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Scacco etico all’economia: fin dove si può spingere il «progresso»?

di Paolo Lambruschi - 26/09/2005

Fonte: avvenire.it

DIALOGHI
L’economista francese e il fondatore del Gruppo Abele:fin dove si può spingere il «progresso»?

Scacco etico all’economia


Di Paolo Lambruschi

L’economista è un critico radicale dell’ideologia del progresso e auspica un ritorno a valori come la reciprocità e la solidarietà, mentre il sacerdote da anni non solo parla di questo, ma lo pratica nelle sue attività finalizzate al recupero di coloro che dal progresso vengono lasciati indietro.

Ciotti: «Anche gli ultimi vanno
inclusi nel sistema produttivo»


«Basta elemosine:solo dal recupero della dignità può nascere una vera giustizia distributiva»

Vista dai margini, l'economia deve produrre valori come la dignità, la legalità e l'inclusione sociale. Da quarant'anni don Luigi Ciotti sperimenta in prima persona, nelle cooperative del gruppo Abele e nel sistema di Libera, i valori della "legge della casa". «Perché il significato di economia è letteralmente legge della casa - afferma don Ciotti - quindi accoglienza, inclusione e condivisione. Poi il sistema produttivo si è ammalato, ha chiuso le mura generando ricchezza per pochi e povertà per molti. L'ingiustizia sociale è evidente a tutti. Il denaro, che è un mezzo e in sé non è un male, è diventato un fine e ha messo l'uomo in secondo piano. Al centro dell'economia oggi c'è l'arricchimento a ogni costo. Questo egoismo ha generato una società che dipende dal successo, immersa nell'agonismo sociale. Il mercato genera ricchezza per pochi, mentre i compiti assistenziali toccano allo Stato».
Cosa potrebbe incrinare questo modello?
«Non voglio attaccare imprenditori e industria, che hanno il grande merito di produrre beni e dare lavoro. Invece non trovo giusto l'atteggiamento assistenziale verso i poveri. Occorre farli partecipare alla produzione per dare loro libertà, dignità, rispetto di sé. Penso che vada rafforzato un sistema di imprese sociali che offra lavoro partendo da settori umili co me la raccolta dei rifiuti urbani. Allora, il primo passo verso un'etica dell'economia è includere anche gli ultimi nella produzione, eliminando l'elemosina e le pacche sulle spalle. In seconda battuta occorre battersi per una più equa ridistribuzione della ricchezza. La legge della casa prevede la giustizia. Poi serve una diversa cultura del consumo, un'educazione seria alla sobrietà. Senza dimenticare lo scandalo dello sfruttamento, su scala mondiale e anche in Italia».
Ad esempio?
«Ho davanti agli occhi le bare dei senza nome affogati a Gela nell'ultimo sbarco di clandestini. Una bara conteneva un ragazzo neanche maggiorenne. Erano poveri in fuga dalla miseria che, disperati, arrivavano in Italia per lavorare in nero. La legalità è un altro valore indispensabile per l'economia».
Sembra paradossale nell'Italia del sommerso...
«Eppure l'illegalità nuoce all'economia: toglie ricchezza alla comunità lasciandola a pochi, ai più forti. Questa è la mafia. Non dimentichiamo che in una fetta del nostro Paese la gente è abituata a chiedere favori per avere quanto gli spetta di diritto. La mia esperienza di impegno con Libera, nelle aziende che producono pasta, olio e vino sui terreni confiscati alla mafia, mi ha insegnato che chi è senza diritti diventa orfano nella terra dei doveri».
La scienza è sbarcata nel Sud del mondo per sperimentare liberamente manipolazioni genetiche e clonazione umana, nuove frontiere del business. Cosa ne pensa?
«Ho grande fiducia nella scienza, se mette al centro l'uomo. Bisogna battersi per il rispetto integrale della vita contro le manipolazioni e il tentativo di mercificare l'uomo. È la grande sfida morale del futuro».
Su questi valori ci può essere convergenza tra credenti e laici?
«Certo, se si pone al centro dell'economia l'uomo. Per un credente sono importanti i riferimenti alla Scrittura: in positivo, Gesù parla di Dio chiamandolo Abbà, Padre. In negativo parla di Mammona, il denaro. Chiediamoci sempre se poggiamo la nostra esistenza su Dio o sul denaro».

