USA.

Gira, gira, torniamo sempre alla nostra patetica, ininfluente ed impotente Eurolandia, per usare il termine dello storico Franco Cardini. L’impotenza manifesta di Eurolandia è ormai diventata una sindrome depressiva della parte meno corrotta degli europei, che però non sanno praticamente che cosa fare. Come hai notato, l’idea che la ripresa economica europea possa avvenire soltanto se “trainata” da quella USA è già un terrificante indice di subalternità interiorizzata. Se dobbiamo aspettare il “traino”, significa che il nostro motore è già fuso!
La rivista geopolitica “Limes” rappresenta il punto di vista di quella parte dell’oligarchia finanziaria europea che non vuole in nessun modo sganciarsi dall’Occidente a Guida Americana (OGA), un OGA che da tempo ha sostituito l’ONU come garante del diritto internazionale fra stati, ma che vorrebbe una maggiore condivisione delle decisioni strategiche, e pertanto saluta Obama come un possibile salvatore dopo la doppia presidenza del neo-conservatore ideologizzato Bush (neo-con, nel significato francese del termine). Ma questo non può che restare un pio desiderio (o meglio, una consapevole menzogna per gli imbecilli), in quanto un impero non negozia mai per principio i suoi fini strategici di potenza globale, ma al massimo negozia passaggi tattici secondari. Del punto di vista di “Limes” potremo perciò chiedere: ci prendono in giro, oppure sono talmente illusi da prendere in giro sé stessi?
La rivista geopolitica “Eurasia”, cui mi onoro di collaborare, è molto migliore (anche se ovviamente virtuosamente silenziata dal politicamente corretto), in quanto almeno è estranea all’occidentalismo, e pone correttamente il problema geopolitico dell’asse eurasiatico Europa-Russia-Cina come solo fattore geopolitico di riequilibrio strategico all’impero americano ed all’OGA. Dio la benedica! È proprio cosi! E tuttavia, Sarkozy rema contro, la Merkel rema contro, Putin è incerto e condizionato dall’oligarchia criminale russa, ed anche la Cina non sembra disponibile. In quanto all’India, sia gli USA che l’OGA la ricattano con il Pakistan e con il terrorismo. Per ora, non c’è molto da sperare. Peccato! Ma l’idea è buona, e conviene coltivarla per tempi migliori.
Non credo ad un asse USA-Cina per controllare l’economia mondiale. La Cina sta saggiamente sviluppando il mercato interno, ed io interpreto così la recente notizia del programma statale cinese per una riforma sanitaria gratuita erga omnes (“La Stampa”, 8.4.2009). La coppia USA-OGA la sta punzecchiando (Tibet, Dalai Lama, giunta militare nazionalista del Myanmar, comunismo gerarchico confuciano della Corea del Nord eccetera), ma per fortuna sua e degli equilibri mondiali la Cina sembra resistere.
In questa congiuntura storica (in un futuro, anche vicino, chissà!) la nostra povera Eurolandia non ha speranze. Il fatto che le sue oligarchie sostengano che bisogna aspettare il traino della ripresa americana mi fa pensare che siano talmente intrecciate finanziariamente con gli USA da non poter perseguire una politica indipendente neppure se lo volessero. Ma può darsi che mi sbagli, ed allora vorrei essere corretto per saperne di più. Il mercenariato militare NATO è diventato un mercenariato globale al servizio della geopolitica di potenza USA, ed il pretesto del “terrorismo” appare ormai soltanto un articolo ideologico di esportazione per idioti volontari consenzienti, e non fa più parte della storia politica contemporanea, ma della storia culturale e sessuale del Masochismo. Il personale mediatico insediato al vertice dei mezzi di comunicazione di massa (Mieli, Riotta, Rossella, eccetera) è composto da veri e propri agenti prezzolati della coppia USA-OGA, e questo personale è in grado di bloccare qualsiasi anche piccolo vagito di opposizione culturale. Il codice culturale politicamente corretto, gestito dalla casta corrotta e ben pagata dei cosiddetti “intellettuali”, è ormai totalmente allineato al binomio USA-OGA, e soltanto uno sciocco può pensare che sia “pluralistico”, laddove è ferreamente unitario nella sua espressività politica (novecento come secolo delle utopie totalitarie e delle ideologie assassine, missione occidentalistica per la liberazione di tutte le donne del mondo dal velo islamico, antifascismo in assenza completa di fascismo, religione olocaustica dell’unicità eccezionale di Auschwitz, teologia dell’interventismo umanitario, eccetera). Il codice OGA è stato leggermente indebolito dall’attuale crisi catastrofica del modello neoliberale, ma purtroppo è stato indebolito troppo poco.
