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L’utopia della felicità pubblica. Comunità

di Caterina Resta - 26/03/2006

Fonte: geofilosofia.it


 


 


 

1. L’Isola di Utopia

Per comprendere il concetto di utopia, è preliminarmente necessario un approccio di tipo geofilosofico.

L’Utopia è un’Isola, circondata dal mare. Un’isola il cui carattere specifico è quello dell’isolamento. Proprio a causa di questo suo isolamento, essa potrà anche divenire il luogo più adatto alla sperimentazione, privo di contatto e di possibilità di contaminazione con il mondo esterno. Come in un asettico laboratorio, su quell’Isola che è Utopia si possono sperimentare i vari modelli di società perfetta.

Ora, però, non basta dire che l’Utopia è un’Isola, il cui isolamento la rende particolarmente idonea ad essere un laboratorio per la sperimentazione politica. Bisogna anche vedere come si vede quest’Isola, qual è lo sguardo che quest’Isola rivolge su se stessa. Poiché essa non è Luogo, ma Laboratorio, l’Isola non ha una fisionomia propria, non ha un paesaggio che la caratterizzi: il suo spazio è uniforme e anonimo, come la distesa di mare aperto che la circonda. Tabula rasa, lavagna sulla quale tutto deve ancora e può essere scritto, l’Isola dell’Utopia può essere compresa solo a partire da quell’infinita distesa di mare che la circonda, la cui uniformità ha preso a modello.

Non è un caso, infatti, se ‘Utopia’ fu la nuova parola coniata da Thomas More come titolo di un suo celebre scritto del 1516, proprio agli inizi dell’Età Moderna e di quella straordinaria rivoluzione spaziale causata dall’irresistibile richiamo degli oceani che condusse alla scoperta del Nuovo Mondo e alle prime circumnavigazioni del globo.

Come ha opportunamente fatto notare Carl Schmitt, nella nuova parola utopia

«si manifesta la possibilità di una immane negazione di tutte le localizzazioni sulle quali poggiava l’antico nomos della terra. Una simile parola sarebbe stata impensabile sulle labbra di un uomo dell’antichità. Utopia non significa infatti semplicemente non-luogo, Nowhere (o Erewhon), ma l’U-Topos per eccellenza, una negazione in confronto alla quale persino l’A-Topos possiede un legame più forte, pur nel negativo, con il Topos» (1).

Nel termine “utopia”, assunto prevalentemente nel significato di eu-topia, di un luogo non reale, ma immaginario, nel quale poter proiettare l’aspirazione ad una Città felice, il sogno di una società perfetta, Schmitt ci invita invece a percepire, in quella negazione del Luogo (“non-luogo”), non tanto la negazione della realtà a favore dell’immaginazione, quanto la drastica negazione di ciò che è Luogo, l’annichilimento stesso del Luogo (2). Per questa via, dunque, l’Isola Utopia è illocalizzabile solo perché frutto di quella radicale delocalizzazione [Entortung] che rende simile la sua terra a quel mare che da ogni parte la circonda, liberandola da ogni vincolo terraneo, da ogni ethos, come, persino, da ogni storia, e dunque da ogni nomos che al Luogo possa conferire Ordinamento. Utopia e nichilismo (3), dunque, si corrispondono esattamente in una medesima tabula rasa che, per la prima volta, alle soglie della Modernità, consegna all’uomo e alla sua volontà di potenza uno spazio omogeneo e vuoto, pre-disposto al suo progettare, calcolare, trasformare: il compito di una nuova creatio ex nihilo, «l’ossessione di un’altra terra» (4).

Proprio per questa ragione, oltre a quella geofilosofica, ma intrinsecamente legata ad essa, è necessario accostarsi a ciò che rappresenta l’Utopia anche da un punto di vista teologico.

