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Quando la realtà ordinaria ruota sui cardini e si spalancano nuovi cieli e terre nuove

di Francesco Lamendola - 04/08/2009


 

Ad Antonio Marcianò, con stima.

Talvolta accade come per caso: ma noi sappiamo che non è affatto un caso; anche perché nulla lo è, ad un livello profondo.
«Caso» è il nome che siamo soliti dare a ciò che si sottrae al nostro sguardo ordinario, ossia superficiale; ma la realtà vera è sempre, nella sua essenza, straordinaria: e le parole del linguaggio ordinario sono inadeguate per descriverla.
Dunque, talvolta sembra che accada per caso: ma la verità è che accade solo dopo che un lungo cammino è stato percorso; un cammino arduo e solitario, tutto in salita, con frequenti cadute e con numerosi momenti di angoscia, di tenebra, di disperazione.
E poi, d'improvviso, accade.
Accade che la realtà ordinaria incomincia a ruotare sui cardini, come un portone di legno massiccio; e che, al là di essa, noi vediamo spalancarsi tutto un altro orizzonte, misterioso, ineffabile, sublime; vediamo nuovi cieli e terre nuove, e la nostra anima ne è turbata e commossa, fino quasi alle lacrime.
Di colpo, dove ci pareva di essere giunti a un punto morto, ogni cosa si anima e riprende movimento; dove non riuscivamo a scorgere null'altro che muri lisci e solide pareti, si aprono nuove e meravigliose  prospettive; dove eravamo certi di aver esaurito fin l'ultima scintilla di energia, di speranza, di coraggio, sentiamo le nostre forze raddoppiare, decuplicare, centuplicare.
Non si sa come, tuttavia accade.
E la cosa più sorprendente, più esaltante, è che questa rinnovata capacità di vedere, di sentire, di capire, questo sovrumano moltiplicarsi delle forze, questa ondata di fiducia e di lucidità, sentiamo che non provengono da noi, anche se noi ne siamo stati il catalizzatore e il primo diretto beneficiario (ma, indirettamente, ne beneficano anche molte altre persone); sentiamo che provengono dall'alto e che pervadono tutto il nostro essere.
Per i cristiani è la grazia; per certe dottrine mistiche, è il disvelamento; per gli antichi Greci, infine, era il «kairós», ossia il tempo ineffabile e qualitativo, mentre «chronos» non era che il tempo ordinario e qualitativo, il tempo della storia e degli eventi umani.
«Kairós», pertanto, era il tempo che si cela nelle pieghe del tempo; era il tempo degli dei, quando il tempo ordinario rimane come sospeso, in attesa, e qualunque cosa può accadere: una modalità di percepire il reale, quest'ultima, che, come abbiamo tentato di esporre in diversi precedenti lavori, nella società odierna si conserva quasi solo nella prima infanzia, quando non è stato  ancora sommerso dal cosiddetto «buon senso» del Logos strumentale e calcolante, proprio dell'età adulta nelle società radicalmente secolarizzate (cfr., in particolare, quelli intitolati «Le visioni dei bambini, finestra aperta su una dimensione "altra"»; e «Dobbiamo recuperare una percezione qualitativa del mondo, come nell'infanzia», consultabili sul sito di Arianna Editrice).
Quando il tempo ordinario è sospeso e subentra il «kairós», l'esperienza che l'anima sta per vivere è, per definizione, inesprimibile: non esistono parole, non esistono concetti per comunicarla adeguatamente. È possibile solo sperimentarla; nessuna descrizione di seconda mano potrebbe mai rendere un'idea della sua infinita ricchezza, della sua bellezza sconvolgente, della sua impareggiabile fastosità e profondità.
Dunque, dicevamo: una forza che opera in noi, ma che scende dall'alto.
Non sta in noi produrla, non è in nostra facoltà evocarla; noi posiamo chiederla, mai pretenderla; e, soprattutto, possiamo accoglierla.
Vi sono alcuni che, pur chiedendola, non la ottengono; ed altri che la ottengono senza averla chiesta, ma tuttavia dopo averla cercata inconsapevolmente, con tutte le proprie forze e con tutto il proprio ardore.
È solo grazie ad essa che l'anima riesce a compiere il salto qualitativo nei regni superiori dell'esistenza; che noi riusciamo a divenire, almeno in parte, degli esseri spirituali, e a liberarci degli aspetti più grossolani e limitanti della nostra materialità.
Essa è il premio dei nostri sforzi, ma non è un premio automatico, non è qualcosa di dovuto; potremmo riceverla, invece, quando meno ce ne riteniamo degni: perché solo chi afferra e riconosce tutta la piccolezza della nostra misura ordinaria, merita, forse, di accedere alla dimensione superiore, ove la benda cade giù dagli occhi e si apre la seconda vista, che rende percepibili le cose nascoste ai sensi comuni.