La debolezza di Eurolandia è una vera tragedia dell’Europa. E l’Europa non risorgerà prima che Eurolandia non sia distrutta. In proposito, penso che non si possa purtroppo “saltare il passaggio” della piena restaurazione della sovranità politica e monetaria degli stati nazionali. So che la mia opinione è minoritaria ed isolata, ma non posso farci nulla.

3. Le crisi economiche sistemiche, come quella attuale, comportano alla lunga mutamenti degli equilibri sociali preesistenti e trasformazioni più o meno marcate dei sistemi economici, accompagnati spesso anche da rivolgimenti politici più o meno rilevanti. Secondo la dottrina economica liberista le crisi hanno una funzione di trasformazione evolutiva e progressiva dell’economia di mercato. Le crisi ricorrenti, infatti, avrebbero l’effetto, per così dire, “catartico” di superare gli squilibri presenti nel mercato e quindi, quello di operare una selezione darwiniana delle realtà imprenditoriali e finanziarie, col risultato di far sopravvivere i soggetti che siano in possesso di requisiti compatibili con i nuovi equilibri imposti dalla logica evolutiva del libero mercato. Il liberismo prospetta soluzioni alle crisi che presuppongano una funzione salvifica del libero mercato, assunto ad entità metafisica immanente. In tali processi di trasformazione, tuttavia, non si tiene conto dei costi umani, in termini di miseria, disoccupazione, conflitti sociali, eventuali guerre civili che le crisi economiche determinano. In attesa dei nuovi equilibri imposti dal dio mercato globale, il costo umano globale delle crisi è incalcolabile: il liberismo è sostanzialmente anetico. Le crisi economiche, facendo venir meno le certezze e le prospettive di sviluppo preesistenti, vanificano inesorabilmente le aspettative individualistiche e, di riflesso, dovrebbero generare ripensamenti collettivi riguardo la struttura individualista della società contemporanea, inducendo tutti alla riscoperta di antiche solidarietà, scaturite dalle esigenze proprie della indigenza economica e a concepire nuove forme più eque di redistribuzione della ricchezza. Tuttavia, dalla analisi del presente, emerge che tali prospettive, di carattere potenzialmente comunitario, siano al di là da venire. Anzi, è proprio la crisi, con la drastica riduzione di redditi e consumi a rafforzare l’egoismo individuale. Infatti, la lotta per la sopravvivenza è generatrice di interminabili guerre tra poveri, per la difesa di posti di lavoro sempre più rari e sempre meno remunerativi. Nella attuale situazione, la guerra tra microegoismi è tanto più spietata, dato che la posta in gioco della sopravvivenza è legata al mantenimento di un certo livello di reddito e consumo e quindi ad uno status sociale, configurabile come componente antropologica dell’ “io minimo” descritto da C. Lasch. Tale competizione egoistica globale tra consumatori alienati, sembra smentire le analisi della cultura marxista secondo sui le aggregazioni sociali scaturirebbero dai bisogni collettivi, da cui emergerebbero poi le contrapposizioni classiste rivoluzionarie. Ma, allo stato attuale, di prospettive rivoluzionarie non se ne vede l’ombra, si verificano invece, sia in occidente che altrove, solo rivolte episodiche e velleitarie, prive di sviluppi per l’immediato futuro.

