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Elogio dell'ascolto profondo

di Giuseppe Gorlani - 05/10/2009

Che l'uomo occidentale moderno viva in condizioni alienate è generalmente e superficialmente riconosciuto. In tempi in cui tutto viene ridotto a moda e a consumo, anche il contestare, la volontà di evadere dalla prigione, il ricercare autenticità e verità non fanno eccezione: tali istanze, debitamente banalizzate, vengono assimilate nell'intruglio ipnotizzante che oggi i mass media propongono – o meglio, impongono – come cultura. Per esempio, il movimento degli hippie, che in sé conteneva una forte carica di purificazione dall'ipocrisia e di aspirazione alla Realtà, è stato fatto passare per una mera questione di capelli, vestiti, droghe o politica utopistica di bassa lega e in tal modo reso insignificante. Non a caso, nella celebre summer of love del '68, a San Francisco, gli hippie celebrarono il proprio funerale, rigettando l'etichetta che l'establishment imponeva loro. Essi, avendo preso coscienza di essere già stati ridotti a merce, diedero il via ad una silenziosa diaspora, invisibile agli occhi degli ottenebrati che pretendono di possedere il segreto del mondo e del cuore umano.
Oggi, dunque, tra le numerose tendenze di cui si cibano le masse, spicca il conformismo dell'anticonformismo: il lamento reiterato viene accettato e persino incoraggiato purché l’Intelligenza resti negletta, e non si risvegli l’uomo nobile, il solo capace di estirpare alle radici il “male di vivere”. In ambito “alternativo”, la propria appartenenza al movimento ecologico di sinistra o alla visione New Age viene sbandierata ai quattro venti, ma le strutture mentali negative del mondo che si pretende di contestare rimangono inalterate. Si parla di angeli, di ecologia, di olismo, di tecnologie ecocompatibili, invece che di telenovelas o di sport, si mangiano costosi cibi biologici invece che il solito scatolame inquinato, si ascoltano melodie melense mescolate a suoni della natura, sincretismi caotici di suoni etnici (world music) o persino bhajan e mantra hinduisti o buddhisti manipolati elettronicamente (trance), invece delle pretenziose canzonette di Sanremo o della più becera pop o disco music, ma la litigiosità, la vanità, l’infantile tendenza ad assolutizzare la propria opinione-doxa, e l'insopprimibile bisogno di rinchiudere l’Ineffabile in definizioni perdurano. Quanto sopra vale anche per certe correnti contestative di segno opposto.
Occorre dirlo apertis verbis: qualunque cieca immedesimazione, foss’anche nella bontà, nella giustizia o nella bellezza orizzontali, darà inevitabilmente la stura a guai di ogni genere. Il saggio sa che è indispensabile fondarsi sull’Insegnamento perenne, il quale invita a non identificarsi, a resistere, a restare liberi come la vita stessa; ciò non equivale ad abbassarsi alla pusillanimità di quelli che rifiutano le responsabilità che lo svadharma (il dharma soggettivo) esige. La Tradizione educa a combattere senza odiare, ad agire senza attaccamento – ovvero ad “agire senza agire” (wu-wei) –, ad «essere nel mondo ma non del mondo». «[L’Anima] è al di sopra della legge, / Ma non contro la legge»[1], scrive Margherita Porete, illuminata francese arsa sul rogo come eretica nel 1310, sintetizzando in poche parole la vera libertà spirituale. Del resto, se proprio volessimo porci con onestà di fronte a noi stessi, dovremmo ammettere che l'unica verità di cui si ha certezza è di essere l’Essere. In che cosa poi tale identità consista, non lo si può esprimere: alla ragione è dato soltanto indicare la Via, e non spiegarla. Folle è  pretendere di ridurre in schemi concettuali esaustivi il risveglio alla Realtà.