Idea, come dicevamo, di una nuova creazione dal nulla, l’Utopia è dunque frutto di una concezione che può sorgere solo al tramonto del mondo medievale. Essa rappresenta la versione ormai secolarizzata della città di Dio, della Gerusalemme che dal cielo è approdata in terra: è il progetto di una realizzazione umana di quel Regno di Dio che la promessa cristiana non è riuscita a realizzare. Rivincita di Pelagio su Agostino, l’idea utopica di poter progettare, edificare e realizzare la felicità in terra – come ha acutamente segnalato Cioran nelle sue folgaranti pagine di Storia e Utopia – porta le tracce di un pelagianesimo inguaribile che, in forma secolarizzata, si allea ad un risorto titanismo. Pelagiana è infatti la convinzione di una natura incorrotta che non conosce il vulnus del peccato originale. Gli uomini nascono buoni e liberi, predestinati al Bene e perciò suscettibili di realizzarlo compiutamente già in questa terra, attraverso un processo di perfezionamento, materia plasmabile che presto scoprirà nelle infinite risorse della tecnica e nell’ideologia del progresso gli strumenti pratici e teorici per la propria illimitata autotrasformazione.

La parousia della Città felice è dunque ormai il risultato dell’opera dell’uomo che, naturalmente buono, non deve far altro che rimodellare il mondo a propria immagine e somiglianza, rettificando costantemente quanto potrebbe offuscare questa perfezione. Sarà il sogno anticristico
(5) del paradiso tecnologico.

Solo da queste premesse, che collocano il non-luogo utopico non in un genere letterario o in un vago ideale di un mondo migliore, ma all’inizio della Modernità, con il conseguente processo di delocalizzazione e di secolarizzazione che da essa prende avvio, solo da queste premesse – dicevo – è possibile, a mio avviso, comprendere non solo lo statuto dell’Utopia, ma anche la storia della sua parabola che si conclude con il grande fallimento delle Utopie moderne, proprio nell’atto della loro concreta attuazione, ed il conseguente proliferare di anti-utopie, o utopie negative, che annunciano non la realizzazione della felicità e del paradiso in terra, ma del più terrificante inferno. Come è stato detto: il «campo di concentramento della felicità»
(6).

Il sogno illuministico di una ragione umana in grado di progredire illimitatamente verso il meglio, il sogno di perfezionamento e di totale emancipazione dell’uomo, persino dal dolore e dalla morte, come dallo spazio e dal tempo, insomma dalla sua propria finitezza, lascia il passo all’incubo che, per primi, scrittori come Huxley o Orwell hanno prefigurato.

La promessa utopica di realizzare il regno della perfetta felicità ed armonia si rivela dunque – e lo ha ampiamente testimoniato la storia del secolo scorso – come la concreta e minuziosa edificazione di un perfetto inferno. L’utopia della Città felice si capovolge nell’anti-utopia del terrore totalitario. Né d’altra parte possono soccorrere le utopie “regressive”: esse rivelano molto chiaramente il loro carattere meramente reattivo e francamente reazionario, proprio perché collocano all’inizio ciò che l’utopia moderna “progressiva” collocava alla fine. L’ideologia del regresso non è che il contro movimento dell’ideologia del progresso e, come quest’ultima non era che escatologia secolarizzata, il voler tornare all’Inizio non è che nostalgia di un’Origine incorrotta, del Paradiso terrestre dal quale siamo stati scacciati e al quale si presuppone si possa far ritorno.

Movimento rivoluzionario sorto come critica dell’esistente e come ricerca del migliore dei mondi possibile, l’Utopia, inseguendo l’impossibile, cioè il miraggio della perfezione e dell’Illimite, finisce con il realizzare non il regno della felicità e della concordia, ma il mondo pianificato e omologante di un universo totalitario.

In tutta la letteratura utopistica la ricerca dello Stato perfetto conduce, infatti, alla costruzione di una grande Macchina, di un perfetto Ingranaggio, in virtù del quale la concordia sociale si trasforma in ferrea adeguazione delle parti al Tutto, con la conseguente omologazione e uniformazione di comportamenti e convinzioni. Ogni dissenso, ogni critica dell’esistente – da cui pure la spinta utopica era sorta – non può che sparire, giacché ogni difformità può far inceppare il buon funzionamento della Macchina e produrre disordine e conflitto, compromettendo il buon funzionamento dell’insieme. Regno del Bene Assoluto, emendato dal peccato, il regno utopico non può che combattere ad oltranza tutto ciò che, fuori o dentro di esso, lo contraddice. Dunque l’eresia è ciò che, dall’interno, minaccia ogni utopia e, proprio per questo, essa va estirpata sul nascere, rappresentando il pericolo supremo per l’ortodossia su cui ogni totalitarismo utopico si fonda. Di qui il carattere intrinsecamente autoritario e repressivo, l’unidimensionalità – per impiegare un termine di Marcuse – che necessariamente accompagna i progetti di realizzazione utopica. Anche per questo lo spazio dell’Utopia è quello dell’Isola, dell’Isolamento necessario affinché non si possa entrare in contatto con nessun Fuori, con nulla che, dall’esterno, possa minacciare e intaccare la perfezione di quest’Ordine tanto più violento e assoluto, quanto più astratto.