Ad un insieme di problemi tanto articolati e complessi è bene cercare di rispondere in modo unitario, attraverso una interpretazione della storia universale, o meglio attraverso una interpretazione dell’intreccio fra l’accumulazione capitalista e tutti i paesi del mondo. Dal punto di vista filosofico la cosa è chiara, e può essere compendiata così: esiste una tendenza dialettica interna al modello anomico ed anticomunitario dell’individualismo, che lo porta da Hobbes a Lasch, e cioè dall’individualismo possessivo estrovertito di conquista e dominio al narcisismo impotente ripiegato in sé stesso. Sulla base del bilancio storico di quattro secoli, questa tesi, apparentemente paradossale, appare in realtà ampiamente verificata. L’individualismo prima distrugge le comunità, ma non sa fermarsi, ed a partire da un certo punto comincia ad autodistruggersi. In questo senso, Marx non deve essere inteso come un pensatore rivoluzionario (sto parlando, ovviamente, a livello filosofico, non politico-sociale), come lo ha necessariamente presentato tutto il marxismo (progressista in filosofia, positivistico nella scienza, riduzionistico nella concezione della storia, ricardiano in economia, eccetera), ma come il terzo grande pensatore conservatore (della comunità contro l’individualismo, intendo), e cioè il terzo dopo Aristotele (il primo) ed Hegel (il secondo). Ma so bene che contro questo riorientamento gestaltico, pur possibile, si mobiliterebbero tutti i “pensatori ufficiali”, atei o credenti, di destra o di sinistra, eccetera.
Ciò che è chiaro (per chi lo sa vedere) in filosofia, è meno chiaro in storia, ed è quindi consigliabile proporre al lettore uno schema elementare di filosofia della storia in tre punti. Siamo giunti, a mio avviso, alla terza (se terza ed ultima, o se ce ne sarà una quarta, nessuno lo può sapere) fase della storia dell’opposizione al capitalismo. Per ragioni di spazio, devo “andare con l’accetta”, ma speriamo di avere modo in futuro di esporre il tutto in modo più completo, coerente ed articolato.
In una prima fase storica (1550-1850 circa), l’opposizione economica, politica e culturale ai nuovi rapporti di produzione capitalistici fu fatta in nome e per conto dei gruppi comunitari che ne avrebbero pagato le spese, e cioè dai contadini e dagli artigiani (in Europa), dalle tribù comunitarie comunistico-primitive (in Africa ed America), ed infine dagli stati dispotici di tipo tributario in Asia. Come è noto, questa resistenza “difensiva” fu alla fine sconfitta. I manuali di storia, non importa se conservatori o progressisti, di destra o di sinistra, atei o religiosi, eccetera, fanno a gara per non far capire il carattere sistemico unitario di questa triplice resistenza, ed in effetti l’applicazione del modello dicotomico Progresso/Reazione non permette di individuarla. Culturalmente, questa resistenza prese molte forme (conservatorismo anti-illuministico, pensiero tradizionalista, comunitarismo comunista a base utopica o babuvista, rivolte religiose in India ed in Cina, messianesimo fra gli indiani d’America, nostalgia per il vecchio piccolo mondo artigiano e patriarcale, eccetera). Questa resistenza dovrebbe essere rivalutata e non disprezzata come stupida arretratezza. Ma questo non viene fatto, ed infatti su questo punto tutti i “progressisti”, dai neoliberali ultracapitalistici apologeti dell’individualismo fino ai presunti “marxisti” (in realtà positivisti progressisti che “votano a sinistra” e lavorano sempre sistematicamente per il re di Prussia), sono sempre in piena (ed idiota) concordia.
In una seconda fase storica (1850-1980 circa), una volta consumata la sconfitta delle resistenze contadine ed artigiane, e quindi tradizionalistiche, all’accumulazione capitalistica, fu assolutamente inevitabile e logico che le classi operaie, salariate e proletarie di tipo urbano ed industriale venissero individuate come il solo soggetto sociale collettivo e comunitario in grado di resistere al capitalismo individualistico. Pensare che Marx si sia sbagliato, o si sia illuso, ed avessero già ragione i furbi disincantati di allora (Schopenhauer, Nietzsche, Max Weber, eccetera), è a mio avviso del tutto antistorico. Retrodatare il disincanto ai suoi pochi annunciatori, a mio avviso, è un atto antistorico, ed anche ingeneroso, perché finisce con il tagliare l’albero in cui anche noi siamo seduti. Non siamo forse anche noi dei critici del capitalismo assoluto? E se lo siamo, che senso ha irridere per i loro sbagli i nostri predecessori?