Da tali considerazioni si possono trarre alcuni spunti per tentare di comprendere lo stato dell’ascolto profondo. Vivere o ascoltare profondamente non vuol dire assumere atteggiamenti imitativi o cambiare semplicemente la scorza esterna, il vestito, bensì attingere al suono-voce-soffio innato che in noi permane (nella nullità abissale – abgrund, direbbe Eckhart – dell'individualità apparente) quando tutte le sovrastrutture, sedimentatesi karmicamente, sono state riconosciute, smascherate e risolte. La già citata Margherita Porete, nella sua opera Miroir des simples ames, nota: «Quest’Anima, dice Amore, non compie più opere né per Dio, né per sé, e neppure per il suo prossimo [...]; se vuole, le faccia Dio, che le può fare; e se lui non vuole, a lei non importa né dell’uno né dell’altro: essa è sempre in un unico stato». Le parole d’Amore, aggiunge, «sono difficili da capire per chi non sa intenderne il senso profondo»; gli «smarriti», le «pecore», le «bestie» sono quelli che lasciano il grano e prendono la paglia.[2] Immergersi nella profondità significa pertanto svuotarsi (kénosis) d’ogni presunzione ed attaccamento, rigettare le pretese dell’io individuale inesistente, e penetrare la sinderesi in ogni sua accezione. Ciò vale in tutti gli aspetti della vita e in tutti i campi del sapere o dell'arte, anche nella musica. Il suono che sgorga dal profondo non può essere còlto se la mente duale, elaborante senza soluzione di continuità le più svariate industriae ed accidentalità, occupa interamente il campo della coscienza.
Bisogna, innanzitutto, imparare a non assecondare il consueto ribollire di automatismi psicofisici, calmare i vortici (vritti) che agitano la sostanza mentale (citta), smascherandone la transitorietà, e rilassarsi. Questo sacrum facere implica un processo di chiarificazione, di autocontrollo inteso come svelamento di un tesoro, non come privazione, e di accurata autoconoscenza psicologica; le molte strade che lo caratterizzano – yoga, riflessione filosofica, studio, solitudine, meditazione, contemplazione della Bellezza, arte, ecc. – sono in realtà affluenti di un unico fiume, sfumature di un’unica Via, il Tao.
In pieno Kali-yuga, il sentiero stretto, in salita (apofatico) sembrerebbe percorribile con maggiori difficoltà rispetto al passato; ma probabilmente ciò non è del tutto vero: più larga è la schiena, più grande la faccia, recita un adagio popolare che Georges Ohsawa (Nyoiti Sakurazawa), il padre della Macrobiotica, menzionava spesso. In ogni caso, la vita quotidiana dell’uomo contemporaneo ha raggiunto un livello talmente parossistico di identificazione nella contingenza, da rendere oltremodo urgente sottrarsi al plagio di idee vuote quali “sviluppo”, “evoluzione” o “progresso”. In ambito musicale alcuni volenterosi continuano a percorrere la via della Conoscenza-Amore, sia creando musica propedeutica al silenzio, sia imparando ad ascoltare con la massima attenzione, dopo aver preparato le condizioni esteriori ed interiori adatte affinché l’essenza sovramondana dei suoni diventi intelligibile. Zolla, nel suo saggio Comprendere la liberazione in vita, ci offre un impeccabile elogio dello star desti: «La possibilità di definire l’attenzione pura come essere consustanziale alla coscienza di essere, rovescia nel non essere tutto ciò che attenzione pura non sia. Soltanto essa è. Ogni fatto, atto o persona che non sia assorto in attenzione pura non è, perché si proietta nel nulla...».[3] Buddha e Gesù esortano entrambi a vigilare, a passare svegli attraverso i cancelli del sonno-morte.