In questo spazio claustrofobico, chiuso come un recinto dal mare, si può essere felici solo a patto di una drastica rinuncia alla libertà e alla singolarità.

Città del Sole, nel regno utopico una luce abbagliante trafigge l’esistente: in esso non possono esservi né ombre, né crepuscoli, né, tantomeno, tenebre – non a caso l’Illuminismo ne sarà l’epoca d’oro. Illuminata a giorno, la notte viene scacciata per sempre dall’Isola di Utopia, così come tutto ciò che è occulto e segreto, dal momento che essa celebra il culto dell’evidenza e del manifesto. Proprio per questo non vi può essere distinzione tra pubblico e privato: il foro interiore, con la sua oscurità, potrebbe essere ricettacolo di dissenso e di resistenza, mentre solo l’assoluta trasparenza può garantire il concordare degli uni con gli altri, senza riserve.

Drastica reductio ad unum, Regno dell’Uno senza i molti, lo spazio di perfetta immanenza dell’Utopia tradisce il suo carattere totalitario. Ordine del meccanismo, la società utopica non realizza la felicità che promette: in essa i sentimenti dominanti sono la noia e il terrore. Volendo realizzare l’assolumente Nuovo, essa realizza, invece, il tedio dell’eterno ritorno dell’uguale; aspirando alla Pace perpetua, essa fomenta una guerra preventiva, permanente e senza scampo, dal momento che impone un controllo capillare e assoluto, cui nessuno può sfuggire. Il suo abitante ideale, infatti, è l’Automa e il suo tempo – fuori dalla Storia – l’Eterno presente. Infatti l’Utopia, con la sua «ossessione del definitivo»
(7), di un assetto stabile e di un ordine onnipervasivo, con l’idea del compimento e del raggiungimento del traguardo ultimo della Perfezione, in realtà proclama la fine del tempo e della storia. Trascrizione secolarizzata del Regno messianico, il regno utopico si colloca nell’eschaton, all’estremo limite di quel tempo escatologico che segna l’Avvento di una nuova Terra, seppure ormai priva di Cielo. Se la perfezione è raggiunta e l’ideale realizzato, come potrà ancora trascorrere il tempo, quale Novitas si dovrebbe ulteriormente annunciare? Per questo assolutamente statiche e senza storia, come senza apertura al Possibile, appaiono le costruzioni utopiche, nella realizzazione del loro ideale. Nessun evento potrebbe più accadervi, dal momento che il Possibile viene immobilizzato e la Storia appare chiusa definitivamente.

Da ciò si comprende, anche, come Utopia sia, in realtà, l’opposto di polis. Il luogo che infatti ou-topia nega è proprio lo spazio del Politico. Dal momento che il modello è quello tecnico del funzionamento dell’ingranaggio sociale, ecco che i conflitti non trovano una composizione politica, ma immediata risoluzione tecnica.

Spazio di una radicale spoliticizzazione, l’utopia, anche quando si ammanta di un’ideologia politica, in realtà rivela il suo presupposto nella teologia completamente secolarizzata della tecnica, in quanto progetto di auto-produzione di sé.

2. La comunità

L’utopia della felicità pubblica è soprattutto l’utopia della comunità, della com unione, del raccogliersi in Uno dei molti, di raggiungere la concordia cancellando le insanabili contraddizioni che abitano la città, attraverso la drastica riduzione allo Stesso.