Ora sappiamo che Marx si era illuso sulle capacità rivoluzionarie della classe operaia, salariata e proletaria, ed anche sulla capacità della socializzazione capitalistica delle forze produttive di produrre, come per una magica ed alchemica “generazione spontanea”, un soggetto rivoluzionario. Così non è stato. Ma se così non è stato, è perché il sistema capitalistico ha saputo con successo mobilitare, culturalmente e politicamente, le nuove classi medie contro il proletariato. E lo ha fatto dando qualcosa a queste classi medie, in termini di status, di promozione sociale, di stabilità di lavoro, di redditi crescenti, eccetera. Le classi medie sono state prese nel loro insieme (al netto dei cosiddetti “intellettuali di sinistra”, che in realtà conducevano una loro guerra civile culturale interna al modello borghese di comportamento), il fattore strategico della sconfitta (non prevista da Marx) delle classi subalterne operaie, salariate e proletarie. E questi sia in Occidente (USA, Francia, Germania, Italia, eccetera), sia ancor più in Oriente, dove la dissoluzione sociale del baraccone dispotico-egualitario chiamato comunismo storico novecentesco è stata dovuta ad una vittoriosa controrivoluzione sociale di massa delle nuove classi medie cresciute dentro lo stesso modello di accumulazione socialista, e questo dovunque, Cina, Russia, Ungheria, senza alcuna eccezione.
Siamo allora arrivati ad una terza fase storica, che ha pochi tratti in comune con la prima e con la seconda. E siamo però di fronte ad un paradosso, che chiamerò brevemente il paradosso dell’ingratitudine. Ed il paradosso dell’ingratitudine sta in ciò, che le classi medie, che pure hanno permesso alle oligarchie capitalistiche la piena vittoria contro il povero baraccone dispotico egualitario subalterno del comunismo storico novecentesco realmente esistito (e non di quello utopico-scientifico disegnato da Marx – l’ossimoro è ovviamente volontario), sono state ripagate dalle oligarchie vincitrici, che non avrebbero mai vinto senza il loro appoggio decisivo, con il lavoro provvisorio, flessibile e precario, con l’età delle aspettative decrescenti, ed in poche parole con l’abbattimento del profilo storico borghese classico, che Hegel individuò nella famiglia e nella permanenza per la vita intera del lavoro professionale stabile e sicuro, unico involucro possibile della cosiddetta “eticità” (Sittlichkeit). Ed infatti il famoso “stato etico” hegeliano non è quello che mette i mutandoni alle donne o legifera sulle staminali o sulla idratazione dei moribondi, ma è quello che garantisce la serenità familiare e la stabilità del lavoro e delle professioni. Sembra un’ovvietà, ma chiedete ad un politicante analfabeta, non importa se di destra o di sinistra, e vi dirà che lo stato etico di Hegel è quello che vuole coprire per moralismo i culi delle adolescenti. Qui l’ignoranza giunge a tali vertici di surrealismo da diventare effettivamente “sublime”.
Un simile paradosso d’ingratitudine è effettivamente già avvenuto in passato. Prendiamo la storia romana, dal primo re Romolo (753 a.C.) all’ultimo imperatore d’Occidente, Romolo Augustolo (476 d.C.). Bene, in termini sintetici, l’impero romano fu costruito ad opera di una classe di piccoli proprietari e produttori indipendenti, senza la quale saremmo ancora qui a parlare etrusco o celtico, che fu “ringraziata” dalle oligarchie (indipendentemente dalla spartizione del bottino fra senatori e cavalieri) con la proletarizzazione, la caduta in miseria, la riduzione a plebei straccioni mantenuti a panem et circenses.
Ebbene, qualcosa del genere è avvenuto anche oggi. Cosi come i piccoli proprietari romani furono “ringraziati” con la loro riduzione a precari straccioni, divisi fra i clientes di Silvius Berlusco e Romanus Prodo che gli davano ogni giorno delle sportulae per mendicanti ossequienti, nello stesso modo le classi medie, che sono indubbiamente state nel loro insieme la precondizione sociale della vittoria storica delle oligarchie capitalistiche, vengono ora “ringraziate” con la distruzione integrale del loro profilo culturale, che era non solo e non tanto il modesto benessere dei consumi (considero riduzionistica ed economicistica l’eccessiva enfasi sul carattere integrativo dei cosiddetti “consumi”, di cui pure non nego ovviamente il ruolo) quanto la stabilità dei progetti di vita, nel doppio aspetto professionale e familiare. Oggi il modello culturale postborghese è la laureata costretta al call center, e Luxuria, il transessuale che si vanta di essersi prostituito da giovane, visto come punta avanzata della modernizzazione individualistica dei consumi. In questa divisione del lavoro, l’economia è assegnata alla destra (la destra mercatistica, come dice De Benoist), la politica al centro, e la cultura alla sinistra (nel senso di Vendola, Bertinotti, Caruso, Luxuria, Sansonetti e la signora Dandini).