Secondo la Tradizione vedica, il suono più profondo e reale in assoluto è il Pranava, la sacra sillaba OM; essa è composta dai suoni-lettere A, U ed M indicanti, nell’essere individuale (jiva) come nell’essere universale (Ishvara), tre precisi stati di coscienza – veglia, sonno con sogni, sonno profondo senza sogni –, le tre qualità (guna) fondamentali del Principio manifestatore (tamas, rajas, sattva), e infine i tre corpi rivestenti l’Atman-Brahman: denso, sottile e causale. Tutti i suoni, i colori, le vibrazioni, i numeri, le idee sfociano nell'OM che a sua volta, nella nasalizzazione della “M”, sfuma nell'Ineffabile (Nir-guna = senza attributi).[4]
Il Penguin Dictionary of Indian Classical Music spiega: «Nella cosmologia indu, Om è quel suono che si crede pervadere il silenzio dell’universo. Rappresenta l’Assoluto ed è spesso chiamato nada-brahma. Se emesso dalla voce umana, riassume la totalità delle vibrazioni percepite dall’orecchio e dai sensi sottili dello spirito».
La dottrina di cui sopra, rintracciabile in diverse formulazioni presso tutte le Tradizioni, è stata compresa da alcuni compositori contemporanei i quali, mettendo a frutto, tra l’altro, le esperienze psichedeliche e spirituali degli anni Sessanta e Settanta, hanno fatto del Pranava il perno intorno a cui ruota la loro musica. In proposito, mi limito a citare come paradigmatico il brano “OM”, di David Parsons, posto ad introduzione di Dancing to the flute, un bellissimo CD dedicato alla musica classica, vocale e strumentale, del Nord India. Il mantra intonato in questo brano è la Gayatri («Meditiamo su quella eccelsa luce del divino Sole; illumini Egli la nostra mente»)[5]; esso è accompagnato da conchiglie, campane, dal sarangi, uno strumento capace più di ogni altro di imitare le sottigliezze della voce umana, e dalla tampura, la madre di tutti gli strumenti indiani rappresentante la Shruti, la Gnosi direttamente udita, la Voce dell’Eternità.
Nominando il Gayatri mantra – che si recita al sorgere del sole ed assume un ancor più alto valore se il dvija (il due volte nato) lo salmodia a Kashi (Benares), mentre il sole si innalza dalle acque della Ganga – non si può fare a meno di rammentare i seguenti versi di Dante, riferiti a San Francesco d’Assisi: «Di questa costa, là dov’ella frange / più sua rattezza, nacque al mondo un sole, / come fa questo tal volta di Gange» (Paradiso XI, 49, 51). Vi è dunque una stretta relazione tra la Gayatri e San Francesco, il cantore della bellezza della Creazione-Manifestazione. Tale sorprendente coincidenza ci sembra rimandare a quell’“Unità trascendente delle Religioni” alla quale Frithjof Schuon dedicò un libro dal titolo omonimo.
