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Una pagina al giorno: Ricordo di Attilio Mordini, di Franco Cardini

di Francesco Lamendola - 14/10/2009


Di Attilio Mordini avevamo già avuto occasione di parlare in occasione di un precedente articolo, comparso in questa stessa rubrica, intitolato «Una pagina al giorno: Il mito del giardino, di P. Porcinai e A. Mordini», in data 24/08/09.
In quella sede, avevamo tracciato un brevissimo profilo biografico di quella anomala figura di intellettuale della metà del Novecento, passato quasi inosservata agli occhi di una società, come quella italiana, cambiata troppo in fretta e, per giunta, tradizionalmente distratta rispetto ai suoi uomini migliori.
Ne ricapitoliamo i tratti essenziali, per quanto sembri che egli abbia quasi desiderato velarsi, tanto è stata schiva e riservata la sua esistenza, quella di un teologo e scrittore cristiano trascorsa fra continui dolori e sofferenze, che è si è sempre tenuto nell'ombra ed è morto in silenzio, lasciando dietro di sé una decina di libri di alta spiritualità, ma del tutto sconosciuti al grande pubblico.
Era nato a Firenze il 22 giugno 1923 e morì nella sua città il 4 ottobre 1966; volontario nella seconda guerra mondiale sul fronte russo e, in seguito, arruolatosi nell'esercito della Repubblica Sociale Italiana, fu, dopo la fine del conflitto, sottoposto ad arresto e a una carcerazione ove contrasse il germe della tubercolosi. Tornato alla sua vita appartata di terziario francescano, circondato da una ristretta ma scelta schiera di amici e discepoli, visse per altri vent'anni, tormentato da continue sofferenze. Già un elenco dei titoli principali delle sue opere rende un'idea della sua straordinaria ampiezza di orizzonti e  della sua assoluta originalità ed esemplare indipendenza di giudizio.
Citiamo, in particolare, «Il segno della Carne» (Firenze, 1956; ma scritto con lo pseudonimo di Ermanno Landi); «Dal Mito al materialismo» (Firenze, 1966); «Verità del linguaggio» (Roma, 1974); «Il mito primordiale del Cristo quale fonte perenne di metafisica» (Milano, 1976); «Il mito dello Yeti alla luce della tradizione biblica» (Milano, 1977); «Il Tempio del Cristianesimo» (Roma, 1979); «Francesco e Maria», Firenze, 1986); «Il mito antico e la letteratura moderna» (Roma, 1989); «Il cattolico ghibellino» (Roma, 1989); «Verità della cultura» (Rimini, 1995); «Passi sull'acqua» (Roma, 2000); «Povertà regale» (Firenze, 2001); «Il Tempio del Cristianesimo» (nuova edizione, Rimini, 2006).
Si sarà notato che gran parte dei libri di Attilio Mordini sono stati pubblicati postumi; come spesso accade agli intellettuali che non amano gonfiare il petto sotto la luce dei riflettori, qualcuno si è accorto del loro valore solo dopo che egli era morto, in silenzio e in solitudine.
Nel precedente articolo avevamo concluso con l’auspicio che la nostra breve ma sentita testimonianza, avrebbe potuto far nascere una maggiore curiosità intorno alla sua figura e ridestare un interesse nei confronti dei suoi lavori, a suo tempo passati praticamente inosservati alle grandi case editrici e alla maggioranza del pubblico.
È venuto il tempo d riprendere il discorso, presentando un brano della interessante autobiografia spirituale dello storico Franco Cardini, fiorentino, classe 1940, docente di Storia medievale presso quella Università, che di Mordini era stato amico e discepolo negli anni Sessanta, fino alla prematura scomparsa del maestro.