Che sia immaginata come Meccanismo o come Organismo, l’idea della comunità rivela comunque, nel suo carattere di totale immanenza a se stessa, il suo presupposto totalitario e il sacrificio necessario delle differenze che essa comporta
(8).

La comunità che si realizza come la propria opera – per usare un’espressione di Jean-Luc Nancy – deve accomunare la molteplicità di cui si compone, fonderle e con fonderle in un Identico che sia proprio a tutti e di cui tutti si possono appropriare, cancellando così ogni differenza e alterità, riducendo a Uno la pluralità irricomponibile che la costituisce ed elevandola a unico Soggetto, che si appropria di sé. Ma, per far questo, essa deve radicalmente cancellare ogni differenza, in un infaticabile lavoro di riduzione dell’altro allo Stesso. Questa è l’opera della comunità ed il suo utopico, quanto totalitario, progetto.

Nell’appartenenza comunitaria ritorna, anche, l’istanza cristiana della comunione, l’idea di una koinonia che, realizzandosi in Cristo, unisce indissolubilmente in un unico corpo mistico i fratelli. Ma, proprio per il fatto di esserne la versione secolarizzata, la comunità fusionale abolisce anche quel riferimento alla trascendenza che impedisce alla comunità cristiana, nonostante tutto, di potersi chiudere in sé, lasciando comunque aperto, seppure nella verticalità, lo spazio per un’alterità irriducibile.

Dopo il crollo delle grandi ideologie comunitarie – nazionalsocialismo e comunismo – che ha provocato una scossa potente, l’idea che la comunità possa rappresentare il modello della realizzazione della felicità pubblica è lungi dall’essere tramontata. Anzi, nuovi fondamentalismi e nuovi comunitarismi si affacciano all’orizzonte, spesso in forma puramente reattiva rispetto al prevalere di logiche puramente individualistiche e solipsistiche. E tuttavia, solo uscendo da questa falsa alternativa, quella tra comunità e individualismo, è possibile avvicinarsi ad un’altra idea di legame sociale, il solo che, pur non promettendo alcuna felicità o concordia assolute o permanenti, tuttavia sia in grado di salvaguardare al tempo stesso la con divisione e la separazione, lasciando aperte le porte della polis alla venuta dell’altro, nel rispetto irrinunciabile di differenze che non devono essere cancellate, anche se chiamate a con esistere nel medesimo Luogo.

È solo a partire dal disastro della comunità e dall’abbandono definitivo di ogni Utopia, come pretesa di raggiungere la Perfezione, che il Politico potrà ripensare lo spazio della polis come luogo della composione – certo mai definitiva – del conflitto, in cui esistenze singolari si espongono nella loro radicale finitezza: spazio necessariamente aperto all’altro, alla sua irriducibile alterità che non consente nessuna chiusura immanentistica nel segno di una condivisione originaria che caratterizza le esistenze come con esistenze.

Contro l’utopica pretesa della perfezione, questo essere in comune ha come suo primo, fondamentale assunto quello del carattere infinitamente finito dell’esistenza, la quale è costantemente esposta all’altro. Essere finiti significa infatti non potersi in alcun modo appropriare di sé, non potersi chiamare “io”, se non a partire dall’altro. Che altri venga prima di me significa che non l’identità, ma il rapporto di o tra le alterità è quella differenza originaria che impedisce ogni risalimento all’Uno, all’Identico
(9). All’origine non l’Uno, ma la Relazione è ciò che costituisce ed istituisce le singolarità finite nell’esposizione dell’una all’altra. Per questo il concetto stesso di individuo appare del tutto fuorviante, mero illusorio risvolto del mito di una comunità intesa come con fusione di soggetti precedentemente separabili. Che il ‘con’ venga prima, significa piuttosto che all’inizio c’è la con divisione, il paradosso di un rapporto di separazione. La comunità delle esistenze finite, infinitamente esposte le une alle altre nella con parizione alla quale non saprebbero come sottrarsi, questa comunità non potrebbe chiudersi in sé in uno spazio d’immanenza, non potrebbe dire “noi”, se non al prezzo di tradire la propria essenza, che è quella di mancare sempre a se stessa nell’apertura infinita di un tra noi, che interpone una distanza ed una differenza, le quali alterano e impediscono ogni possibile riappropriazione di sé. Per questo nessuna com unione è integralmente realizzabile là dove la finitezza consegna le esistenze alla necessità di con esistere in una distanza incolmabile, al paradosso di una separazione che è al contempo rapporto. L’essere-in-comune si dà solo nella dissoluzione, nello slegamento, nell’intervallo, nell’interruzione, tanto che si potrebbe dire che questa singolare comunità, comunità dei singolari-plurali (10), possiamo coglierla solo nel momento del suo venir meno. Ma questo inevitabile mancare a se stessa, il fatto che il suo ‘proprio’ si riveli nella inappropriabilità di qualcosa di comune, non fa che esibire l’essere in comune delle esistenze, il loro essere già da sempre esposte all’alterità, la quale non è la loro comune essenza, ma il loro inevitabile e originario comparire le une alle altre.