È ovvio che la musica sacra, risultando fastidiosa agli ascoltatori profani, non potrà mai riscuotere vasti consensi, né venire facilmente  commercializzata. Ed è altrettanto ovvio che chi si dedichi ad essa sarà necessariamente un devoto del profondo. È opportuno, tuttavia, data la straordinaria abilità dei mass media a banalizzare cose sublimi, vigilare affinché il profondo non venga scambiato con l'imitazione parodistica di esso. Le vestigia che alla Presenza del Reale conducono sono riconoscibili da quelli che la consapevolezza del sublime hanno già in Sé. Perciò va ribadito che è da insensati tentare di sistematizzare l’avvicinamento al Reale; un’insensatezza sino ad un certo punto proficua, forse (Nagarjuna considerava la dottrina buddhista dell’abhidharma un «errore utile»[6]). Chiedersi come mai alcuni lo realizzino e altri no è superfluo. Nella Postfazione di Maurizio Barracano a Il suono filosofale - Musica e alchimia, di Bruno Cerchio, si legge: «La ragione (lat. ratio da reor, "soppeso") così come il pensare (lat. penso da pondus, "peso") non possono essere utilizzati per conoscere la natura delle cose, la loro qualità, ma semmai per misurarne la quantità».[7]
L’opera testé citata si rivolge ai lettori-ascoltatori che abbiano intuito in qualche modo le potenzialtà trasmutatorie e sapienziali dell’arte in generale e in particolare della musica, la forma artistica più diretta ed immediata. Nell’Introduzione, l’Autore sottolinea la differenza tra la concezione moderna dell’arte e la visione tradizionale o arcaica; quest’ultima, per essere rettamente compresa, non va esaminata sotto gli aspetti storicistico, filosofico o esteticoedonistico, bensì sub specie interioritatis. Il percorso lungo il quale si muove la ricerca del Vero in sé è di tipo catabatico-anagogico ed è sostanzialmente identico a quello dell’armonia musicale e delle sue divine proporzioni. «Se la natura del mondo è musicale – nota Cerchio – e se le trasformazioni di questa natura sono alchemiche, l’alchimia è musica e la musica è alchimia».[8]
Raro è incontrare persone con le quali condividere quantomeno l’aspirazione alla profondità e tratti del percorso alchemico. Pullulano invece i fantasmi, gli alienati e i “falsi profeti” (sedicenti scienziati, pseudo-guru, politici falsi o incapaci, ecc.) intenti a giocare col fuoco sacro della vita. Non si tema dunque di abbandonare le vie larghe, adatte alla canea. Meglio avere due o tre buoni amici, piuttosto che intrattenere relazioni con frotte di plagiati presuntuosi. Ezra Pound si addormentava quando i giornalisti lo intervistavano: le loro domande erano troppo superficiali e noiose. L’ascolto profondo è affilato come la lama di una spada: consuma i sostegni sensibili e lascia la coscienza priva di oggetto; si fonda sul non-sapere ed è inaccessibile persino ai dotti; nessuna scienza, nessuna tecnica, nessun corso, nessuna pseudo-iniziazione lo svelano. In quanto “io” empirici non lo si può condividere con nessuno, non lo si può trattenere, né suscitare. Locuzioni quali “attenzione senza oggetto”, “Coscienza cosmica”, “Voce del Silenzio”, “Intelligenza del Cuore” o “Sommo Bene” rimandano tutte ad un Unicum: l’“esperienza” dell’Ineffabile, mai iniziata, mai conclusa, più vicina a noi del nostro stesso pensiero, più vicina del respiro. È in conseguenza del suo nunc stans – per dirla con Boezio –, che il disattento la trascura. Chi la realizza è libero e sa la pace-shanti.

NOTE
[1] Margherita Porete, Lo specchio delle anime semplici, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo, ‘94, p. 439.
[2] Ibidem, pp. 309 e 319.
[3] Elémire Zolla, La filosofia perenne, Mondadori, Milano, ‘99, p. 144.
[4] Sul significato del Pranava e, più in generale, dei termini sanscriti, cfr. Glossario sanscrito, Ediz. Asram Vidya, Roma, ‘88.
[5] Cfr. M. e J. Stutley, Dizionario dell’Induismo, Ubaldini Ed., Roma, ‘80.
[6] Nagarjuna, Le stanze del cammino di mezzo, Ed. Boringhieri, Torino, ‘68, cap. I.
[7] Bruno Cerchio, Il suono filosofale - Musica e alchimia, Libreria Musicale - Italiana Editrice, Lucca, ‘93, p. 134.
[8] Ibidem, p. 8.
[9] La sintetica espressione latina è citata da Mircea Eliade in una sua definizione del liberato in vita; e tale definizione viene riportata da Elémire Zolla in op. cit., p. 137. Per un approfondimento del concetto di Liberazione nell’hinduismo, si consiglia la lettura di Vidyaranya, La Liberazione in vita - Jivanmuktiviveka, a c.
di Roberto Donatoni, Adelphi, Milano, ‘95.