Cardini è autore di studi e ricerche apprezzati a livello internazionale, fra i quali ricordiamo: «Alle radici della cavalleria medioevale» (1981), «Quell’antica festa crudele» (1982), «I giorni del sacro» (1983), «Testimone a Coblenza» (1987), «Il Barbarossa» (1989), «Francesco d’Assisi» (1991), «Il giardino d’inverno» (1995), «L’avventura di un povero cristiano» (1997), «L’avventura di un povero cristiano» (1997), «Giovanna d’Arco» (1998), «Il Saladino» (1999), «Europa e Islam» (1999), «Il guardiano del Santo Sepolcro» (2000, in collaborazione con Simonetta della Selva), «Federico Barbarossa, il sogno dell’Impero» (2000), «L’apogeo del medioevo. I secoli XII-XIII» (20001), «I cantori della guerra giusta» (2001), «La globalizzazione. Tra nuovo ordine e caos» (2005), «Le radici perdute dell’Europa. Da Carlo V ai conflitti mondiali» (2006), «Tamerlano. Il principe delle steppe» (2007), «La tradizione templare. Miti, segreti, misteri» (2007).
Queste, lo ripetiamo, sono solo alcune delle opere della sterminata produzione di questo storico politicamente scorretto, perché non ha mai fatto mistero delle sue idee politiche di destra, anche quando ciò non era affatto di moda e anzi, diciamolo pure, quando (negli anni Settanta) era decisamente controproducente, sia per la carriera professionale che per la vita sociale.
Abbiamo deciso di presentare al pubblico un brano tratto da uno dei suoi libri più espliciti e sinceri di riflessione politica ed umana su quello che lo storico inglese Eric Hobsbawm ha definito «il secolo breve», ossia il Novecento (breve perché iniziato nel 1914 e concluso con la caduta dell’Unione Sovietica, nel 1991; e, nondimeno, secolo terribile, forse il più terribile della storia): una autobiografia spirituale intitolata «L’intellettuale disorganico» (Torino, Nino Aragno Editore, 2001, pp. 58-62), nel quale tratteggia, appunto, un profilo di Attilio Mordini:

«Quando Giulio [Schettini] abbandonò la nostra pattuglia, essa si era già dispersa, sfrangiata e polverizzata. Ne restava un nucleo forte, tenuto insieme anche da profondi legami di amicizia personale e stretto attorno alla memoria d’un altro amico immaturamente scomparso (lui, però, a circa quarantaquattro anni): Attilio Mordini, ex volontario di guerra in Russia e quindi nella RSI, valentissimo studioso di filologia germanica sotto la guida di Vittorio Santoli, terziario francescano, cattolico e collaboratore di Rodolfo Oxilia nella redazione della papiniana “L’Ultima”.
Ad Attilio debbo una gratitudine difficile da tradursi in parole:  gli debbo l’avermi insegnamento a leggere Tommaso d’Aquino e Dante, l’avermi introdotto seriamente al grande mondo della cultura austro-tedesca (dal Principe Eugenio a Mozart alla tradizione asburgica), l’avermi ispirato un amore severo e profondo per l’Europa liberandomi dalla tentazione risorgimentalistica e nazionalista della “vulgata” missina; l’avermi introdotto a una comprensione intima dell’ebraismo e dell’Islam come religioni sorelle del cristianesimo; l’avermi insegnato i rudimenti della lettura simbologica dell’arte  e della liturgia cristiane che avrei più tardi- come medievista – fruttuosamente verificato; l’avermi aiutato a leggere - e a disincantare - quegli autori, come Evola e Guénon, che costituivano la “tentazione esoterica” dei giovani della mia parte politica e della mia generazione i quali militavano appunto in un partito minoritario, ma dovevano portare un peso in più in quanto non ne accettavano, minoranza nella minoranza, la “Weltanschauung” mazziniana e gentiliana.
Mordini ci fornì le chiavi essenziali per una critica serrata, non isterica né preconcetta, della modernità, ben diversa per qualità dal pesante e farraginoso spenglerismo esoterico della "Rivolta contro il mondo moderno” di Julius Evola, nostra Bibbia di allora. Mordini c’introdusse alla lettura di autori quali Burke e De Maistre, ci avviò a interpretare quella stessa esperienza fascista alla quale le sue giovanili scelte l’avevano portato e cui restava moralmente fedele (ed era quello, per lui, un modo per dare un senso alla sua stessa vita: imprigionato dopo la guerra per crimini mai commessi, aveva contratto nelle disumane condizioni della sua prigionia la tisi che l’avrebbe condotto, sia pur vent’anni dopo, alla morte) non certo, crocianamente, come malattia morale essa stessa, sì però come tragico esito della crisi etica, istituzionale e sociale che aveva colto l’intera Europa contemporanea con la prima guerra mondiale e che si era trasformata nel “Totentanz” dal quale l’intero continente era stato travolto.