Ma se la comunità non è che il nome della pluralità di esistenze finite infinitamente esposte le une alle altre, al contempo insieme e separate, se la comunità è sempre aperta da ciò che la interrompe, che ne impedisce la chiusura su di sé e la riappropriazione di sé, essa, allora, non è altro che l’accadere della co esistenza: dal momento che accade, essa non è un dato e neppure potremmo dire che cosa ‘è’: la comunità è un evento, è, precisamente, una comunità che viene, che avviene, è la comunità dell’evento dell’altro.

Se essa esibisce la dissimmetria e l’incomparabilità di quei singoli di cui si costituisce destituendosi, se mostra lo slegamento e la dissociazione che separano e impediscono drasticamente la con fusione, se, infine, è l’alterità molteplice delle esistenze singolari ed uniche che in essa con paiono, ciò tuttavia non significa che la disseminazione delle esistenze possa essere semplicemente pensata come la polverizzazione o la dispersione di piccole monadi, ciascuna differente e indipendente dall’altra. La pluralità singolare delle esistenze è, al contrario, il loro essere-in-comune, l’esposizione immancabile ed ineludibile dell’una all’altra, la differenza comune che si rivela non-indifferenza.

Si tratta, certo, di un paradosso quando affermiamo che, in questa comunità, la separazione diviene rapporto ed il rapporto è concepibile sempre solo come interruzione. La comunità degli altri è allora una comunità di estranei, ma non di indifferenti, poiché è la con divisione dell’alterità che li lega, differenziandoli, separandoli gli uni dagli altri. L’estraneo che li spartisce è la medesima estraneità che condividono. Non poter mai giungere a sé vorrà anche dire restare altri, per sé, come per altri, essere stranieri tra stranieri, mai davvero a-casa-propria. L’essere-con dell’in comune sarà allora un essere-con-l’altro nel senso di un essere-con-lo straniero
(11). La venuta dell’altro, se è dell’altro, deve infatti salvaguardarne l’alterità, evitando la riduzione allo Stesso. Per questo la comunità degli altri è la comunità degli stranieri, di coloro che non hanno niente in comune, poiché condividono l’improprietà dell’esistenza e, a causa di essa, sono esposti ad un fuori che impedisce ogni chiusura in sé, ogni compimento di sé.

Questi sono i paradossi cui va inevitabilmente incontro un essere-in-comune di singolarità irriducibili l’una all’altra, inaccomunabili, inassimilabili, non omologabili, eppure insieme, separate da una distanza che tuttavia non le allontana del tutto, ma anzi le attrae irresistibilmente le une alle altre.

Questa è, dunque, la domanda cruciale, cui l’Utopia non ha saputo dare risposta: è possibile, è pensabile essere-con-altri senza diventare gli stessi, senza diventare Uno? Ciò è possibile solo se l’essere in comune descrive lo spazio di identità sempre istituite e destituite a partire dall’altro, mai chiuse in sé, ma radicalmente aperte ad accogliere la venuta dell’altro. Accoglienza, ospitalità : non vi sono altre parole per nominare quel legame che slega, quella separazione che unisce, quell’inusitato rapporto che lascia essere differenti. L’ospitalità di cui parliamo, tuttavia, non è semplice esperienza dell’accoglienza, se non nel senso radicale per cui la precedenza dell’altro, il suo ontologico venir prima di me, ha il significato di un’ospitalità, di un’apertura senza riserve, di una estroversione che precede ogni a-casa, ogni possibile chiusura. L’ospitalità, dunque, precede la proprietà e ogni possibile appropriazione anche di sé: è quella originaria apertura che precede e impedisce ogni chiusura, rendendo semplicemente impossibile uno spazio di totale immanenza.