Per quanto tempo sopporteranno ancora tutto questo le classi medie? Quanto tempo ci metteranno a capire che sono state “fregate” dalle oligarchie finanziarie? E quanto ci vorrà perché capiscano che l’individualismo con cui le hanno illuse e manipolate non potrà che far ancora peggiorare la loro condizione non solo sociale, ma anche e soprattutto psicologica ed esistenziale?
Questo è l’enigma-chiave. Tenendo conto della stupidità inerziale delle collettività manipolate, temo che ci vorrà molto tempo. In ogni caso, più tempo di quello che ci resta per la nostra restante vita terrena.

4. Un modello politico che si afferma come vincente in ogni epoca, ha la sua origine nella propria cultura e teoria filosofica sottostante, che poi, attraverso fasi intermedie trasformatrici, si impone con il consenso delle masse e fonda nuove istituzioni politiche. Tali fenomeni culturali, prima che politici, hanno successo e si impongono nella società in quanto, come si dice a posteriori, sono capaci di interpretare lo spirito del tempo. Tale spirito del tempo (Zeitgeist hegeliano), scandisce il succedersi di ideologie e sistemi politici e, talvolta, è esplicativo di tanti fallimenti ed occasioni mancate di gruppi che devono il loro insuccesso alla propria mancanza di sensibilità politica per interpretarlo nel corso della storia. Nell’epoca contemporanea, le forze politiche liberali, sembrano quindi essere gli interpreti legittimi dello spirito del nostro tempo: sono stati i liberali gli unici sopravvissuti alla fine catastrofica delle ideologie novecentesche, hanno compreso le potenzialità di sviluppo della tecnologia e della economia di mercato, realizzato quella società cosmopolita e globale già prospettata come esito finale di ideologie e religioni, ma con tragici insuccessi. Tuttavia, questa oggettività dello spirito del tempo accreditata dall’ideologia liberale è riconosciuta come universale in base ad una concezione dello spirito del tempo intesa come registrazione passiva ed omologata del fatto compiuto. Quella liberale è comunque una ideologia economicista e non politica (tantomeno filosofica), atta a riempire il vuoto culturale ed esistenziale manifestatosi con la fine delle ideologie e l’eclissi delle religioni in occidente. Che tale concezione sia fallace è dimostrato dal fatto che essa si fonda essenzialmente su un atto di fede ideologica in contraddizione evidente con il nostro tempo: oggi non si confida forse che siano le virtù taumaturgiche del mercato a risolvere una crisi globale causata proprio dall’avvento della finanza globalizzata? Ma ci si chiede allora se interpretare lo spirito del tempo non sia prerogativa di quei pochi emarginati spiriti liberi che hanno la cultura e la sensibilità necessaria per scorgere, nello stato di cose presenti, correnti di pensiero minoritarie e forze sociali occultate, ma potenzialmente capaci di affermare nuove esigenze e nuove concezioni dell’uomo e della società latenti, e spesso vaghe ed inespresse, ma idonee a superare le strutture politiche ed economiche di un eterno presente condannato alla stagnazione, proprio perché estranee allo spirito del tempo? Gli interpreti dello spirito del tempo non sono allora coloro che hanno la funzione di portare alla luce, attraverso un processo di razionalizzazione quanto di culturalmente e spiritualmente è presente nella società a livello ancora irrazionale ed inconscio? Gli interpreti dello spirito del tempo non sono quindi coloro che, sulle presmesse di una realtà compiuta, creino nuove utopie, quei pensatori “inattuali” cioè, che superino la contemporaneità, in funzione della prefigurazione di un futuro i cui fondamenti sono già presenti in questo nostro tempo?