In tal senso il tradizionalismo mordiniano, pur non risolvendosi in un ordinato e coerente magistero - la sua stessa precoce scomparsa non gli dette, del resto, tempo sufficiente a sviluppare e formalizzare adeguatamente il suo pensiero -, ci consentì d’intravedere la via d’uscita dal provincialismo missino, ci additò gli orizzonti d’un universalismo fortemente ancorato all’Europa e al Mediterraneo (e tanto simile, per molti versi, al nucleo più serio delle idee dello stesso Giorgio La Pira), ci liberò dai fantasmi del nostalgismo politico, del nazionalismo e del razzismo. Fu, ancora, Mordini che nei primi anni Sessanta - quando nessuno o pochissimi ancora ne parlavano in Italia - c’informò sullo strutturalismo distinguendone i rispettivi esiti in linguistica e in antropologia; fu lui a farci conoscere per primo i lavori di Mircea Elide  e di Georges Dumézil; fu lui a parlarci di Wittkover, di di Krautheimer, di Panofski e della “scuola del Wartburg”. Ricordo ancora come una stagione splendida quei lunghi mesi tra il 1961 e il 1962, che coincisero con le primissime occupazioni studentesche delle facoltà, alle quali la nostra pattuglia (in disaccordo abbastanza profondo con la linea ufficialmente tenuta dal partito nel quale ancora e nonostante tutto ci riconoscevamo, arroccato da parte sua su un anticomunismo miope e provinciale) partecipò sia pure in modo critico e sofferto. Cominciavamo a individuare, allora, un possibile esito  per il nostro "fascismo”: la lotta a fianco di tutti i poveri della terra, delle vittime delle vecchie e delle nuove colonizzazioni, contro le due superpotenze che, con il “brigantaggio di Yalta” del 1945, si erano divise il mondo imponendogli non solo la loro egemonia, ma anche la falsa alternativa tra “libertà” individualistica e capitalista e “socialismo” tirannico. Per questo le nostre simpatie si stavano orientando verso personaggi quali Perón, Nasser e Castro, che sembravano aver lottato e lottare per aprirsi nelle strette delle due egemonie, spazi nuovi  e affermare una nuova dignità per popoli  che, fino ad allora, erano stati oggetto e non soggetto di storia.
In quei mesi, durante il giorno c’erano le lezioni di Sestan, di Cantimori, di Contini, di Longhi, di Pugliese Carratelli, di Garin; e la sera ci aspettavano la semplice e calda ospitalità dello studio di Atttilio in Via San Gallo, le lunghe chiacchierate fino a tardi, la lettura comune di saggi e di testi alternata spesso con ampie soste di meditazione e anche di preghiera. Mordini fu per noi un fratello maggiore e una guida spirituale: attorno a lui costituimmo, per molti versi, una vera comunità, una Torre d’Avorio. Di quell’eredità - incentrata su una forte meditazione della “philosophia perennis” e ravvivata da una intensa e devota riflessione mariologica - vivo ancora. Ho contratto senza dubbio, da quell’intenso magistero, anche limiti ed errori, dai quali mi è stato penoso in seguito liberarmi; e da cui forse mai per intero mi sono liberato. Ma ripenso ad esso con l’affetto e la riconoscenza che si debbono ad uomini, cose e circostanze  senza i quali - nel bene e nel male -  non saremmo quello che siamo.