Accoglienza offerta all’altro prima di ogni etica, diritto o politica, prima persino di ogni libera decisione o volontà, lo spazio che si schiude è quello di una comunità degli ospiti, di coloro che ontologicamente sono, in quanto esistenti, aperti, esposti alla venuta dell’altro. Per questo la loro comunità è impossibile, poiché ogni altro ne impedisce la chiusura su di sé, dal momento che viene accolto in sé. Ma, d’altra parte, proprio per questo essa si offre come dono, un dono che si elargisce obbligando al di là di ogni possibile restituzione, perché dono dell’altro, dell’inappropriabile, di ciò che, non essendo proprio, ci espropria.

È ancora ‘politica’ l’idea di questa comunità dell’ospitalità incondizionata? Certo essa contrasta fortemente, mettendolo radicalmente in discussione, con il modello di quella comunità di amici e di nemici, la cui logica oppositiva ha costituito – come ha ben visto Schmitt – il paradigma del Politico giunto al suo compimento nell’Età moderna . Amici e nemici si fronteggiano per difendere fino alla morte il loro ‘proprio’, un’identità che solo nel confronto, e meglio ancora nello scontro, può delinearsi, marcando netti i confini tra soggettività contrapposte e identiche a sé. La logica dell’hostis, del nemico, ha come suo alter ego quella dell’amico, nella convinzione di poter, volta per volta, discriminare, decidere, separare gli uni dagli altri, affinché ciascuno possa trovare la propria identità e appartenenza in un essere comune appropriato. La logica paradossale dello hospes e dell’ospitalità è invece tutt’altra e scompagina queste rassicuranti partizioni, restituendole a tutta la loro indecidibilità. Niente hanno in comune esistenze singolari, salvo il loro stesso in comune, il con del loro essere le une con le altre, aperte, esposte le une alle altre. Ma quale politica potrà mai farsi carico di questa ‘strana’ comunità degli stranieri, fondata sulla filoxenia? Non appare ancora una volta utopico e persino ingenuo un simile pensiero? Eppure questa sarebbe l’unica politica in grado di corrispondere alla venuta al mondo di esistenze finite, l’unica capace di farsi carico dell’evento dell’altro e di decostruire fino in fondo quella politica – forse dovremmo dire La politica – fondata sull’archetipo del fratello-nemico, su questo forte richiamo biologistico al tema etnico della nascita, della natalità, della nazionalità, dell’omofilia come dell’autoctonia, e soprattutto dell’isonomia, cioè dell’uguaglianza, della simmetria e della reciprocità. Ospitalità, allora, non sarebbe una parola tra altre, da sostituire ad altre, ma il nome stesso di quest’altra comunità – la comunità degli altri – e di quest’altra politica, una politica aperta all’altro – anche all’altro di sé –, nella misura in cui altri non è né fratello-amico né fratello-nemico, ma, appunto, lo straniero, l’estraneo, il differente da accogliere. Ecco perché ospitalità potrebbe essere il nome più appropriato per quest’altra politica e per una democrazia a-venire, decretanto il definitivo tramonto della stagione delle utopie, come di qualsivoglia logica identitaria, che preveda l’esclusione dell’altro.

Note:
 

