Si torna a parlare di schiaffi nell’educazione. L’occasione è l’iniziativa di un nuovo referendum, in Nuova Zelanda, per abrogare quello di due anni fa che aveva appunto proibito le botte. Ci si chiede se sia sensato mettere in forse il divieto di punizioni corporali verso i minori. È questo un terreno sul quale l’esperienza psicoterapeutica ha però qualcosa da dire. Le storie che raccontano i pazienti sono infatti più sfaccettate della naturale ripugnanza verso la violenza ai bambini.
Sono molte, infatti, le persone che raccontano di rapporti coi genitori dove l’ultima parola era sempre lo schiaffo (o peggio). Quando in queste punizioni c’era compiacimento da parte dei grandi, le ferite sono rimaste sull’anima di chi le ha ricevute.

La conseguenza più grave e frequente è probabilmente questa: chi subisce da piccolo atti di sadismo, presentati come giusta conseguenza di qualche trasgressione, finisce spesso col capovolgere il proprio rapporto col piacere. Capita allora che da grande sia spinto a ricercare attraverso la punizione quel godimento che provava il genitore che lo castigava «per il suo bene», e che il bambino inconsciamente intuiva (e a cui partecipava). Come si vede, si tratta di un danno psicologico e affettivo piuttosto grave, e non semplice da trasformare.
Dalle storie di chi soffre emerge però anche un’altra realtà. Spesso il bambino ha vissuto come crudele e violento non lo schiaffo, ma la freddezza, non l’aggressività fisica, ma la distanza. Una delle prime intuizioni della psicoanalisi, del resto, fu proprio la constatazione che nell’aggressività c’è anche uno slancio affettivo, un «andare verso l’altro» che è parte integrante dell’esperienza dell’amore. Da allora, l’esperienza clinica, in tutto il mondo, ha confermato che un’educazione distante e compassata è vissuta come molto più crudele dell’altra, magari troppo gridata e incontinente. I film di Ingmar Bergman (come la gran parte della produzione artistica del Nord Europa), descrivono perfettamente siffatte situazioni.
Questi risultati dell’osservazione psicologica non sono, in fondo, sorprendenti. La prima esigenza del bambino è infatti quella di ricevere amore, attenzione, calore. Non ha poi tanta importanza che questo venga offerto in modo educato, corretto, oppure emotivamente sovrabbondante. Il fatto decisivo è che l’amore ci sia.
La distanza fisica, la freddezza emotiva, la voce che non si alza, la mano che non tocca, non stringe, e si tiene invece alla larga, come tutto il corpo dell’adulto, è vissuta dal bambino come un rifiuto, un abbandono. Le conseguenze in questo caso possono essere ancora più gravi, ed arrivare fino alla scissione della personalità.
Tutto ciò spiega perché spesso l’ex bambino affettuosamente e frequentemente percosso non abbia un ricordo spiacevole di quell’esperienza, ma la consideri anzi una manifestazione di affetto e di attenzione preziosa, che è pronto a ripetere con i suoi propri figli.
Allora, che fare con i nostri figli? Scapaccioni o parole? Come al solito, non si può contrapporre ideologicamente l’uno all’altro. L’educazione è il luogo dello sviluppo affettivo, istintuale e cognitivo; la «non violenza» non c’entra, conta la crescita equilibrata della personalità del bambino. Che ha bisogno di affetto, manifestato anche col contatto fisico: carezza, ma anche scapaccione, se viene naturale, di slancio, accompagnato da un «ti voglio bene!».
Attenzione, poi a non voler spiegare tutto: un gesto affettivo, come la carezza (e lo scapaccione), è più eloquente di infiniti, e snervanti, discorsi. Gesto e parola vanno assieme.