*  *  *
Voi sono delle notti d'estate, tiepide e profumate, nelle quali le ombre sussurrano e la luce della Luna si diffonde diafana, immergendo ogni cosa in una magica atmosfera; un'atmosfera quasi soprannaturale.
Ed ecco, sul muro bianco si stampa l'ombra dell'acacia; le sue foglioline tremano e sussurrano nel vento della notte, sagoma scura che ricorda un gioco delle ombre cinesi, sulla candida parete che pare fatta apposta per accoglierla.
È strano: l'albero si trova molto distante; ma un gioco di luci e di riflessi, forse originato dai lampioni della strada, fa sì che quelle fronde agitate dalla brezza si proiettino sul muro bianco con tutta evidenza, ingigantite rispetto alle dimensioni reali; e che tremolino e si agitino come se una mano invisibile le stesse carezzando; come se un potente incantatore avesse ideato e messo in scena solo per noi questo spettacolo fastoso e commovente.
Fissando quella sagoma nera di un essere vivo e respirante nella notte, magari dopo una lunga, estenuante giornata fatta di preoccupazioni, tensioni e dispiaceri, la mente si rilassa e si trova come presa, affascinata da quel potente chiaroscuro, da quelle piccole foglie che vibrano contro la chiarità verginale del muro illuminato dalla Luna.
Poi, di colpo, quella sagoma scura che ondeggia sullo strato di calce smette di essere l'effetto di un semplice gioco di superfici, un gioco senza consistenza; e acquista lo spessore di una realtà tridimensionale.
Non è più un disegno, ma un corpo; non più una superficie, ma l'ingresso ad una realtà altra, profonda, dall'esistenza insospettabile.
Sì: concentrando lo sguardo su quelle mobili fronde scure proiettate sulla casa, l'occhio della mente incomincia a vederle per ciò che in realtà sono: non una illusione dei sensi, ma la porta d'accesso ad un regno nascosto e misterioso, che vive accanto alla realtà di tutti i giorni, senza che noi ne sospettiamo neppure l'esistenza.
Invece, esso esiste; esso vive; e, a determinate condizioni, può svelare la sua funzione di via d'accesso iniziatica, di occasione per il disvelamento.
Quando noi arriviamo a percepirne l'esistenza, allora riusciamo a emanciparci da molte credenze illusorie, e a guardare le cose per ciò che in realtà sono: una realtà unica, saldamente interrelata, ove tutto si lega con tutto, ogni cosa si tiene con l'altra.
Alice che penetra, attraverso lo specchio, in un regno meraviglioso, dove l'impossibile diventa possibile e dove l'irreale diviene reale, non è che una metafora poetica per indicare questa rivelazione, questo disvelamento, questo sopraggiungere improvviso del «kairós», come un ladro nella notte, nel bel mezzo di «chronos», il tempo storico, ordinario, proprio della dimensione quotidiana dell'esistenza.
L'insegnamento che si può ricavare da tutto ciò è che le cose - le cose opache, le cose inerti, le cose finite - divengono tutt'altra cosa, se guardate con la vista straordinaria del terzo occhio: diventano delle porte e delle finestre spalancate sulla realtà vera del mondo.
I bambini lo sanno, non per ragionamento, ma istintivamente.
È per questo che un giocattolo, nelle loro mani, è molto di più che un oggetto puramente materiale, fabbricato in serie e che possiede un certo prezzo di mercato; oh, loro sanno che si tratta di qualcosa di molto più sottile, di molto più complesso.
Un giocattolo, nelle mani di un bambino, è niente di meno che la bacchetta magica per accedere a un altro piano di realtà: la porta magica per mezzo della quale i desideri, i sogni, le fantasie più accese, divengono realtà viva e operante.
Per questo, dovremmo imparare dai bambini: loro sanno, d'istinto, tante cose, che noi abbiamo scordato, inseguendo il miraggio di una conoscenza obiettiva ed imparziale, capace di rendere conto di tutti gli aspetti quantitativi della realtà, e, magari, di riprodurli a piacere.
Ma le cose che contano, le cose profonde, non si possono mai descrivere in modo obiettivo ed imparziale; e meno ancora si possono riprodurre come esperimenti di laboratorio.

