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Il non-essere degli enti è un grido di dolore e una invocazione alla pienezza dell'Essere

di Francesco Lamendola - 11/06/2009


Basta guardarsi intorno, basta guardarsi dentro, e una cosa appare evidente, anche per chi abbia la vista meno acuta: dovunque, gli enti gemono e levano un grido di dolore, come una invocazione all'Essere.
Non c'è ente che si appaghi della propria condizione; non c'è ente che non sospiri e non soffra della propria incompletezza, della propria inadeguatezza, della propria insufficienza; non c'è ente che non si tormenti sotto il peso di ciò che non è, che non soffra per il proprio limite.
Tutti gli enti, dal filo d'erba all'essere umano più evoluto e spirituale, anelano con tutte le proprie forze a superare il limite che li costringe all'indigenza, alla precarietà, al dolore; e tutti ricadono nella propria impotenza, nel proprio non-essere.
Dalla pianta che soffre per la mancanza di luce e si protende con tutte le fibre verso l'alto, per strappare una scintilla al Sole, fino all'uomo e alla donna che si scontrano con la disperazione, con la malattia, con la morte: tutti condividono lo stesso dramma; tutti gridano la propria angoscia per la mancanza di una vita piena, pacificata, luminosa.
Eccolo lì, il non-essere: è il vuoto che incombe come un macigno sulle nostre esistenze; è la mancanza di bene, di gioia, di amore; è la consapevolezza della fine che ci attende, e ci avvelena anche i momenti più lieti. È il desiderio di giustizia, mentre dobbiamo assistere, ogni giorno, al trionfo dell'ingiustizia; è l'aspirazione alla libertà, mentre dobbiamo vedere e sentire le pesanti catene che ci tengono schiavi; è la sete ardente di pace, di serenità, di comprensione, mentre ci si offre l'amaro spettacolo quotidiano della discordia, della prepotenza, della cattiveria.
Anche se un certo rozzo scientismo pretenderebbe che ci sentissimo fieri e potenti come Dio, la vita è lì, pronta a ricordarci, anche troppo spesso, la nostra miseria, la nostra fragilità, la nostra inettitudine, non solo a fare, ma ad essere: ad essere come vorremmo essere; mentre la realtà è che siamo talmente al di sotto dei nostri desideri, che - a volte - non osiamo neppure guardarci nello specchio.
E, quel che più conta, sentiamo - almeno noi esseri umani, enti capaci di autoriflessione - che è per una nostra infedeltà all'essere, che ci troviamo così sfigurati, dolenti e meschini; non per un destino ineluttabile; non per una sentenza pronunciata altrove.
Vorremmo la salute, e siamo così malati; vorremmo la forza, e siamo così deboli; vorremmo la giovinezza, e invecchiamo ogni giorno. Vorremmo la felicità, e siamo tormentati da mille inquietudini; vorremmo l'appagamento, e ci aggiriamo come pallidi spettri nel deserto, bruciati da un'arsura divorante.
Basterebbero queste semplici osservazioni, che ciascuno di noi fa, o può fare, migliaia di volte nel corso della propria vita, per renderci conto, con estrema chiarezza, di una cosa: che noi tutti, enti finiti, partecipiamo all'essere - infatti siamo qui, ora - ma non abbiamo l'essere; o meglio, lo abbiamo per partecipazione: la nostra esistenza è un modo di partecipare all'essere, senza realmente possederlo.
In altre parole, noi proveniamo dall'essere, e abbiamo ricevuto la nostra esistenza come un dono; ma essa non dipende da noi, in alcun modo: non ce la possiamo dare, non ce la possiamo togliere (non esiste alcuna prova che il suicidio comporti un annullamento della coscienza; così come qualunque altra forma di decesso, del resto).
La nostra esistenza è, dunque, contingente: c'è, ma potrebbe non esserci; e il fatto che ci sia, non dipende da noi, ma da altro da noi. E quest'altro da noi, non può essere un altro ente finito, come lo siamo noi stessi: perché, se così fosse, questo non farebbe che spostare all'infinito la catena della causa prima.
I materialisti possono dire quello che vogliono: ma è certo che nessun ente finito può dare l'essere: perché niente e nessuno può dare quello che non possiede; e chi partecipa dell'essere, ma non lo possiede in senso ontologico, non può conferirlo ad altri.
Molti filosofi, Hegel in primis, si sono scordati di questa semplice, intuitiva verità: solo l'essere può dare l'esistenza, compresa quella forma di esistenza che è il pensiero; e non viceversa. Solo l'essere può creare il pensiero; non certo il pensiero, creare l'essere. Meno ancora può essere la materia a conferire l'essere: la materia non ha l'essere, visto che se non si è data da sé la propria esistenza; dunque non può nemmeno darlo. Materialisti e spiritualisti condividono lo stesso errore: pensare che l'ente crei l'esistente. Invece l'ente, per definizione, non crea e non dà nulla: può solo essere creato; oppure no.
Ora, quello che noi vediamo è che le cose esistono. Potrebbero anche non esistere: la loro esistenza non è «necessaria», in senso filosofico. Invece esistono: e, con loro, esistiamo noi, esiste questa domanda che ci stiamo facendo, qui, adesso; esiste questo senso di vuoto, di mancanza, di dolore, degli enti finiti che avvertono il proprio limite e si protendono oltre, o che vorrebbero protendersi oltre.
Se si vuole essere intellettualmente onesti, non ci può sottrarre, a questo punto, ad alcune inevitabili conseguenze di quanto sopra si è visto.
Primo: siamo, ma non nel senso che siamo l'essere; bensì in quello che esistiamo, ossia che partecipiamo dell'essere.
Secondo: veniamo da qualcosa o da qualcuno; non ci siamo fatti da noi: non ne saremmo in alcun modo capaci.
Terzo: ogni cosa, nella nostra esistenza, ci ricorda il nostro limite; eppure ogni cosa, al tempo stesso, sembra alludere a quell'essere cui aspiriamo, che vorremmo possedere in noi.