Di tutti i temi che tu mi hai cortesemente posto in alcuni anni di dialogo franco e amichevole, fondato sul superamento morale, umano e psicologico delle eredità avvelenate della dicotomia Destra/Sinistra, questo è di gran lunga il più importante, così che gli altri, pur importanti, quasi spariscono. Per questo mi permetterai di “allargarmi” un po’ di più del consueto. Sarà ovviamente necessario tornarci. Per il momento, utilizziamo l’occasione per metterne alcune basi.
Il tema dello Zeitgeist, e cioè della corretta comprensione da parte di individui pensosi di quale sia lo “spirito del tempo”, è ovviamente più che mai attuale. Hai perfettamente ragione a rilevare che “il modello politico che si afferma come vincente in ogni epoca, ha la sua origine nella propria cultura e teoria filosofica sottostante, che poi, attraverso fasi intermedie trasformatrici, si impone con il consenso delle masse, e fonda nuove istituzioni politiche”. Chi non comprende che l’elemento simbolico sorregga il tutto, e magari pensa che il modello filosofico che regge la sintesi sociale dominante sia una semplice sovrastruttura ideologica secondaria derivata (e questa concezione è comune all’economicismo, nelle due varianti complementari del marxismo sociologistico e dell’ultra-liberismo individualistico), assomiglia ad un medico che riduce l’intera medicina a dermatologia, e cioè allo studio della pelle. La grandezza di Alain de Benoist, rispetto ai suoi imitatori italiani di secondo livello sta in ciò, che mentre gli imitatori italiani tipo Tarchi si perdono in irrilevanti analisi politologiche (se la metodologia è la scienza dei nullatenenti, la politologia è la scienza dei poveracci), de Benoist invece ha saputo andare alla radice delle filosofie portanti di oggi, e questo indipendentemente dal fatto che si sia poi d’accordo in tutto, in parte, oppure in mdo molto limitato.
In una lettera all’amico Niethammer del 1816 (un anno dopo il famoso Congresso di Vienna), Hegel parla dello “spirito del tempo” in termini di inarrestabile avanzamento verso il progresso della ragione, e considera la Restaurazione come un semplice incidente di percorso. Oggi questa visione ottimistica dello Spirito del Tempo ci è preclusa, senza che per questo si debba aderire alla posizione opposta (e complementare) per cui un tempo la cosiddetta “totalità” sarebbe stata modificabile, mentre invece oggi non più (Adorno, francofortesi, eccetera). Questo pessimismo, travestito da filosofia definitiva ed ultimativa della storia, è semplicemente la razionalizzazione sublimata della delusione della (mostruosa) generazione sessantottina, che viene imposta alla nuova generazione del lavoro flessibile e precario da apparati universitari ben pagati e ben inseriti negli strati inferiori e subalterni delle oligarchie dominanti.
Fra l’ottimismo progressistico borghese e la sindrome depressiva dell’eternizzazione dell’impotenza storica esiste qualcosa di intermedio, e cioè una possibile soluzione? È ovvio che questa, e solo questa, è di fatto la domanda-chiave. Fra l’ottimismo di Hegel ed il pessimismo di Adorno, c’è una soluzione dialettica possibile?
Certamente c’è. Ma perché la si possa percorrere, occorre fare una diagnosi credibile dello spirito del tempo. Nessun medico consiglia una terapia senza prima aver fatto una diagnosi. Noi dobbiamo, prima di tutto, evitare il pur legittimo orgoglio soggettivo di chi è fiero del proprio ruolo di testimone critico di minoranze, cullandosi magari con la vecchia autoconsolazione degli impotenti, per cui solo le minoranze comprendono le cose. Essere infatti maggioranza sarebbe sempre meglio che essere minoranza. Il pensiero di Hegel potrebbe infatti compendiarsi in questa frasetta. E tuttavia, lo Zeitgeist non è affatto un dato statistico-sociologico cui aderire per tranquillo conformismo identitario (la cui base psicologico-esistenziale è quasi sempre la legittima e scusabile paura della solitudine e della emarginazione sociale), ma è un enigma filosofico da decifrare, la cui decifrazione è spesso difficilissima.