1. C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum Europaeum», tr. it. di E. Castrucci, Adelphi, Milano 1991, pp. 215-216. Per un approfondimento di questi temi mi permetto di rinviare a C. Resta, Stato mondiale o Nomos della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso, Pellicani, Roma 1999.
2. Su tema del Luogo e della de localizzazione causata dalle logiche nichilistiche mi sono soffermata, con riferimento al pensiero di Heidegger, in C. Resta, Il luogo e le vie. Geografie del pensiero in M. Heidegger, Angeli, Milano 1996 e Id., La Terra del mattino. Ethos, Logos e Physis nel pensiero di Martin Heidegger, Angeli, Milano 1998. Per una più ampia riflessione geofilosofica sul concetto di Luogo, anche il relazione a quello di “paesaggio”, il rimando d’obbligo è ai lavori di L. Bonesio, Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, Milano 20012 e Id., Oltre il paesaggio. I luoghi tra estetica e geofilosofia, Arianna, Casalecchio (Bo) 2002.
3. «Nella connessione esistente di utopia e nichilismo si può infatti vedere che solo una definitiva e radicale separazione tra ordinamento e localizzazione nello spazio può essere detta nichilismo in un senso storico specifico» (C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum Europaeum», cit., p. 53). Per una lettura in chiave geofilosofica dell’utopia, anche in riferimento al nichilismo e al processo di deterritorializzazione e delocalizzazione generato dalla “decisione” dell’Isola Inghilterra per il mare, sempre sul solco delle illuminanti analisi di Schmitt, cfr. M. Cacciari, L’Arcipelago, Adelphi, Milano 1997.
4. E.M. Cioran, Storia e utopia, a cura di M.A. Rigoni, Adelphi, Milano 1982, p. 103.
5. Tra gli altri, lo ha denunciato a più riprese, con la radicalità che gli è propria, Sergio Quinzio: «l’avanzamento della tecnica è quello che ci salva […]. La sua unicità, che ci fa ritenere lecito e necessario imporla a tutto il mondo, la rivela come l’ultima forma, definitivamente anticristica, assunta dal monoteismo, e anch’essa svuotata, ormai, di ogni originaria spinta redentiva» (S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano 1992, p. 82). Per una più approfondita riflessione sul carattere “totalitario” della tecnica, mi permetto di rinviare a C. Resta, Heidegger e il tecnototalitarismo planetario, in AA. VV., Heidegger e gli orizzonti della filosofia pratica. Etica, estetica, politica, religione, a cura di A. Ardovino, Guerini e Associati, Milano 2003.
6. M. Baldini, I “Nemici” dell’utopia, in AA. VV., L’Utopia, Edizioni G.B.M., Messina 1984.
7. E.M. Cioran, Storia e utopia, cit., p. 129.
8. Sul carattere di immanenza – e dunque totalitario” – di ogni idea di comunità ha efficacemente posto l’accento J.-L. Nancy, La comunità inoperosa, tr. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 1992; ma cfr, anche R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998.
9. Questa precedenza dell’Altro, com’è noto, è al centro di tutta la riflessione di Emmanuel Lévinas.
10. Cfr. J.-L. Nancy, Essere singolare plurale, tr. it. di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2001.
11. Di questa “comunità degli stranieri” ha parlato M. Cacciari nelle ultime pagine di L’Arcipelago, cit.
12. Il tema dell’ospitalità è al centro della più recente produzione di J. Derrida, di cui si veda soprattutto: J. Derrida, Politiche dell’amicizia, tr. it. di G. Chiurazzi, Cortina, Milano 1995; Id., Sull’ospitalità. Le riflessioni di uno dei massimi filosofi contemporanei sulle società multietniche, tr. it. di I. Landolfi, Baldini & Castoldi, Milano 2000; Id., Addio a Emmanuel Lévinas, tr. it. di S. Petrosino e M. Odorici, Jaca Book, Milano 1998. Per una più ampia trattazione di questi temi presenti nel pensiero dell’ultimo Derrida, rinvio a C. Resta, L’evento dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Per una più specifica analisi dell’idea di una comunità pensata a partire dall’ospitalità rimando a C. Resta, Comunità e ospitalità, “Oltrecorrente”, 6, 2002, pp. 103-116.
13. Cfr. C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’ (1932), in Le categorie del ‘politico’. Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio e di P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972. Il paradigma amico-nemico, così lucidamente riconosciuto da Schmitt a fondamento del politico, andrebbe, da questo punto di vista, rimesso in discussione, come espressione di un concetto di politica che parte dal presupposto di una logica dialettica e identitaria.
14. Sul rapporto hostis-hospes si rimanda alle fondamentali pagine di E. Benveniste, voce L’ospitalità, in Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, a cura di M. Liborio, Einaudi, Torino 1976, I, pp. 64-75.