Latouche: «Il mercato ritorni
al servizio della società»


«Dobbiamo "decolonizzare" il nostro immaginario
dall’ansia per il profitto»


Decolonizzare il nostro immaginario dall’ansia di profitto, è la sfida ventura per salvare il pianeta. Quasi sei anni fa esordiva il movimento no global a Seattle, quando per la prima volta si videro in piazza associazioni, sindacati e ong per contestare il modello liberista. Poi la storia, dall’attentato alle Torri gemelle al terrorismo jihadista contro città europee, dagli scontri al G8 di Genova alla guerra in Afganistan e Iraq, gli ha mutato fisionomia. Oggi è diviso tra una frangia irriducibile anticapitalista, antioccidentale e violenta e la maggioranza, che esercita pressioni democratiche e non violente per ottenere pace e giustizia. Il tema chiave per questi ultimi resta il rapporto tra valori morali ed economia. Serge Latouche, intellettuale francese, con i suoi saggi e articoli su "Le monde diplomatique" è uno dei punti di riferimento dei no global.
Nel 2005 su quali basi imposta il rapporto tra etica ed economia?
«La questione è culturale. Da un lato i governi occidentali e le organizzazioni finanziarie internazionali – come la Banca mondiale, l’Organizzazione del commercio e il Fondo monetario – continuano imperterrite ad agire secondo una cattiva interpretazione di Adam Smith: l’etica va distinta dagli affari, riguarda solo i comportamenti individuali. Il profitto legittima tutto. Ignorano la crescente ingiustizia globale, che risulta evidente dai recenti dati dell’Onu sullo sviluppo che certificano l’aumentato divario tra ricchi e poveri. E sottovalutano le catastrofi ambientali. Ma quasi nessuno, dopo la tragedia di New Orleans, osa negare che il clima è stato alterato dall’inquinamento provocato da questo sviluppo selvaggio. Giustizia sociale e ambiente sono temi etici inscindibili dall’economia, da cui discende anche la pace. Allora, dobbiamo ricollocare l’economia nella sua sfera naturale, cioè al servizio della società, della persona e dell’ambiente, ribaltando il modello attuale».
Da dove comincerebbe?
«Serve un’operazione di decolonizzazione del mondo occidentale dal pensiero unico che genera ansia di profitto. Poi arriveranno gli interventi politici per uno sviluppo equo e sostenibile».
In concreto?
«L’unica via è la presa di coscienza individuale. È un cammino lento e difficile, perché l’informazione è in mano alle grandi aziende transnazionali e al potere politico, ma la società civile globale sta sempre più prendendo coscienza della situazione. È un processo inarrestabile: guardi quanto è cresciuto in Italia il non profit, che si basa su questi valori. Il movimento che si batte per la pace, la giustizia e la difesa dell’ambiente cresce perché ha imparato a non fidarsi e si informa da solo. I regimi comunisti sono caduti perché la gente alla fine ha preso coscienza».
Non ci sono stati passi avanti etici anche da parte delle imprese? Dopo tutto responsabilità sociale è diventata parola d’ordine nei consigli di amministrazione di tutto il pianeta...
«Dubito che colossi con fatturati superiori ai bilanci di uno Stato abbiano intenzione di cambiare. Solo se matura la cultura dei consumatori si ottengono risultati».
Molte grandi aziende «biotech» si sono spostate nel Sud del mondo per condurre esperimenti di manipolazione genetica e di clonazione umana. Perché il movimento non protesta?
«Sono temi inquietanti. Sono contrario alla manipolazione genetica perché la scienza è al servizio dell’uomo. Credo che sulla tecnoscienza la società civile debba interrogarsi, informarsi e vigilare. È la nuova frontiera dell’iniquità».