Attilio partì nel ’63 per un lungo periodo d’insegnamento nell’università di Kiel. Seguì solo a una certa distanza il nostro esperimento di collaborazione ai “Centri per l’Ordine Civile” di Gianni Baget Bozzo: una proposta di costruzione di gruppo politico cattolico caratterizzato da una dinamica nelle intenzioni alternativa alla DC, ma che si concluse tuttavia in pochi mesi senza lasciare almeno in noi un vero e proprio segno. Mordini, quanto a lui, tornò a Firenze alcuni mesi dopo, sempre più innamorato della “sua” Germania ma deluso per l’ambiente accademico anche là non troppo generoso né, in fondo, libero. Lo sforzo sostenuto in quei mesi d’intenso lavoro e forse anche il clima della Germania settentrionale, salubre ma troppo rigido, ebbero ragione sul suo fisico provato. Se ne andò difatti poco dopo, il 4 ottobre 1966, nel giorno di quel Francesco d’Assisi ch’era stato il suo modello spirituale e del quale, come terziario, portava l’abito. Esattamente un mese più tardi, il 4 novembre, su Firenze si abbatteva la terribile e memorabile alluvione dell’Arno. Per la nostra piccola comunità la coincidenza dei due fatti costituì un segno destinato a restarci impresso tutta la vita. Sentimmo, allora, che una pagina della nostra esistenza era stata voltata per sempre.»

Intellettuale scomodo, dunque, e assai «disorganico», lo storico Franco Cardini, perché non propenso a navigare secondo il flusso della corrente politica e culturale del momento; il quale si assume il compito di rievocare in questa pagina, con commossa gratitudine, un altro intellettuale, ancora più scomodo, se possibile, e profondamente «disorganico», quale è stato il teologo suo concittadino, Attilio Mordini.
Forse, chi ci ha seguiti nella lettura del precedente articolo sarà rimasto colpito, e magari scandalizzato, da una citazione, nel libro «Giardini d’Occidente e d’Oriente», di un concetto espresso da Rosemberg, che suona così:

«Plinio il Vecchio (29-79 d. C.), uno degli uomini più colti del proprio tempo, scriveva: "Mentre l'animale per l'istinto della sua specie sa mangiare, latrare o barrire, correre o saltare, l'uomo nulla sa che non gli venga insegnato dalla tradizione dei padri. Per istinto l'uomo può fare solo una cosa: piangere."
Di qui l'importanza, in ogni manifestazione umana, dei miti e della storia.
Per creare il suo futuro l'uomo ha sempre avuto bisogno del suo passato e quando, come oltre un secolo fa (con la modernità) pensò di rompere per sempre i ponti con la tradizione, dovete, dopo pochi ani, istituire la TRADIZIONE DEL NUOVO come la definisce Alfred Rosemberg.
Di qui l'importanza, in ogni manifestazione umana, dei miti e della storia.»

Là dove Alfred Rosemberg è (nonostante quella «m» al posto della «n», evidentemente un refuso d stampa) proprio quello lì: il filosofo del nazismo, processato ed impiccato dalla corte di giustizia alleata di Norimberga.
Come si fa a citare, oggigiorno, un personaggio del genere?, potrebbe chiedersi il lettore benpensante e politicamente corretto. Come si fa a presentare un filosofo così improponibile, senza con ciò voler fare una apologia del nazismo?
Ebbene, nessuna apologia del nazismo; semplicemente, la perfetta libertà intellettuale di un autore, come Attilio Mordini, che non subisce ricatti di sorta da parte di nessuno; e che, se trova un concetto valido anche in un filosofo reazionario e razzista, non per questo lo rifiuta, perché non è uso a gettare via il bambino appena nato insieme ai pannolini sporchi.
La cultura non è mai così ricca da potersi concedere simili sprechi; a meno di volersi adattare a una vita stentata e mortificante, dominata dalle solite figure politicamente corrette (al momento!) e quindi viziata da un inguaribile conformismo e da una asfittica atmosfera di adorazione della Vulgata del vincitore, chiunque egli sa.
Ecco: questo piccolo e quasi insignificante particolare può darci la chiave, e la misura, della assoluta indipendenza di giudizio di uno scrittore come Attilio Mordini.
Ringraziamo Franco Cardini per avercelo fatto conoscere un po’ meglio, per averci fornito lo stimolo per andare a leggere direttamente le sue opere.
Dalle quali poi, come certamente era anche nel suo stile culturale ed umano, saremo perfettamente liberi di prendere quello che per noi sarà positivo, e di rifiutare il resto; ma con un pensiero di affettuosa riconoscenza per un uomo e uno studioso che ha sempre dato, senza mai chiedere nulla in cambio.