Scrive Pascal nei suoi «Pensieri», (traduzione di Paolo Serini, Torino, Einaudi, 1962, e Milano, Mondadori, 1979, pp. 255-59):

«385. L'uomo non sa qual grado attribuirsi. È evidentemente smarrito, e caduto dal suo vero luogo senza poterlo ritrovare, e lo cerca in ogni dove con inquietudine e senza esito fra tenebre impenetrabili.
386. la duplicità dell'uomo è così evidente che certuni han pensato che ci siano in lui due anime, Un soggetto semplice sembrava loro incapace di tali e così improvvise mutazioni: da una smisurata presunzione a un orribile abbattimento di cuore.
387. Desideriamo la verità, e non troviamo in noi se non incertezza.
Cerchiamo la felicità, e non troviamo se non miseria e morte.
Siamo capaci di non aspirare ala verità e ala felicità, e siamo incapaci di certezza e di felicità. Tale aspirazione ci è lasciata sia pur punirci sia per farci sentire di dove siamo caduti.
388. Guerra intestina nell'uomo tra la ragione e le passioni.
Se avesse soltanto la ragione senza le passioni…
Se avesse soltanto le passioni senza la ragione…
Ma, poiché ha l'una e le alte, non può stare senza guerra, non potendo aver pace con l'una se non è in guerra con le altre; e così è sempre diviso e in conflitto con se medesimo.
389. Questa guerra interiore della ragione contro le passioni ha fatto sì che coloro che hanno voluti la pace s sono divisi in due sete. Gli uni hanno voluto rinunciare alle passioni, e diventare dèi; gli altri hanno voluto rinunciare alla ragione, e diventare bruti: Des Bareaux. Ma non ci sono riusciti né gli uni né gli altri: la ragione sussiste pur sempre, e denuncia la bassezza e l'ingiustizia delle passioni, turbando il sonno di coloro  che ci si abbandonano; e le passioni son sempre vive in cloro che vogliono rinunciarvi.
390. la natura dell'uomo si può considerare in due maniere:  o secondo il suo fine, e allora essa è grande e incomparabile,  o secondo la generalità dei casi, come si giudica la natura del cavallo e del cane, secondo la considerazione più comune, scorgendovi l'attitudine ala corsa "et animum arcendi" [cioè la tendenza ad allontanare, ossia l'aggressività, caratteristica dei cani da guardia, e allora l'uomo è abietto e vile. Ecco le due vie che conducono a giudicare in modo differente di lui e che fanno tanto disputare  filosofi. L'uno nega, infatti, il presupposto dell'altro, e dice: "Non è nato per quel fine, perché tutte le sue azioni vi ripugnano"; l'altro dice: "Allorché esso compie quelle basse azioni, si allontana dal suo fine."
391. Contraddizioni. L'uomo è naturalmente credulo, incredulo, timido, temerario.
392. "Ferox gens, nullam  esse vitam sine armis rati" [Tito Livio: "Stirpe fiera e bellicosa, stima che senza le armi non ci potesse esser vita"]. Preferiscono la morte alla pace; gli altri preferiscono la morte alla guerra.
393. Contraddizione; disprezzo per il nostro essere, morire per nulla, odio per il nostro essere.
394. Descrizione dell'uomo: dipendenza, desiderio d'indipendenza, bisogno.
395. bassezza dell'uomo, sino a sottomettersi alle bestie, sino ad adorarle.
396. Contraddizione. Orgoglio, che fa da contrappeso a tutte le sue miserie. Esso o nasconde le proprie miserie o, se le lascia scorgere, si fa vanto di conoscerle.
397. L'orgoglio controbilancia e annulla tutte le miserie. Ecco un mostro ben singolare e un traviamento ben visibile! Eccolo caduto dalla sua condizione: esso la cerca con inquietudine. È quel che fanno tutti gli uomini. Vediamo chi l'avrà trovata.