*  *  *
L'esperienza del disvelamento è una delle più intense e profonde che sia dato di vivere ad un essere umano.
Essa è, anzi, l'esperienza più intima, più vera, più toccante di tutte: l'esperienza umana per eccellenza.
Essere veramente uomini, assolvere al dovere di realizzare la natura umana, significa lottare per giungere almeno alle soglie di questa realtà altra; significa essere in grado di gettare almeno uno sguardo, per quanto fugace, verso quello che sta oltre.
Chi non abbia intravisto, almeno una volta nella vita, quei nuovi cieli e quelle terre nuove, rimarrà per sempre come un bambino, e questa volta nel significato ordinario del termine: come una creatura, cioè, che nemmeno sospetta tutta la bellezza, tuta la vastità e tutta la profondità del mondo di cui siamo parte.
Vi sono diverse circostanze che possono favorire tale sublime esperienza; una delle quali, apprezzata da certe scuole filosofiche orientali, ma spesso fraintesa e, comunque, sopravvalutata dalla cultura occidentale moderna, è l'estasi sessuale.
Ad ogni modo, il raggiungimento del disvelamento non è una questione di «tecnica»; fa sorridere il fatto che si siano scritti tanti libri ed articoli per illustrare i supposti vantaggi pratici di un simile punto di vista. Se si trattasse di una questione di carattere tecnico, chiunque potrebbe raggiungere il risultato desiderato, semplicemente dedicandovi un certo numero di ore di preparazione.
Tale, ad esempio, è il grande equivoco che si è creato, in Occidente, intorno allo Yoga: che, prima di essere una pratica, è una filosofia; e che non ha nulla a che fare, se rettamente inteso, con una mera conoscenza di posizioni e di esercizi fisici.
No: il disvelamento è una esperienza che si può paragonare, già lo abbiamo detto, alla discesa della grazia nell'anima umana: e la grazie è un evento soprannaturale, non un fatto naturale; non è, pertanto, in potere dell'uomo.
L'«homo sapiens», l'«homo faber»si è scordato di essere, anche e innanzitutto, «homo religiosus»: ritiene di poter bastare a se stesso, di essere arbitro del proprio destino e artefice della propria fortuna. E ha perso l'uso della seconda vista.
Questo, dunque, è il primo passo che l'anima deve fare, per mettersi in condizioni di poter ricevere il dono dall'alto, il dono della forza benefica che pervade l'universo e che sostiene, conforta, incoraggia, coloro i quali si pongono in atteggiamento di umiltà e di tenace perseguimento della propria chiarificazione interiore.
Per essi, prima o poi, verrà il momento della rivelazione, il momento della grazia, se sapranno procedere senza lasciarsi tentare dalle lusinghe dei beni materiali, del successo e del potere.
E si offrirà loro, incomparabile, lo spettacolo della realtà altra, dietro il velo delle mere apparenze.