Questa decifrazione è difficile, e bisogna meritarsela. Questo non significa che il criterio del merito sia il riconoscimento collettivo maggioritario, in quanto (cito Lukacs) ci si scoraggia assai presto quando ci si accorge che quanto diciamo ha un eco estremamente limitata. Eppure, faremmo un errore di paranoia impotente se ci consolassimo dicendo che noi siamo intelligenti, anzi intelligentissimi, ma purtroppo i pecoroni che ci circondano non ci capiscono.
In proposito, le culture di sinistra e di destra che abbiamo cercato di lasciarci alle spalle (almeno dal punto di vista identitario) presentano difetti apparentemente opposti ma complementari. La cultura di sinistra, sulla base di un presupposto sociologico, relativistico, storicistico e nichilistico, è intrisa dell’idea che soltanto le maggioranze hanno ragione, perché le maggioranze sarebbero soltanto l’espressione sovrastrutturale del progresso inarrestabile della cosiddetta “modernizzazione” (data la stupidità tradizionale di questo punto di vista sociologistico, non ci si accorge che la cosiddetta “modernità” è semplicemente il capitalismo, e la cosiddetta “modernizzazione” è semplicemente l’approfondimento antropologico della manipolazione capitalistica complessiva). La cultura di destra, sulla base di un presupposto superuomistico, tradizionalistico, aristocratico e gerarchico, ritiene invece che solo i Pochi siano intelligenti, mentre i Molti sono solo decerebrati pecoroni in attesa di una Guida. E dunque, il primo presupposto per capire il presente, ed il più difficile di tutti, si può compendiare così: il relativismo sociologistico maggioritario di sinistra ed il superuomismo aristocratico di destra, lungi dall’essere due contrari, sono soltanto i due opposti complementari di un’unità ideologica di tipo antitetico-polare.
Passando ad un secondo punto, per poter attingere la comprensione dello spirito del tempo di oggi, bisogna saper essere ad un tempo fedeli agli ideali della giovinezza, e nello stesso tempo superarli (nel senso della hegeliana Aufhebung) alla luce dell’esperienza storica. Sempre Lukacs nota che vi sono tre modi di elaborare il passaggio dalla giovinezza alla maturità: la fedeltà, lucida e ottusa, ai valori politici e morali coltivati nella giovinezza stessa; il passaggio ad un altro campo, e quasi sempre al campo opposto; infine, la perdita della capacità di dedizione in genere. Ognuno di noi ha certamente fatto e fa tuttora l’esperienza, nell’ambito delle sue conoscenze, di tutte e tre le tipologie antropologiche, psicologiche, politiche e morali. Partiamo quindi da questa sommaria tipologia per cercare di autointerpretare prima di tutto noi stessi. Conosci te stesso (gnothis’eautòn), diceva Socrate, il fondatore della tradizione filosofica occidentale.
La fedeltà, lucida o ottusa (meglio lucida, evidentemente) agli ideali politici della giovinezza, non è affatto di per sé un disvalore, anzi. Di fronte al cinismo opportunistico è anzi un valore. Ma si tratta solo di un valore morale, non di un valore etico. Il valore morale parte infatti sempre e solo dall’individuo e dalla fedeltà soggettiva e veridica alla propria coscienza individuale (la cosiddetta “coerenza”). Ma il passaggio dalla morale all’etica è mediato dalla comprensione dialettica dei nuovi dati sociali e politici, e allora sia la fedeltà che la coerenza non sono elementi razionali decisivi, ma possono diventare ostacoli non solo alla comprensione, ma anche e soprattutto all’azione.
Il passaggio al campo avversario è la norma, o meglio la norma statistica maggioritaria. La vecchia sapienza conservatrice vede nell’adeguamento alla realtà cosi com’è il criterio del passaggio dalla giovinezza alla maturità (il cosiddetto “principio di realtà”). Si tratta di sciocchezze. Il passaggio al campo avverso è quasi sempre dovuto alla triplice tentazione di cui ha parlato a suo tempo il filosofo Spinoza (ricchezza, onori, potere). Tutte queste  canaglie ci parlano dai giornali, dai canali televisivi, dai parlamenti. Noi sappiamo perché sono lì. Possono ingannare molti, in particolare i più giovani, ma non noi, che siamo i loro coetanei. Il sistema oligarchico ha bisogno di questi rinnegati, li paga bene, e li ripaga infatti con l’immortale triade corruttrice (potenza, ricchezza, onori).
