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Iran. Where is your brain?

di Gianni Petrosillo - 18/06/2009

 

 

Quello che sta accadendo in Iran è molto grave e potrebbe avere serie conseguenze per l’indipendenza di questo paese e per gli assetti geopolitici dell’area medio-orientale, con anche pesanti ripercussioni nella trama di rapporti che tale nazione ha intessuto, in questi anni, con altre potenze emergenti (vedi la Russia). Ma prima di addentrarci nei fatti dobbiamo commentare una notizia riportata dall’Ansa ieri.

A Venezia, un gruppo di attivisti dei centri sociali (i soliti smidollati che tra una canna e l’altra giocano a fare i rivoluzionari di professione) ha occupato per un’ora (dopodiché avranno ripreso la ricreazione a base di oppio e di hashish) il padiglione iraniano della Biennale d’arte di Venezia al fine di esprimere solidarietà al popolo iraniano. 

I debosciati socialimbecilli dei centri sociali hanno voluto così contestare la “terribile violenza dispiegata dal 'regime' di Ahmadinejad nel reprimere le proteste di questi giorni''.

Le scimmie antropomorfe dell’esercito di liberazione metropolitano dei fancazzisti (SAELMF) si sono poi arrampicate sui balconi del palazzetto che ospita l’Iran, in campo San Samuele, e qui hanno sostituito l’insegna d’ingresso con un lenzuolo dove era scritto: ''Freedom for Iran now''.

Lo slogan, in inglese, la dice lunga sull’intelligenza di questi primati che utilizzano la lingua imperiale per esprimere il loro insensato e servile dissenso, così come la dice lunga sulla natura delle contestazioni che stanno avvenendo in Iran in questi giorni, laddove “folle oceaniche” di prezzolati contestatori scrivono sui loro cartelloni, in perfetto farsi: Where is my vote? Tutto ciò dovrebbe far aprire gli occhi sulla reale consistenza delle proteste in atto e sul sentimento patriottico che le anima. La stampa internazionale amplifica la portata dell’indignazione "popolare" iraniana, alimentando nella pubblica opinione di tutto il mondo l’idea dei brogli elettorali e della rete dei "cacicchi" di regime che avrebbero pilotato le elezioni a favore di Amadinejad. Eppure, l’atteggiamento di Moussavi, che ad urne ancora aperte aveva già proclamato la vittoria del suo partito e la differenza abissale di voti tra i due contendenti a spogli avvenuti (si parla di circa 10 milioni di voti di distacco, a favore del Presidente in carica), nonchè la preparazione con la quale i seguaci dell’opposizione si erano subito mossi (qualcuno li aveva istruiti a dovere?) avrebbe dovuto instillare, nelle persone di buon senso, per lo meno il germe del sospetto. Ma il buon senso è ormai una merce unica quanto rara e non alberga nemmeno più in quella sinistra estrema che, in altri tempi, era stata in grado di prendere posizioni meno supine all’imperialismo americano. Anche sul Manifesto, quotidiano pretenziosamente comunista, non si fa altro che dar voce, al pari di tutta la stampa capitalista filo-americana e filo-sionista, ai dissenzienti e fuoriusciti del regime, vagheggiando inoltre, con stolta eccitazione giornalistica, le enormi opportunità dischiuse da questa protesta popolare, la quale dovrebbe infine aprire delle brecce nel regime degli Ayatollah per l’avvio di una nuova fase di democratizzazione. Ma dire democratizzazione oggi significa esprimere ben altro concetto: quello di riallineamento alla prepotenza americana, a costo di una più pesante subordinazione dei popoli.

Stando così le cose, mi auguro una repressione molto forte nei confronti di chi è sceso in piazza, in quanto tale tentativo di destabilizzazione l’Iran potrebbe provocare una più sanguinosa guerra civile, con sacrifico in vite umane moltiplicato. Ed auspico lo stesso trattamento per quei giovinastri in kefia e basco guevariano che, presi nella propaganda imperiale, hanno completamente smarrito il senso della politica e dei rapporti di forza in questo instabile mondo multipolare. Chissà che qualche botta in testa non li riporti alla ragione.

Onestamente, sono un po’ sorpreso dalla reazione blanda dell’establishment iraniano al quale sembra che la situazione stia un po’ sfuggendo di mano. Esiste, evidentemente, una lotta intestina ai livelli più alti della Vecchia Guardia Rivoluzionaria che rende gli schieramenti in conflitto abbastanza fluidi e non ben definiti. L’Ayatollah Khameney, pur appoggiando Amadinejad, teme un eccessivo rafforzamento di costui che ha, tuttavia, dalla sua parte i pasdaran, l’apparato di intelligence, le milizie volontarie bassiji e tutto l’esercito. Ma in questa fase, se non vuol essere travolto dai suoi avversari, con a capo il padrino della “mafia del petrolio” Rafsnjani, Khameney dovrà mettere da parte le sue indecisioni ed agire concordemente col presidente.

Quella che viene definita "l’opposizione al regime" è, invece, un coacervo di uomini corrotti che già in passato ha dimostrato la propria pasta e l’intenzione di riavvicinarsi agli Stati Uniti, con i quali condivide alcune idee sugli approvvigionamenti energetici. Queste bande di traditori vengono descritte dalla stampa internazionale come campioni di moderazione e di modernità, a dimostrazione del fatto che per l’occidente esiste un solo principio discriminate per ottenere la patente di paese democratico:  la manifesta subordinazione alla egemonia statunitense. Si capisce così ancor meglio la natura dei messaggi serpenteschi che Obama aveva inviato, negli scorsi mesi, all’Iran e quali erano i veri destinatari di tali aperture. Le elezioni dovevano costituire un utile banco di prova (soprattutto se, com’era prevedibile, non fossero andate come sperato dagli americani) per vagliare la reale stabilità del regime e per dare avvio a moti di piazza,  anticipatori di una futura rivoluzione di velluto.

I conti sono presto fatti e diventano così anche meno oscure le ragioni che avevano spinto a perorare, da parte americana, una distensione delle relazioni tra i due paesi, proprio nei mesi precedenti alle elezioni. Dietro c'erano nobili scopi, come al solito.

Ad esempio, come dimenticare le parole di Richard Morningstar ex ambasciatore americano presso l’UE ed ex rappresentante speciale dell’amministrazione statunitense nella regione del Caspio, il quale aveva parlato, in una conferenza a Sofia, dell’Iran come possibile fornitore di gas per il progetto Nabucco (dopo che l’Azerbaigian si era riavvicinato a Mosca firmando un contratto con questa per rifornire di gas azero i gasdotti russi, allontanandosi così dal progetto americano)? Quindi, senza un altro partner con abbondanti riserve di gas, il progetto Nabucco sarebbe stato definitivamente seppellito. Gli Usa vorrebbero, a questo punto, accelerare il "regime change" in Iran, perché dal ripristino di un certo ordine in questa area dipende la buona riuscita di altre mosse con le quali verrà sbarrata la strada ai principali contendenti geopolitici della fase, ovvero Russia e Cina. Tutto ciò è sempre molto democratico e modernizzante...