398. Debolezza. Tutte le attività degli uomini sono volte all'acquisto del bene. Eppure, essi non potrebbero mostrare i titoli che ne giustifichino il possesso, poiché non hanno se non il loro capriccio né hanno la forza per possederlo in maniera sicura. Lo stesso dicasi della scienza, che la malattia ci può togliere. Noi siamo incapaci e di vero e di bene.
399. Contraddizioni. Dopo aver mostrato la bassezza e la grandezza dell'uomo. E orsa l'uomo si stimi al suo giusto valore. Ami se stesso, perché ha in sé una natura capace di bene; ma non ami, per questo, le proprie bassezze. Si disprezzi, perché tale capacità è vuota; ma non disprezzi perciò questa capacità naturale. Si odi, si ami: ha in sé la capacità di conoscere la verità e di essere felice, ma non possiede nessuna verità che sia certa o soddisfacente.
Vorrei, dunque, condur l'uomo a desiderare di trovarne e a esser pronto e libero dalle passioni per seguirla dovunque la troverà, ben sapendo quanto la sua conoscenza sia oscurata dalle passioni. Vorrei altresì che odiasse in sé la concupiscenza cui è asservito, affinché essa non lo acciechi quando farà la sua scelta, né lo trattenga quando avrà scelto.
400. È pericoloso mostrar troppo all'uomo quant'è simile ai bruti senza mostrargli insieme la sua grandezza. Egualmente pericoloso è fargli troppo vedere la sua grandezza, senza mostrargli la sua bassezza. Più pericoloso ancora, lasciargli ignorare l'una e l'altra. Giova assai, invece, mettergli sotto gli occhi sia l'una sia l'altra.
È bene che l'uomo non si creda eguale né agli angeli né ai bruti, e che non ignori né l'una cosa né l'altra, ma che le conosca entrambe.
401. Biasimo egualmente e coloro che prendono il partito di lodare l'uomo e coloro che si danno a biasimarlo e coloro che lo consigliano di distrarsi; e posso approvare soltanto cloro che cercano gemendo.
402. Io non tollererò che esso si riposi né nell'uno né nell'altro, affinché, essendo senza stabilità e senza riposo…
403. Se esso si esalta, lo deprimo; se si abbassa, lo esalto, e sempre lo contraddico, finché non comprenda che è un mostro incomprensibile.»

Così pensava Blaise Pascal, uno dei più grandi spiriti del XVII secolo; anzi, uno dei più grandi spiriti di ogni tempo.
Non era un fideista ignorante; era uno scienziato di prim'ordine: un uomo che a dodici anni, con aste e cerchi, creò la matematica; che, a sedici anni, scrisse il più esauriente trattato sulle coniche, dai tempi dei Greci in poi; e che a diciannove anni ideò una macchina per condensare una nuova scienza, creata interamente dall'intelletto umano.
Se le premesse del suo ragionamento sono esatte - ed è cosa ardua dimostrare che non lo siano -, allora non vi è che una conclusione possibile: così come l'essere dell'uomo trova la sua ragione e la sua causa fuori di lui, ugualmente accade per tutti gli altri enti; la loro causa e la loro origine vanno ricercate fuori di essi.
Dove?
Evidentemente, in quell'Essere che non soltanto sussiste ontologicamente, in sé completo e perfetto; ma che, attraverso un movimento inconcepibile per delle menti finite, ha voluto donare la partecipazione al proprio essere a tutti gli enti che compongono l'esistente.
In altre parole, in quell'Essere il quale ha voluto che, al posto del nulla, vi fosse qualcosa: vi fossero gli enti, vi fossimo noi; e vi fosse questa nostra ardente brama di sapere, di superare il limite, di tornare a quella perfetta pienezza dalla quale siamo scaturiti.