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Un’altra agricoltura per un altro clima

di Esther Vivas* - 06/11/2009




Il modello attuale della produzione agricola e dell’allevamento industriale contribuisce ad approfondire la crisi ecologica globale con un impatto diretto nella creazione del cambio climatico. Anche se a prima vista non lo sembri, la agroindustria è una delle principali fonti di emissione di gas ad effetto serra.
Così lo ha manifestato la campagna “ Non mangiarti il mondo”, nel quadro delle mobilizzazioni di questi giorni con motivo della riunione delle Nazioni Uniti a Barcellona sul cambiamento climatico, previa al summit cruciale a Copenhagen (COP15) a dicembre, dove si approverà un nuovo trattato che sostituirà quello di Kyoto.
In base alla campagna, tra un 44 e un 57% delle emissioni dei gas ad effetto serra sono provocate dall’attuale modello di produzione, distribuzione e consumo di alimenti. Una cifra risultante dalla somma delle emissioni causate dalle attività strettamente agricole ( 11- 15%), dalla deforestazione (15-18%), dall’elaborazione, trasporto e refrigerazione degli alimenti ( 15- 20%) e dai residui organici (3-4%).
E non possiamo dimenticare gli elementi che caratterizzano questo sistema di produzione degli alimenti: intensivo, industriale, chilometrico, non locale e petro- dipendente. Vediamo dettagliatamente.

Intensivo: perché porta avanti un sovra sfruttamento dei suoli e delle risorse naturali che finiscono per generare la liberazione di gas ad effetto serra da parte dei boschi, campi coltivati e prati. All’ anteporre la produttività, prima della cura del medio ambiente e la rigenerazione della terra, si rompe un equilibrio attraverso il quale i suoli catturano e conservano carbonio, contribuendo alla stabilità climatica.

Industriale: perché consiste nel modello di produzione meccanico, con l’uso di agrochimici, mono coltivi, ecc. L’uso di grandi trattori per arare la terra e processare il cibo contribuisce alla liberazione di altro Co2 . I fertilizzanti usati in agricoltura e nell’allevamento moderno producono una importante quantità di ossido nitroso, una delle fonti principali di emissioni di gas serra. Allo stesso modo, bruciare i boschi , le selve….per trasformarli in prati o mono coltivi finisce per colpire gravemente la biodiversità e contribuisce a liberare una quantità massiccia di carbonio.
Chilometrico e petro dipendente, perché si tratta di produrre le merci non in loco alla ricerca della mano d’opera più economica e della legislazione medio ambientale più lassa. Gli alimenti che consumiamo percorrono mille di chilometri prima di arrivare sulla nostra tavola con l’impatto ambientale che ne consegue. Si calcola attualmente, che la maggior parte degli alimenti percorrono tra i 2.500 e 4.000 chilometri prima di essere consumati, un 25% in più rispetto al 1980. Ci troviamo di fronte ad una situazione totalmente insostenibile dove, per esempio, l’energia per inviare qualche lattuga dall’ Almeria in Olanda è tre volte superiore a quella usata per coltivarla, allo stesso modo che consumiamo alimenti che provengono dall’altra parte del mondo quando molti di questi si coltivano anche a livello locale.
L’allevamento industriale è un altro dei principali causanti dei gas serra e la sua crescita ha significato una maggiore deforestazione con un 26 % delle superficie terrestri dedicate a prati e il 33% della produzione di grano per mangime. Le loro percentuali di emissioni equivalgono al 9 % di quelle di Co 2 ( principalmente per la deforestazione), il 37 % di quelle di metano ( per la digestione dei ruminanti) ed il 65 % di ossido di nitroso ( per lo sterco).
Questo modello di alimentazione chilometrica e viaggiante, così come l’uso di agrochimici derivati dal petrolio, implica una forte dipendenza dalle risorse fossili. Di conseguenza, nella misura in cui il modello produttivo agricolo e dell’allevamento industriale dipendano fortemente dal petrolio, la crisi alimentare, la crisi energetica e la crisi climatica sono intimamente relazionate.
Ma nonostante questi dati, possiamo fermare il cambio climatico, e come segnala il centro d’investigazione GRAIN, la agricoltura contadina locale e agro ecologica possono contribuire in modo determinante. Si tratta di ridare alla terra la materia organica che le è stata tolta, che la rivoluzione verde ha prosciugato i suoli con l’uso intensivo di fertilizzanti chimici, pesticidi, ecc. Per farlo, basta scommettere su tecniche agricole sostenibili che possano aumentare gradualmente la materia organica della terra di un 2 % in un periodo di 50 anni, restituendo la percentuale eliminata fin dagli anni 60.
E’ necessario scommettere per un modello di produzione diversificato, incorporando praterie e concime verde, integrando di nuovo la produzione animale nella coltivazione agricola, con alberi e piante selvagge, così come promuovere circuiti corti di commercializzazione e la vendita diretta nei mercati locali. Con queste pratiche, si calcola che sarebbe possibile catturare fino ai 2/3 dell’attuale eccesso di CO2 nell’atmosfera. Il movimento internazionale della Via Campesina ce l’ha ben in chiaro quando segnala che “ la agricoltura contadina può raffreddare il pianeta”.
Allo stesso modo, bisogna denunciare le false soluzioni del capitalismo verde al cambio climatico come l’energia nucleare , gli agro combustibili e altre, così come le lobby aziendali che cercano di mercantilizzare il trattato di Copenaghen . Da diversi movimenti sociali si esige “ giustizia climatica” di fronte al meccanismo di mercato incorporati nel protocollo di Kyoto e che avrà continuità a Copenaghen. Una giustizia climatica che deve andare di pari passo con la “giustizia sociale”, unendo la lotta contro la crisi ecologica globale con la lotta contro la crisi economica che colpisce grandi settori popolari, in base ad una prospettiva anticapitalista ed eco socialista. Perché il clima cambi, bisogna cambiare il mondo.
*è autrice di “ Dalla campagna al piatto “( Icaria, 2009). Articolo pubblicato su Publico , il 03-11-2209.

tratto da 
http://www.rebelion.org/noticia.php?id=94550