La perdita della capacità di dedizione in genere rappresenta, come il riflusso della marea, il sedimento dei periodi storici di riflusso, come quello che stiamo vivendo. Questa perdita di capacità di dedizione in genere, razionalizzata in vario modo dalle facoltà universitarie di filosofia, è il prodotto della interconnessione di tre momenti successivi: il momento delle illusioni; il momento delle delusioni e, infine, il momento delle sintesi del complesso di illusioni e di delusioni, il cosiddetto disincanto. E le facoltà di filosofia sono appunto specializzate nel fondere creativamente insieme questo disincanto (Max Weber, Richard Rorty, Gianni Vattimo, fino agli adorniani politicamente corretti ed innocui tipo Stefano Petrucciani).
Lo spirito del tempo ha quindi un oggetto ed un soggetto. L’oggetto è il tipo umano (o idealtipo in senso weberiano) conformista identitario e politicamente corretto, pienamente inserito nel gioco di simulazione della protesi manipolatoria Destra contro Sinistra, sacerdote del Politicamente Corretto Unificato con tutte le sue ormai notissime determinazioni (religione olocaustica di colpevolizzazione eterna dell’occidente, antifascismo in palese assenza di fascismo, teologia dei diritto umani, americanismo progressista, eccetera). Il soggetto è invece l’interprete critico e problematico di questa situazione. Egli non può che aspettarsi la diffamazione, l’emarginazione ed il silenziamento. Ma sarebbe sciocco e suicida se finisse con il crogiolarsi masochisticamente di questa condizione minoritaria. È esattamente quello che vuole il nemico: l’autoesclusione accompagnata da una impotente sensazione di superiorità intellettuale e morale.
Essendo già arrivato quasi alla fine dello spazio a disposizione, di cui ho già abbondantemente abusato (ma il tema lo richiedeva), non posso certamente esporre la mia concezione dello spirito del tempo. Sarebbe però opportunistico se almeno non vi accennassi sommariamente.
Lo spirito del tempo presente è caratterizzato da quella che il vecchio Lukacs connotò come compresenza di onnipotenza astratta e di concreta impotenza. Non ha quindi molto senso, ed è anzi fuorviante, cercare di avvicinarsi al nostro tempo in base a categorie puramente politologiche (Bobbio, Rawls, Habermas), e tantomeno in base a categorie puramente economiche (ad esempio neoliberisti contro neo-keynesiani). Non è neppure particolarmente utile avvicinarsi con categorie dicotomiche di tipo Laici contro Religiosi. È evidente che la problematica tragica di Ratzinger è mille volte al di sopra dei ringhianti cagnolini ateo-darwiniani (Augias, Flores, d’Arcais, eccetera), che hanno smesso di credere nel materialismo storico e sono passati a credere nella teoria dell’evoluzione. Ancora un passo, e certamente arriveranno alla teoria geologica della deriva dei continenti come soluzione simbolica dei problemi del presente.
La compresenza di onnipotenza astratta (oggi incrinata ma ancora purtroppo troppo poco, dalla crisi scoppiata nel 2008) e di concreta impotenza (per cui il soggetto non ha più di fatto neppure diritto a quella che è sempre stata la base sostanziale della sensatezza della vita umana in tutte le epoche, e cioè il profilo professionale e lavorativo permanente) caratterizza quindi in prima istanza lo spirito del nostro tempo. Diffidate di chi vuole inchiodarvi a dicotomie ormai trascorse (comunismo/anticomunismo, fascismo/antifascismo, ateismo/religione, laicismo/clericalismo, eccetera). Costoro, in buona fede o meno (faccio una valutazione a occhio: 20% buonafede, 80% malafede), vogliono inchiodarvi all’ipnotica inutilità di confronti passati per impedirvi di riflettere alle contraddizioni del presente.
Ed ecco allora in breve qual è la nostra (mi permetto questa espressione) concezione dello spirito del tempo: fare il possibile perché costoro non ci riescano, o almeno non abbiano la strada sgombra. Noi ci metteremo di traverso per quanto potremo.